afrofuturismo
Afrofuturismo:
spazi, corpi, immaginari, estetiche, pensiero dell’afrotopia
di Cristina Lombardi-Diop

L’afrofuturismo è un’astro/nave che dal presente viaggia nel tempo alla ricerca di possibili mondi a venire. Pratica artistica delle utopie future, l’afrofuturismo usa la fantascienza come mezzo politico “per riprogrammare il presente” [1].
Al centro dell’afrofuturismo c’è un sapere afrocentrico, radicale, anticoloniale che è anche alla base dei movimenti rivoluzionari panafricanisti e dell’intellettualità afro-atlantica, da W.E.B. DuBois e R.L.C. James al Black Panther Party, e da Léopold Sédar Senghor e Aimé Césaire a Patrick Lumumba e Frantz Fanon.
Negli Stati Uniti, l’immaginario è quello “in the deep” delle culture soniche nere e urbane di città come Detroit e Chicago, che agli inizi degli anni Settanta stavano scivolando verso il deserto urbano della post-industrializzazione ed erano, apparentemente, senza futuro. Da qui l’afrofuturismo emerge e si esprime attraverso le forme underground della cultura nera vernacolare nel suono funk psichedelico e nelle copertine e i vinili di George Clinton e dei Parliament-Funkadelic – che immaginano la mitica Atlantis in fondo all’oceano, per un’intera “nation under a groove” [2] – senza dimenticare che l’immaginario afro-tecnologico arrivava già dalle esplorazioni soniche e visive extraterrestri del jazz di Sun Ra e della sua band Arkestra.
In letteratura, la sensibilità afrofuturista genera visioni alternative di imperi post-apocalittici nei romanzi Samuel R. Delany e di progenie cosmiche nelle narrazioni fantascientifiche di Octavia Butler, dove esseri nascono da incroci tra umani e insetti, tra umani e vegetali, alludendo alla possibilità di nuovi mondi post-umani e post-razzialiabitati da soggettività e corpi transgender e afro-queer.
Nel nuovo millennio, tale sensibilità trova espressione nel lavoro di artiste afrofemministe che decolonizzano l’immaginario sessuale e razziale dell’America contemporanea, come Renee Cox, il cui Cristo nero, la Regina Nanny, e le super-eroine e i super-eroi Super-J e Super-UT sono tutti militanti neri in fuga dall’oblio della storia e dalla violenza degli stereotipi che consegnano inevitabilmente il corpo nero alla frusta, al linciaggio, al terrore o ad una produttività fisica e sessuale primordiale. Filosofia della disalineazione, l’afrofuturismo libera l’immaginazione dal cerchio alienante del passato, verso una versione del Sublime in cui il terrore e la bellezza diventano tecnologie dell’io creativo.

Fuggiasche sono anche le fragili e fantasmagoriche silhouette di Kara Walker o la progenie delle donne africane incinta annegate durante il Middle Passage che generano i nuovi abitanti di Black Atlantis, capaci di respirare nel fondo dell’oceano. Frutto di leggende afrofuturiste nate a Detroit dalla mente del duo techno-electro Drexciya e dell’artista Abu Qadim Haqq, resuscitate nel film di Simon Rittmeier, Drexciya (2012), e nel corto di Akosua Adoma Owusu dallo stesso titolo, gli abitanti di Black Atlantis ritornano come presenze spettrali post-apocalittiche nei corpi dei naufraghi sub-sahariani nel film-saggio di Ayesha Hameed, Black Atlantis Retrograde Futurism (2016). Il ventunesimo secolo spinge l’immaginario afrofuturista fuori dall’oscurità della cultura underground fino alla totale visibilità di star come Beyoncé e di social media quali Instagram e Twitter, dove le voci @#Afrofuturism e @Inkrayable_girafe raccolgono migliaia di membri e followers.
Se la cosmogonia afrofuturista degli anni Settanta ritorna al passato attraverso la psichedelia nera, commistione di spiritualità subsahariana ed egittologia, oggi i neri di Chicago si immergono nella pratica del Kemetic yoga. Alternativa afrocentrica all’antico sistema di illuminazione e meditazione profonda dello yoga indiano, il metodo Kemetic lavora semioticamente interpretando gli geroglifici di Kemet (l’antico Egitto) e adottando le posizioni che sono chiaramente raffigurate sulle pareti dei templi egizi. Visionarità futura di ritorno, alla Sun Ra, l’Egitto come ‘ancient future’, il Kemetic yoga è sia una pratica mistica sia una pratica di resistenza contro la tossicità della segregazione e della violenza urbana.

L’immaginario afrofuturista si consolida nel mainstream americano con il blockbuster Black Panther. Ma alle sue spalle vi è una visione della futuribilità del passato africano che scorre profonda nella cultura nera da generazioni. Dietro il successo del film di Ryan Coogler, infatti, non c’è solo il commentario afropolitico di Ta-Nehisi Coates e la sua versione (A Nation Under Our Feet) del fumetto omonimo, ma l’immaginazione del duo della Marvel Comics, Stan Lee and Jack Kirby, che inserirono la pantera nera tra i Fantastici 4 proprio nel 1966, a pochi mesi di distanza dalla fondazione del Black Panther Party. Vi è inoltre tutta una genealogia che affonda le radici in quel processo di decolonizzazione del sapere che si esprime attraverso una contronarrazione della produttività tecnocratica occidentale. Negli scenari attuali, contro i nuovi ‘imperi’ cibernetici che sfruttano le risorse minerarie dell’Africa centrale per estrarre preziosi minerali, quali il coltan, Wakanda rappresenta un modello di autonomia e perfettibilità tecnologica contro lo sfruttamento predatorio del capitale globale.
L’Africa non più dipendente dal futuro dell’Europa, ma generatrice di futuro. L’Africa al centro dell’arte, della cultura, dell’epistemologia del ventunesimo secolo, quindi. Termini come ‘ancestrale’ e ‘tribale’, che in Europa e in Italia appaiono ancora intrisi di un immaginario coloniale non ancora destrutturato, sono invece reclamati come centrali nell’immaginario afrocentrico degli artisti afrofuturisti.
Reclamata come fonte di ispirazione e di infinite risorse spirituali, visive e tecnologiche, L’Africa appare come il riflesso della coscienza collettiva dell’intera diaspora nera. Sul continente, l’immaginario afrofuturista si materializza nelle arti visive attraverso la fotografia, il design, la moda per proporre una visione dell’Africa alternativa agli stereotipi dominanti che la vedono senza un futuro, complicando il rapporto tra tecnologia, consumismo, cultura materiale, e produzione dal basso e allontanadosi dal paradigma nordamericano.
Demistificando l’Eldorado occidentale e il suo imperialismo culturale, l’afrofuturismo approda in Europa attraverso la voce degli europei afrodiscendenti, offrendo una vera rivoluzione epistemica, quel che il filosofo senegalese Felwine Saar definisce in termini di una “rigenerazione” dell’afro-contemporaneità [3]. Crocevia tra pensiero autoctono e cosmopolitismo, l’afrotopia promette una re-invenzione del pensiero-mondo a partire dall’Africa. Non un ritorno nostalgico all’Africa pre-coloniale, ma un invito a ripensare ai beni non tangibili per ridefinire la ricchezza del patrimonio africano come chiave dei valori del futuro.

Nel panorama culturale nero contemporaneo, l’afrofuturismo si pone come uno dei campi di esplorazione estetica e politica più promettenti del nuovo millennio. I due numeri tematici di Roots&Routes propongono l’afrofuturismo come raccordo tra la sensibilità diasporica nera americana e le sue varianti in Africa e in Europa. Nell’affrontare temi che investono il rapporto tra spazialità, temporalità, estetica, filosofia, embodiment, tecno-cultura, cultura di massa, e fantascienza, Roots&Routes presenta ricerche unite da un interesse comune per un’estetica e una pratica culturale e politica derivante da esperienze afrodiscendenti e afrodiasporiche proiettate verso l’afrotopia.

Fabrice Monteiro. Photography, 2015. Copyright: Fabrice Monteiro

Note
[1] Tale è la definizione che William Gibson propone più in generale per tutto il genere fantascientifico. Citato da Kodwo Eshun in “Further Considerations on Afrofuturism.” The New Centennial Review, Volume 3, Number 2, Summer 2003, pp. 287-302, p. 290.
[2] Deep (1979) e A Nation Under a Groove (1978) sono i titoli di due brani composti da George Clinton per le band Parliament e Funkadelic.
[3] Felwine Sarr, Afrotopia. Edizioni dell’Asino, 2018. (Traduzione dal francese di Afrotopia, Editions Philippe Rey, 2016).

Fonti delle citazioni
Eshun, K., Further Considerations on Afrofuturism, The New Centennial Review, Volume 3, Number 2, Summer 2003, pp. 287-302, p. 290.
Sarr, F., Afrotopia, Edizioni dell’Asino, 2018. (Traduzione dal francese di Afrotopia, Editions Philippe Rey, 2016).

Cristina Lombardi-Diop is the Director of the Rome Studies Program at Loyola University Chicago, where she holds a joint appointment in Modern Languages and Literatures and Women’s Studies and Gender Studies. She is editor, with Caterina Romeo, of Postcolonial Italy (2012) (published in Italian as L’Italia postcoloniale) and author, with Gaia Giuliani, of Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani (2013). Founder and director of the publishing series Transiti, for Le Monnier Mondadori, Lombardi-Diop has published widely on such topics as white colonial femininity; the Black Atlantic and the Mediterranean; African cultural spaces and African diasporic literature in Italy. Most recently, she has edited (with Caterina Romeo) a special issue of the Journal of Postcolonial Studies on Postcolonial Europe (2016). Her forthcoming project explores Black subjectivity in the afterlife of Mediterranean crossings.