Corpo Urbano
Corpo Urbano nasce nel 2019 immaginando la città di San Donà di Piave come un grande organismo vivente, un corpo organico fatto di voci, suoni, immagini, imprevisti incontri, momenti laboratoriali, letture decisive, passaggi di orizzonte, liquidi vitali. Corpo Urbano è un collage collettivo nato in collaborazione con chi abbiamo avuto la possibilità di incontrare e conoscere, per attrazione o per curiosità antropologica, per prossimità con il cuore pulsante di una comunità che vive in equilibrio instabile tra vecchie e nuove trincee, tra celebrazione del passato, ebbrezze presenti e rinnovamento futuro. Una nuova “sinfonia della città”, composta registrando gli intervalli, le pause, i passaggi, ma anche gli intrecci di dinamiche e di forze all’interno della continua deriva che contraddistingue ogni centro abitato, cogliendone le specificità, i riti, le mancanze, gli sbalzi di umore, in stretto contatto con la collettività, usando la memoria individuale come arma per riappropriarsi degli spazi, ripensarli, riconquistarli, rigenerarli.
Tra il luglio e l’ottobre del 2019, con il supporto del progetto Processi di Rigenerazione Urbana[1] e con la collaborazione dei numerosi cittadini coinvolti, Corpo Urbano si è generato in forma rizomatica, diventando un po’ alla volta un’indagine sulla persistenza o la progressiva evanescenza di alcuni simboli e segni che la storia ha lasciato o ha dimenticato. Di forma ibrida e di umore cangiante, tra video-arte e documentario, nel progetto sono confluite interviste di diversa natura, derive urbane, incursioni performative, appostamenti, ricerche storiografiche e analisi antropologiche. Portando avanti la ricerca già intrapresa in altri contesti e in forme ed esiti diversi (performance, video, fotografia, laboratorio), il progetto Corpo Urbano fa riferimento a una grande metafora, quella della città immaginata come un organismo vivente e, così come un corpo, dotata di luoghi-punti più sensibili, più delicati, più esposti, sani/malati, puliti-sporchi, belli-brutti. Da curare, da allenare e fare manutenzione, con zone/organi in cui si concentrano funzioni diverse; parti che ti piacciono/che non ti piacciono/che vorresti trasformare; parti convalescenti; centro/periferie.
E così abbiamo incontrato corpi umani e non umani nello spazio pubblico. Corpi spostati, monumenti che traslocano, riti e ricorrenze, orgoglio, sicurezze e nostalgie. Nuove eucaristie alcoliche[2], trasmutazione di valori in tempi di svalutazione di comunità. Coreografie per bersaglieri. Stranieri bersagliati del nuovo millennio. Larghe mancate vedute. Fiere commerciali e fieri commercianti. Tradizioni e tradimenti. Radicamenti territoriali. Sacrifici di biodiversità e colture intensive. Zone di controllo del vicinato. Servitori della patria, piatti ben serviti, cimici cinesi, capannoni a perdita d’occhio e nutrie ben nutrite.
San Donà di Piave è (anche) una città benestante del Veneto orientale, con più di 40.000 abitanti, che ha perso parzialmente il suo baricentro nello svuotamento progressivo delle attività commerciali, traslocatisi insieme al traffico automobilistico, verso il vicino ed enorme outlet, dove si consumò il fronte della battaglia tra italiani e austro-ungarici, fino alla celebrata Battaglia del solstizio, giugno 1918, alle trincee della Grande Guerra ha sostituito altissimi argini a protezione di quel fiume che, seppur sacro alla patria, rischia di esondare allagando la città. Applicando il più rigorosamente e gioiosamente possibile la pratica dello spostamento dello sguardo, Corpo Urbano lascia parlare le immagini, nella moltiplicazione del punto di vista come tattica di decostruzione di ogni possibile rivendicazione identitaria collettiva.
Nell’individuare una via di intervento performativo nel tessuto urbano della città, provando a cogliere e decifrare lo spirito che permea, più o meno celatamente questa terra, due sono i “mondi” che hanno attratto il nostro interesse: il variegato e contraddittorio universo dell’associazionismo di carattere militare e paramilitare, quella parte di società che fa, ancora oggi, del ricordo del sacrificio compiuto da migliaia di giovani durante la prima guerra mondiale l’orizzonte di valore e la linea da seguire per guardare al futuro, non dimenticando quel passato glorioso. E poi, in un legame altrettanto inestricabile con quanto detto prima, tutto ciò che ruota intorno al fiume Piave e al suo ruolo al contempo vitale e letale, corso d’acqua ambivalente, minaccia mai doma di un’alluvione sempre prossima a venire.
“Corpo Urbano”, 2019, di Salvatore Insana e Elisa Turco Liveri (Dehors/Audela)
Status Symbol
«L’atto del monumento» – ci suggerisce Paolo Fabbri – «non è commemorativo ma performativo: è un atto di fabulazione protesa al futuro; “il monumento confida all’intimità dell’avvenire le sensazioni persistenti che incarnano l’evento”. Un blocco di sensazioni presenti e persistenti che riguardano la sofferenza degli uomini, la loro protesta e le lotte. Sensazioni “politiche” che devono la loro conservazione a loro stesse e danno così al monumento la configurazione che lo celebra» (Fabbri, 2018, pp. 125-136). San Donà di Piave, città completamente distrutta durante il conflitto ’15-’18, è teatro di numerose cerimonie in ricordo della strenua difesa italiana, è sede di svariate associazioni d’arma, di ex combattenti, reduci o eredi di una lunga tradizione in divisa, e ospita inoltre circa trenta monumenti che a titolo diverso ricordano le gesta eroiche di soldati e martiri.
Ahi, Caduti
Era un presagio dolce e lusinghiero,
il Piave mormorò:
Non passa lo straniero![3]
Sono alcuni di questi monumenti gli elementi di maggiore orgoglio identitario e di maggiore persistenza nell’immaginario collettivo locale – quello più ufficiale, quello veicolato, in tricolore, dai rappresentanti del potere locale. Cosa non può fare una statua, questo participio passato che, etimologicamente, è cosa che sta ferma, che sta ritta, in piedi e che ci ricorda qualcosa di cui non bisogna dimentarsi? Muoversi, principalmente. Sciogliersi. Cambiare d’abito o di divisa. Riposarsi. Risollevarsi una volta abbattuta. Esitare sulla propria postura. E sulla propria funzione. Parlare. Tornare sui propri passi. Assentarsi. Contraddirsi. Cambiare orientamento, orizzonte, sesso. Concedersi il lusso del rilassamento. Nei pressi del ponte della vittoria, sul Piave, a suggellare l’importanza avuta dalla città veneta durante la prima guerra mondiale, sorge una copia quasi esatta del monumento al bersagliere eretto nel 1932 a Roma, a Porta Pia. Il valore simbolico e memoriale del corpo militare e il sacrificio compiuto da migliaia di soldati caduti sul fronte sono elementi che permeano ancora le celebrazioni che si svolgono nella città nel corso dell’anno, sfidando ogni genere di anacronismo.
Sulle note de La Leggenda del Piave (La canzone del Piave), il celebre inno patriottico composto nel 1918 da Ermete Giovanni Gaeta (E. A. Mario) e pezzo forte del repertorio bandistico militare, il frammento di Corpo Urbano che abbiamo chiamato Ahi, caduti rivitalizza, trasla, scioglie progressivamente quella postura scultorea, che suggerisce una forza plastica tanto raggelata quanto in movimento, ironicamente la fa accasciare e dolcemente riposare, come corpo vivo che cade, come simbolo che cede e che chiede di deporre le armi, che si impone, nel farsi figura orizzontale, una meritata pausa, non più idolo con forza di identificazione. L’esplorazione della parte nuova della città, periferie composte da villette monofamiliari ben protette e accessoriate, da case di cura, parchi ordinati, costruiti a misura di famiglia veneta, sostanzialmente vuoti, ci ha portato ad immaginare una possibile ricollocazione della statua del bersagliere.
Spostarla dall’ingresso trionfale della città, o meglio, presentarne una versione incarnata in un corpo femminile e impreciso, e riedificarla nel bel mezzo del Parco Zucchi, un’area verde di recente riqualificazione, d’un candore senza una grande anima, sopra una collinetta artificiale e ornamentale, che non funge da luogo di vedetta, come l’argine del fiume, ma fa da sponda per le biciclette dei ragazzini. Ahi, caduti si rivela un’operazione, che, attraverso la composizione audiovisiva, ci permette, con ironia, di destabilizzare e ripensare un simbolo, sostituendolo con un corpo vivo, mobile e prossimo all’abdicazione del proprio ruolo. Se la statua troneggia, impone la sua stentorea presenza, attraverso la sua verticalità, la performer abbandona la forma plastica, si smonta sdraiandosi al suolo adottando una calma orizzontalità.
Un cambio di genere
Sulla transizione dal maschile al femminile e viceversa si gioca anche una disputa linguistica di origine almeno ottocentesca riguardo al fiume che attraversa questa terra veneta. Comunemente, si attribuisce a Gabriele D’Annunzio la spinta decisa verso la mascolinizzazione definitiva del Piave, per celebrare, nel primo dopoguerra, la Potenza Maschia del fiume che resistette al nemico e fu così elevato a Fiume Sacro Della Patria, un ulteriore eroe in divisa e di sesso maschile, rinominandolo da La Piave a Il Piave, cambiando genere e cambiando articolo al corso d’acqua.
In realtà, secondo Massimo Fanfani «il diffondersi generalizzato del maschile non era altro che una conseguenza della modernità: la scolarizzazione che tendeva a promuovere la norma dei grammatici e il progresso tecnico-scientifico e commerciale che esigeva uniformità terminologica e precisione nelle denominazioni: anche i nomi geografici andavano normalizzati, e dunque per le persone acculturate i fiumi eran tutti maschili» (Fanfani, 2015). Anche se forse la questione era più complessa, e c’era chi accusava di colonialismo linguistico gli austriaci, rei di aver imposto la forma maschile al fiume ben prima dei proclami patriottici «mostrando che l’uso popolare veneto era ancora saldamente legato a la Piave, mentre il maschile si era diffuso nelle classi più elevate come conseguenza del dominio austriaco» (Fanfani, 2015).
Colare a picco
San Donà si trova sotto il livello del mare: 1,79 metri sotto. A continuo rischio di allagamento. Se non fosse per quelle divoratrici d’acqua, quelle idrovore nate ormai a inizio novecento, tra i primi esperimenti italiani di bonifica di terre altrimenti paludose e invase da malaria. E l’alluvione, con il corso del Piave deviato da secoli per ragioni commerciali, «dove la corrente del fiume sacro corre al contrario, spinge da valle a monte» (Maino, 2014, p. 84) è una minaccia costante. Successe in modo eclatante nel 1966. Qualcosa di simile si è ripresentato nel 2018. Sulla metafora dello sprofondare, del colare a picco, della palude definitiva, dell’impaludamento esistenziale, si installa il secondo intervento performativo, già sperimentato altrove, come un tentativo di attraversare un “luogo comune” (le scalinate dei grandi palazzi: comune, chiese, ospedali, ecc…), transitato da “comuni mortali”, in un modo differente, degradandone il ritmo, colando lentamente dal più alto gradino verso il basso, senza mai alzarsi in piedi.
Vivere appieno la caduta come stato corporeo in relazione a un elemento architettonico è ripensare con mira catartica l’incubo e la catastrofe dell’annegamento, dell’affondamento, del mancato approdo a riva. Le scalinate, simbolo di ascensione, in questo caso vengono usate per compiere il percorso inverso. Non una fuga ma una lenta revisione del proprio percorso. All’orizzontalità del procedere ordinario si oppone, brusca, una verticalità inaspettata. La colata a picco è simulacro del disastro incontrollabile: non si può evitare la caduta da inciampo, da svenimento, da urto: si cade e basta. E allora si può colare a picco anche in un assolato parco di periferia, disidratati e sovraesposti al caldo estivo, come ulteriore variazione sull’essere e sul sentirsi caduti, e declinazione molle dell’esser statua mobile e abbandonata. Crollare dolcemente. In una discesa libera, a velocità raggelata.
Un trasloco: Ancillotto
La piazza principale della città, Piazza Indipendenza, ospita il monumento a Giannino Ancillotto[4], medaglia d’oro al valor militare per meriti raggiunti durante la Prima Guerra Mondiale, in cui, da aviatore arrivò persino a bombardare casa sua (la villa nobiliare di famiglia, quella che poi, ricostruita, negli anni ’70 divenne la dimora di Moira Orfei e dei suoi animali) pur di sconfiggere il nemico austriaco. Eroe dei cieli e pluridecorato, morì pochi anni dopo, paradossalmente, schiantandosi in un incidente automobilistico. Sia riguardo la piazza che nei confronti del monumento, i pareri sono discordanti, a causa anche di un recente restyling che ha donato una nuova immagine al luogo o piuttosto ha restituito alla piazza la sua funzione “originale”, e ha portato al costoso spostamento del monumento stesso, opera dell’architetto Pietro Lombardi e inaugurato nel 1931 in piena in epoca fascista.
L’alzabandiera
Milizie abdicanti in parata. Pronte al congedo definitivo. Giochi di ruolo e arruolati a tempo determinato. Ricostruzioni e revisioni. Fiumi che cambiano genere a fine celebrativo. Il corso degli eventi è bagnato da fiumi di spritz. Argini che negano la vista del fiume. Strade senza guardrail. E la gente, pur se la guerra è finita da oltre un secolo, continua a cadere. Per guida in stato di ebbrezza finisce dritto in acqua a gran velocità, producendo di rimbalzo nuove cerimonie e nuove edicole votive. Oppure, per disparata disperazione, si lascia andare da quel ponte simbolo di riscossa patriottica e al contempo, più recentemente, trampolino di lancio per numerosi tentati o riusciti suicidi. Nella difficoltà di dirsi e farsi comunità in tempi di svuotamento ideologico e di inaridimento delle attività commerciali nel centro cittadino, i baluardi identitari rimangono quelli legati al passato glorioso, mentre le esperienze riuscite di convivenza intergenerazionale, con una certa tradizione come collante che unisce le diverse stagioni della vita, sono rare, fragili e a tratti commoventi[5].
Per il resto «tentano di ripristinare continuamente i valori dell’ex contado serenissimo in mezzo ai parchi commerciali e ai villaggi residenziali di nuovissima costruzione e prontissima consegna. Abbiamo conosciuto l’alfabetizzazione, la stabilità alimentare, l’allungamento della vita media, l’alcolismo, la bulimia, le autostrade, gli abiti confezionati, le carte di credito […]. Ormai la frizione generazionale è evidentissima: chi ha sgobbato una vita per farsi la casa è lontanissimo da chi la vita full optional compresa la casa l’ha avuta servita gratuitamente dai propri vecchi. Chi è entrato gratis nella vita l’ha aggirata: gliene si può fare una colpa?» (Maino, 2014, p.18).
Per immaginarsi o ricostruirsi una “identità” storica e collettiva restano le commemorazioni, le rievocazioni, le memorie, solo parzialmente condivise, lasciando, in questi simboli di un passato glorioso, tracce illeggibili per alcuni, indispensabili per altri È questa città costretta a farsi e dirsi museo a cielo aperto? Lasciando ai numerosi bar il ruolo di principale occasione di incontro e socializzazione per le nuove generazioni? Il rischio è forse quello di cui parla Hito Steyerl: «a volte la storia invade l’ipercontemporaneo. Non è più il resoconto di eventi post factum, ma agisce, simula, continua a cambiare. La storia è un attore proteiforme, quando non un combattente irregolare. Attacca sempre alle spalle. Preclude qualunque futuro […] Non è più un’impresa nobile, da studiare in nome dell’umanità per evitare il ripetersi. Al contrario, la storia in questi termini è parziale, partigiana e privatizzata, un business interessato, un pretesto per rivendicare qualcosa, un oggettivo ostacolo alla coesistenza e una nebbia temporale che castiga i popoli nella stretta mortale di origini immaginarie. La tradizione degli oppressi si trasforma in un battaglione di tradizioni oppressive» (Hito Steyerl, 2018, p.12).
E tacque il Piave: si placaron l’onde…
Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò
né oppressi, né stranieri![6]
Note
[1]Si veda Spiriti creativi Cfr.
[2]Punto di riferimento per noi è stata la narrazione di caustica, disperata lucidità che di San Donà e del basso piave fà Francesco Maino in Cartongesso, Einaudi, Torino, 2014.
[3]Ermete Giovanni Gaeta (E. A. Mario), La Leggenda del Piave (La canzone del Piave), composta nel 1918.
[4]Di Giannino Ancillotto e del monumento a lui dedicato ne parla accuratamente Carlo Dariol sul suo sito e precisamente QUI
[5]Si veda ad esempio l’attività pluriennale del Coro Monte Peralba, che porta avanti da più di cinquant’anni una memoria viva del canto tradizionale e con cui abbiamo realizzato un altro frammento di Corpo Urbano, Olmè
[6]Ermete Giovanni Gaeta (E. A. Mario), La Leggenda del Piave.
[7] Qui una traduzione di Stradario, il sonetto di Carlo Dariol presente nel video: Là dalle parti di Borgovecchio/ dove stanno costruendo un milione di case/ hanno intitolato due strade nuove/ a due ragazzi morti, e questo dispiace/ da carabiniere, uno è morto durante un’esercitazione/ l’altro era di base/ a Nassirya dove ogni giorno piovono/ granate: hanno combattuto per la pace. Mio zio ha lavorato per trent’anni/ come macchinista della ferrovia/ è morto durante un incidente sui binari/ e in questo caso nessuno gli ha dedicato una via/ eppure in coscienza mia ha combattuto/ più lui per la pace dei due militari…
Bibliografia
Maino F., Cartongesso, Einaudi, Torino, 2014.
Fabbri P., I monumenti sono ritornelli, aut aut, Il Saggiatore, n. 378, giugno 2018
Fanfani M., Fiumi femminili, fiumi maschili, Accademia della Crusca
Steyerl H., Un carrarmato sul piedistallo, in Duty Free Art, Johan&Levi, 2018.
Dariol C., La città delle bave, Edizioni del Cubo, San Donà di Piave, 2010.
DEHORS/AUDELA è un collettivo fondato da Elisa Turco Liveri e Salvatore Insana. In D/A arti visive e arti performative confluiscono nel segno di una ricerca continua, generando nuove forme espressive che s’interrogano costantemente sulla natura delle immagini e sulle politiche dello sguardo e lavorando da sempre sull’indagine dei luoghi di confine, laddove ibrido e indefinito si manifestano. Interstizi del presente, non solo concepiti come luoghi fisici, ma anche come aspetti sociali e antropologici.