Sguardi di un certo genere: un organismo dalle molteplici identità
«Perciò è meglio parlare/Ricordando/Che non era previsto che noi sopravvivessimo» (Lorde, 1978 p. 277). Non era previsto che sopravvivessero. A cosa? Alla pandemia, al confinamento, alla solitudine. Nel corso del lockdown seguito al diffondersi dell’epidemia da coronavirus, non era previsto che un collettivo artistico-teatrale composto da adolescenti potesse continuare il proprio percorso di ricerca; e scoprire che l’assenza potesse essere un’altra forma di presenza.
Sguardi di un certo genere è un collettivo composto da ragazz* che perseguono, tramite pratiche performative, una ricerca del proprio posizionamento, mai certo, sempre precario e questionabile, a partire da sé. Accomunat* dall’attraversare l’età dell’adolescenza, vissuta come transizione in cui poter sperimentare la fluidità di corpi, generi, preferenze sessuali e provenienze geografico-culturali. Uno spazio ibrido e dalle molteplici identità, in cui esplorare, come una flânerie, come un’arte del fallire (Halberstam, 2011), le pluralità che siamo.
Attraverso la forma del laboratorio formativo e performativo, Sguardi di un certo genere mette al centro la relazione tra teatro e arti visive. Utilizzando un approccio multidisciplinare e la sperimentazione artistica, esso crea uno spazio impermanente in cui abitare, mai definitivamente, la soglia tra immagine e corpo. Una scuola temporanea, dunque, nata in collaborazione con HG80 impresa sociale, consorzio Solco Città Aperta e gli Spazi Giovanili del Comune di Bergamo, che gravita attorno al Festival Orlando – identità relazioni possibilità [1], e che vuole produrre un cambiamento culturale e politico attraverso l’auto-rappresentazione dei tanti, differenti sé. A caratterizzare il collettivo è inoltre la consapevolezza che nel processo artistico si è tutt* periferie rispetto a sé; consapevolezza che consente una progressiva e sempre in divenire decolonializzazione dello sguardo (Borghi, 2020), a partire dai margini (Hooks, 1998) che ognun* abita.
Creatura multiforme e in sperimentazione – come le soggettività che la abitano – Sguardi di un certo genere passa dall’essere un laboratorio teatrale per adolescenti e giovani sul tema delle identità di genere, all’essere un laboratorio permanente di ricerca, co-condotto da un dramaturg e una videomaker, che interseca arti visive e performance live; e che fa di un frigorifero la propria cornice di riferimento, mobile e instabile.
Uno spazio che, per i primi due mesi del 2020, ha preso la forma di micro-residenze di un weekend al mese dislocate in diversi spazi della città di Bergamo, in cui la progettazione è stata condivisa con le/i partecipanti ed è stato favorito lo scambio di competenze, pratiche, pensieri e immaginari. Nel passaggio da laboratorio formativo a collettivo, in cui chi partecipa è sempre più parte attiva e responsabile del processo progettuale e sempre meno eterodirett* da un’autorità formativa, l’ambizione è stata quella di generare uno sguardo critico su immaginari collettivi e stereotipati, e di innescare desideri di conoscenza e apprendimento attraverso la prossimità dei corpi.
Fino al lockdown. Nonostante il lockdown.
Nell’anno dei confini, dei confinamenti, dei lutti e delle adolescenze che un poco sfioriscono, Sguardi di un certo genere ha resistito alla tentazione della dispersione, mantenendo vivo il gruppo “storico” di partecipanti: ragazz* tra i 17 e i 26 anni, differenti per provenienza socio-culturale, orientamento sessuale, identità ed espressione di genere, ma accomunat* dal desiderio di sperimentare la propria soggettività nello spazio della performatività teatrale. Scoprendo, una volta di più, che l’io è sempre un noi. E che un gruppo non è la semplice somma delle sue singole parti. E dunque, non “io sono”, ma “io siamo”.
Siamo Senegalese, Bergamasco, Ligure, Ivoriana,
non sappiamo che origini abbiamo. […]
Veniamo da posti diversi, abbiamo case e linguaggi lontani,
corpi, sessi e sessualità diversi. Siamo simili a dei fluidi.
Vogliamo saperci adattare ad ogni contenitore: in spazi, città e corpi diversi.
Abbiamo posto dei fili come confini e li abbiamo usati per intrappolarci.
Siamo andati sulle linee gialle delle stazioni e ce le siamo pitturate in faccia.
Abbiamo cercato soglie aprendo gli sportelli dei nostri frigo. […]
Abbiamo cercato di decifrare le nostre identità,
contato le soglie che abbiamo oltrepassato.
Spostando le soglie dei confini più in là, più in là, più giù. [2]
Pratiche formative e performative: tra accostamenti, narrazioni, mutate consapevolezze e trasformazioni
Pratiche formative, performance teatrale e arti visive, in particolare fotografia e video, sono in costante dialogo nel processo artistico che guida Sguardi di un certo genere. L’équipe di conduzione è formata da un dramaturg e una videomaker e prevede in alcuni momenti del percorso la presenza di un educatore: questo si riflette nella ricerca portata avanti dal gruppo, dove diverse tecniche e sguardi mettono al centro le rappresentazioni dei molteplici sé. L’esplorazione delle possibilità e dei limiti dei corpi sono costantemente in dialogo con le biografie delle/dei partecipant*, così come la riflessione su materiali visivi può diventare il punto di partenza per un’improvvisazione teatrale, o la produzione di un’immagine può nascere da una scena e/o da un testo autobiografico.
Nell’evoluzione del gruppo due momenti sono stati centrali nella costruzione di questa relazione, sia dal punto di vista delle pratiche formative che della produzione artistica del collettivo: la visita alla mostra collettiva Dancing with myself a Punta della Dogana, Venezia [3], nell’ottobre 2018, e quella alla mostra di Birgit Jürgenssen Io sono allestita alla GAMeC di Bergamo nella primavera del 2019 [4].
Nel contesto dell’esposizione di Punta della Dogana il gruppo ha potuto immergersi in una varietà di pratiche e linguaggi differenti, raccogliendo stimoli visivi e concettuali. Alcune opere fotografiche di artist* presenti alla mostra quali Cindy Sherman, Nan Goldin, Claude Cahun e Roni Horn, sono diventate materiale formativo del laboratorio, insieme ad opere di altr* artist* che hanno rotto i confini dell’identità, del genere e della sessualità e messo in scena la propria biografia, come Robert Mapplethorpe, Ajamu X, Lorraine O’Grady, Gillian Wearing e Rotimi Fani-Kayode.
In particolare due lavori A.K.A. e Miscegenated Family Album, rispettivamente di Roni Horn e Lorraine O’Grady, hanno colpito l’immaginazione del gruppo e sono serviti come punto di partenza per un’attivazione formativa/creativa sulle loro origini e le loro, multiple, identità. Questi due lavori infatti si basano sulla tecnica dell’accostamento di due fotografie per generare un terzo senso, per innescare un racconto. Nel caso di Roni Horn l’accostamento depotenzia il binarismo di genere e critica il concetto d’identità come essenza immutabile nel tempo, mentre nel lavoro di Lorraine O’Grady la similitudine di tratti fisionomici tra le statue dell’antico Egitto e i ritratti della sorella genera un dialogo tra memoria familiare e Storia che interroga lo sguardo coloniale.
Abbiamo chiesto ad ognun* dei/delle ragazz* di creare un accostamento di immagini (già esistenti o da produrre) che rappresentasse la propria identità e di presentarlo al resto del gruppo senza però anticipare a parole il senso che si voleva far emergere dall’associazione tra le due immagini. La discussione che ne è nata ha permesso di condividere parte della propria biografia e anche di affermare, tramite una scelta, un tratto della propria identità come l’origine etnica e culturale, la sessualità, la relazione con la propria genealogia familiare e con la propria immagine. Nella seconda parte di questa attività abbiamo chiesto al gruppo di associare immagini provenienti da accostamenti di persone diverse; questo ha permesso di trovare similitudini e contrasti, e di uscire dalla propria biografia per riflettere su tratti universali dell’esperienza, innescando un processo di maggior consapevolezza riguardante l’identità del gruppo, formata dalle tracce di ognun* e dalle loro relazioni.
Il 2019 è stato l’anno della performance IO SIAMO – alla ricerca di nuove identità possibili dove un frigorifero, comune oggetto del quotidiano, è diventato, con la rimozione della parete posteriore, oggetto di scena, totem e soglia principale con cui confrontarsi nell’indagine umana ed artistica delle molteplici identità di ciascun* e del gruppo. Durante il processo che ha portato alla messa in scena di questa performance abbiamo avuto, come gruppo, il nostro secondo incontro generativo con l’arte contemporanea attraverso il lavoro di Birgit Jürgenssen. L’artista dell’avanguardia austriaca con le sue opere ha decostruito, con sguardo ironico, le rappresentazioni dominanti delle donne nella società patriarcale. In particolare nella fotografia Ich möchte hier raus! (Voglio uscire da qui!, T.d.A.) del 1976, Birgit Jürgenssen si autorappresenta nei panni di una donna, vestita e acconciata secondo i canoni di genere del suo tempo, che preme mani e volto su un vetro come se si trovasse in una gabbia trasparente da cui non può uscire, ma dove tutti la possono guardare. Quest’opera ha ispirato la produzione artistica di una delle ragazze del gruppo, Giorgia, che proprio in quei mesi stava lavorando sulla scrittura di un brano per la performance a partire da una riflessione su come lo sguardo patriarcale e le aspettative sociali modellino l’identità di genere femminile. La pratica delle fotografie performative utilizzata da Birgit Jürgenssen, così come anche da Cindy Sherman e Claude Cahun, è stata infatti ispiratrice dell’installazione video-fotografica Non decalogo dell’identità ospite che Sguardi di un certo genere ha presentato, insieme alla performance IO SIAMO, all’interno dell’edizione 2019 del Festival Orlando. Ogni immagine dell’installazione scaturiva dal processo di scrittura teatrale e rappresentava una diversa identità che i ragazz* avevano scelto di performare; tutte però erano accomunate dalla presenza del frigo e dai differenti posizionamenti rispetto ad esso. In questa chiave il frigo è diventato, nella rielaborazione fotografica dell’identità messa in scena da Giorgia, cornice che imprigiona e congela un immaginario che drammaticamente rimanda ancora all’idea di una donna che deve sempre essere perfetta, accondiscendente, seducente ed esposta alla violenza dello sguardo altrui.
Un esempio concreto di come la biografia sia entrata nel processo artistico del collettivo per uscirne trasformata è la vicenda di Francesco/Fosca/Tiresia. La presenza di Francesco si è costruita sin dal suo arrivo dentro al gruppo in una continua moltiplicazione delle possibili identità, tratto distintivo della sua autorappresentazione e filo in costante mutamento della sua narrazione. Questo aspetto ha cercato una traduzione scenica dentro la performance IO SIAMO, dove la sua uscita dal frigo/soglia dava vita a un’incessante trasformazione in scena: attraverso un movimento ripetuto si agiva la continua transizione verso nuove identità possibili, ognuna introdotta da uno spogliarsi mostrando ogni volta un nuovo strato, un nuovo abito, e un nuovo racconto, aperto sempre dalla dichiarazione al pubblico “Sono Francesco”. La strada esplorata nel suo pezzo durante IO SIAMO si è sviluppata nella ricerca in vista di Non abbiamo finito, la performance a cui Sguardi di un certo genere ha lavorato nell’estate 2020. Nella ricerca di chiavi per rileggere il presente e i mesi della pandemia, si è proposto a Francesco di lavorare su Tiresia, figura del mito che attraversa i generi e riceve dagli dèi, insieme, la condanna della cecità e il dono della visione; proponendogli in particolare di lavorare sulla riscrittura che ne fa T.S. Eliot nel poemetto La terra desolata. Questa proposta è scaturita, ancora una volta, dall’intersecarsi delle biografie con il processo artistico, nello specifico dal desiderio di dare spazio alla ricerca di Francesco nell’universo drag, e in particolare a Fosca, il suo personaggio Drag. È stato lui stesso, infatti, una volta iniziato a lavorare sulla figura di Tiresia, a proporre di mettere in scena il testo come Fosca. La questione è emersa durante le prove per la performance e ha generato un confronto vivo tra i/le ragazz* attorno alla pratica drag e alla complessità di riprogettare le relazioni dentro le continue auto-rappresentazioni dei sè; perché, come dice RuPaul «Nasciamo nudi, tutto il resto è drag». Un percorso, dunque, insieme formativo e performativo: nato a partire dalla biografia di Francesco, ha attraversato la biografia collettiva del gruppo, e si è tradotto nella presenza di Fosca in Non abbiamo finito, corifeo ora distinto dal coro, ora portavoce, ora parte dello stesso.
Corpi politici, corpi soglie: Sguardi di un certo genere e il lockdown
È dal tema delle soglie e dei confini che il gruppo Sguardi di un certo genere è ripartito a Gennaio 2020, quando si è ritrovato per riprendere in mano i fili del lavoro fatto fino a lì. Quando a Febbraio 2020 sono arrivate le prime notizie di chiusura delle scuole, che anticipavano il progressivo lockdown, Sguardi di un certo genere era al suo secondo weekend di ricerca, alla ripresa della propria esplorazione umana ed artistica attorno al proprio frigo/soglia. Rapidamente i confini da tema di ricerca, sono diventati centro della vita e delle rappresentazioni: i confini fisici della casa e delle case, ma anche e soprattutto i confini dei corpi, trovatisi improvvisamente di fronte all’urgenza di interrogarsi come soggetti pericolosi e pericolanti. Era quindi impossibile continuare in presenza il percorso iniziato, e alla prima necessità di tenere vive le relazioni per evitare un rischio di dispersione, si è presto aggiunto il bisogno di cercare nuove forme di trasfigurazione artistica del tempo che tutt* stavano vivendo, nel tentativo di rendere generativi i limiti imposti. Si sono quindi attivati due nuovi spazi di incontro: da una parte delle chiamate sulla piattaforma virtuale Zoom, in cui confrontarsi, raccogliere pensieri, gioie, paure, sperimentando nuove forme di contatto; dall’altra una chat Telegram in cui attivare una rielaborazione artistica del Tempo confinato.
Contatto, stanze, potere, notte, quotidianità, aria, coraggio, resistenza: ogni tre giorni una nuova parola nello spazio virtuale, proposta da noi formatori/trici o dai/dalle ragazz*, era spunto da cui partire per condividere scritti, fotografie, audio, link, materiali inediti creati dal gruppo o di artiste e artisti, nel desiderio di tenere viva una costante elaborazione collettiva. Lo schermo è diventato confine e soglia, dentro cui è stato possibile ritrovarsi, nell’accostarsi o discostarsi dai materiali artistici condivisi, con la consapevolezza che l’arte era ancora una volta, seppur in uno spazio mutato, l’unico canale possibile tramite cui raccontarsi e accogliere i racconti. «Per quelle di noi che non possono lasciarsi andare/Al sogno passeggero della scelta/ Che amano sulle soglie mentre vanno e vengono/ Nelle ore fra un’alba e l’altra/ Guardando dentro e fuori/ E prima o poi allo stesso tempo/ Cercando un adesso che dia vita/ A futuri» (Lorde, 1978 p. 277). Uno schermo come nuovo frigo, luogo custode del rito: l’8 Maggio 2020 Sguardi di un certo genere ha organizzato una festa virtuale per celebrare un anno dalla prima della performance IO SIAMO e qui, tra continui cambi di outfit sulle note di Elettra Lamborghini e momenti di ospitalità delle intimità di ciascun*, le stanze nei riquadri della chiamata sono diventate per una sera una grande soglia di ritualità collettive. E allora perché quando il gruppo si è ritrovato in presenza, a Giugno 2020, è stato inizialmente così difficile ricostruire una dimensione collettiva che in modo così potente era emersa durante i mesi di lockdown? Un’ipotesi è che vivere i mesi di confinamento collettivamente abbia messo Sguardi di un certo genere, sia come gruppo che come singol*, di fronte alle proprie identità; non solo come soggettività individuali (e individualiste), ma in relazione a un sistema che determina i desideri e le soggettività stesse. Trovarsi come comunità chiamata ad interrogarsi di fronte alla propria dirompente fragilità, sia in una dimensione più specifica per il gruppo che in senso ampio per il contesto di appartenenza di tutt* e di ciascun*, ha fatto emergere in modo ancora più evidente un’urgenza: quella di abitare l’arte come risposta possibile per significare la morte. Ritrovarsi insieme è stato attraversare insieme la soglia-frigo, la soglia-schermo, la soglia-stanza ed è stato faticoso: ha portato al centro le soglie-corpi, i corpi fragilizzati dalla primavera del lockdown, i corpi esposti nel non potersi toccare, spazio dove la vulnerabilità è insieme agita e subita.
Riprendere il lavoro in presenza ha comportato ancora una volta un grande atto di fiducia verso l’arte come spazio vitale per Sguardi di un certo genere: da fine giugno a inizio agosto il gruppo ha lavorato alla realizzazione di Non abbiamo finito, una performance per incarnare quanto di visibile (i materiali della chat telegram) e di invisible (il senso di appartenenza e smarrimento) è stato prodotto durante i mesi di lockdown. Ad accompagnare il gruppo nel processo creativo è stato il personaggio di Tiresia, veggente che ha attraversato i diversi generi, figura del mito che ha interrogato ciascun* chiedendo di visitare le proprie visioni. “Vedo degli alberi ballare intorno a me/il mare sopra di me” dice Aziz, uno dei ragazzi di Sguardi, mentre il coro gli risponde «Tu se sai dire dillo, dillo a qualcuno» (Mesa, 2010 pp. 344-358), facendo risuonare come eco le righe di Tiresia (oracoli, riflessi), rilettura del poeta Giuliano Mesa del mitico indovino.
Dai mesi dentro la soglia-schermo sono nate anche 8 cartoline, ognuna delle quali composta da 8 diversi frames, catturati dal flusso di pixels delle videochiamate fatte durante il lockdown, e dalle 8 parole che hanno guidato il gruppo in quel periodo di confinamento (contatto, stanze, potere, notte, quotidianità, aria, coraggio, resistenza). Il retro di ogni cartolina riporta un diverso QR code che a sua volta rimanda a uno degli 8 video realizzati a partire dal materiale registrato attraverso le videochiamate Zoom.
Durante il lockdown abbiamo condiviso immagini, musica, testi scritti da noi e da altr*, e ognuno di questi materiali rappresentava un frammento dell’esperienza che tutt* stavamo vivendo. Era difficile scegliere qualcosa che potesse racchiudere una totalità, accomunarci nel nostro sentire ed anche aprire ad un futuro, ad un altrove, ad un possibile. La riapertura del confine imposto dalla pandemia ed il ritorno alla presenza dei corpi è coincisa temporalmente e significativamente con l’uccisione negli Usa di George Floyd e con le conseguenti proteste in tutto il mondo del movimento Black Lives Matter. Questo ci ha riportati come gruppo a riflettere sul confine come margine abitato da ogni minoranza, sempre. Abbiamo decentrato lo sguardo rispetto alla nostra esperienza, alle nostre identità chiuse e parziali, e attraverso le parole di Audre Lorde in Litania per la sopravvivenza abbiamo risignificato ciò che avevamo vissuto. Abbiamo scelto questa poesia per chiudere la nostra performance nata dal lockdown, la nostra contro-narrazione (Bamberg & Andrews, 2004) del confinamento e della pandemia. Abitare questo testo come coro in scena è stato dare voce a un corpo artistico e politico, riconoscendosi come minoranze «[…] che vivono sul margine/Ritte sull’orlo costante della decisione/Cruciali e sole.» (Lorde, 1978 p. 277), prendendo consapevolezza di quanto il Tempo del confinamento abbia reso necessario interrogarsi ancora più attivamente sui posizionamenti di Sguardi di un certo genere.
A cosa «Non era previsto che sopravvivessimo»? Alla pandemia, certo, ma anche al mondo iperproduttivo delle maggioranze, dove essere donne, omosessuali, drag, afrodiscendenti, devianti rispetto alla norma, adolescenti in continue transizioni dentro le pluralità dell’io siamo richiede un continuo atto di resistenza. Non era previsto che sopravvivessimo a quello che sta oltre la soglia, all’incessante «andare, fare, fare parte» (Mesa, 2010 pp. 344-358), e forse non lo è ancora. Ma è solo dentro la tensione della pratica artistica, nel continuo processo di contronarrazioni che «I nostri sguardi sono pronti a sconfinare per esplorare ogni genere di orizzonte» [5].
Note
[1] Il Festival Orlando è un festival queer internazionale di cinema, danza e teatro che si svolge a Bergamo dal 2013.
[2] Da un manifesto scritto dal collettivo Sguardi di un certo genere.
[3] Si veda il sito Palazzo Grassi
[4] Si veda il sito GAMeC
[5] Da un manifesto scritto dal collettivo Sguardi di un certo genere.
Bibliografia
Bamberg M. & Andrews M. (eds.), Considering counter-narratives: Narrating, resisting, making sense, John Benjamins Publishing, Philadelphia 2004
Borghi R., Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo, Meltemi, Milano 2020.
Halberstam J., The Queer Art of Failure, Duke University Press, Durham 2011.
Hooks B., Elogio del margine: razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano 1998.
Lorde A., A Litany for Survival in Sorella Outsider, Il dito e la Luna, Milano 2014 (op. or. 1978).
Mesa G., Poesie 1973-2008, La Camera Verde, Roma 2010.
Lucio Guarinoni è un dramaturg, regista, autore e formatore teatrale; si occupa di adolescenze, queer, fragilità, processi artistici partecipati. Coordina la compagnia Figli Maschi, un progetto di ricerca artistica e umana sull’identità di genere e sulle maschilità e dal 2016 è conduttore del collettivo artistico Sguardi di un certo genere.
Sara Luraschi è formatrice, insegnante, conduttrice di laboratori di ripresa e montaggio video, educazione all’immagine, fotografia e comunicazione. Videomaker e fotografa, il suo campo di ricerca è principalmente quello del documentario e della video arte; dal 2018 declina le sue competenze all’interno del collettivo artistico Sguardi di un certo genere.