Se non riconosciamo cosa chiediamo alle madri di fare nel mondo e per il mondo, continueremo a fare a pezzi sia il mondo che le madri.
Jacqueline Rose
PARTE PRIMA
quale casa
Spazio chiuso che contiene oggetti e persone, in cui le simmetrie sono vincolate a oggetti e persone. Tipo un gioco: se entro io esci tu. Lo spazio finisce, l’aria pure. L’accumulo non è possibile, il rischio è soffocare. Spazio domestico dettato da tecniche normalizzatrici in cui l’ordine è stabilito da una relazione di potere (Bhabha, 2024). C’è sempre qualcunə che decide dove si può stare e dove è assolutamente proibito andare.
La casa è il primo spazio che conta, segno indelebile su un corpo che sta imparando a orientarsi, a costruire una cartografia, a farsi spazio.
Sempre ricordate come case delle donne – delle mamme e delle nonne – questi spazi blindati hanno a lungo intrappolato dei corpi che non potevano essere esposti. [Chi decide cosa è lecito vedere?] Sottratte alla vista, le donne hanno ricreato un microcosmo politico intimamente connesso alla vita intima. Così il personale è diventato davvero politico, Carol Hanisch docet [1]. Sulla soglia, sono state rimesse in discussione le tradizionali relazioni dicotomiche tra sfera pubblica e sfera privata [2]. E poi è diventato necessario lavorare, e allora le donne sono state liberate dalla trappola originaria per diventare schiave di un’altra casa. Breve storia di una segregazione che cambia casa ma non finisce.
Negli anni Sessanta, quando le donne nere – del Kentucky o del Sud Africa – uscivano all’alba per andare a lavorare nelle case borghesi dei bianchi, il pericolo non era lo spazio pubblico da attraversare prima che sorgesse il sole ma lo spazio domestico definito da una normatività altra, non riconoscibile eppure imperante. Lo schiavismo, insieme alla segregazione razziale, ha traslato la pericolosità dallo spazio pubblico a quello privato, imponendo così una riscrittura dell’abitare.
«Il sessismo delega alle donne il compito di creare l’ambiente domestico e di provvedere a esso. È stato soprattutto grazie alle donne nere se il focolare domestico si è costituito come spazio di cura e nutrimento da contrapporre alla feroce, disumana realtà dell’oppressione razzista, della dominazione sessista. […] Le donne nere hanno resistito erigendo case dove tutti i neri potessero lottare per essere soggetti, non oggetti» (hooks, 2018, p. 30).
Replicando azioni di cura in uno spazio regolato dalle regole del padrone, le donne nere hanno riconosciuto il valore sovversivo del focolare domestico, sito di resistenza e di negoziazione. Nelle loro case sono riuscite a esercitare la cura in-assenza, a difendersi – contemporaneamente – dal razzismo bianco e dal patriarcato nero.
stratificazioni, ovvero le storie che combattono
Cosa serve a una casa per essere davvero casa? Ci sono case in cui manca tutto. [E allora come le possiamo chiamare?]
Las Nietas de Nonó è un duo formato dalle sorelle di origini afro-diasporiche Lydela e Michel Nonó. Evocando storie appartenenti a un passato di cui si fanno testimoni, Las Nietas intrecciando i linguaggi del teatro con quelli della performance e della video installazione dà voce e corpo ai racconti sedimentati nei cassetti chiusi a chiave, sotto i tappeti e sulle pareti della casa di famiglia, nel quartiere operaio di San Antón a Porto Rico. Spazio di vita e di lavoro, in casa prende vita Patio Taller, spazio comunitario di ricerca artistica e curatoriale per artistə, spazio comunitario di gioco e scoperta per persone del quartiere.
Manual del bestiario doméstico (2014) è il primo lavoro del duo, punto di partenza di una ricerca dedicata alle storie dei corpi e al peso della Storia che attacca e devasta il corpo. Un esperimento performativo che, partendo dall’archivio di famiglia, indaga le crepe tra le storie di vita intrecciate al colonialismo e i diktat ufficiali che definiscono e impongono una narrazione omologata del fenomeno. Una storia che non può essere raccontata senza scavare tra le memorie domestiche e che per questo non può essere raccontata in nessun altro luogo che non sia casa. Ogni casa ha una storia, Las Nietas racconta solo una delle storie possibili e lo fa ancorandosi agli spazi di quella casa di quel quartiere marginale e periferico, e questa è già una dichiarazione di appartenenza. Forse di non-appartenenza. [Chi decide qual è il centro da cui osservare la vita?] In un ambiente domestico spoglio, incompiuto e per niente rassicurante, la performance esplora le relazioni umane a partire dall’addomesticamento dei corpi che lo Stato impone in tutti gli ambienti, dalla scuola al carcere. L’eco dei dannati della terra incombe su di noi.
La drammaturgia del lavoro impone ai partecipanti un codice: sedersi, mettersi in fila, separarsi, camminare, alzarsi, uscire, tutto seguendo le istruzioni impartite dalle performer. Las Nietas smaschera così la vana illusione della libertà domestica. In casa ci sono le porte, e quando non ci sono le porte ci sono dei confini, linee immaginarie invalicabili che nascondono spazi segreti, pericolosi.
«Stiamo curando le ferite delle mie nonne, di Mami, delle donne e degli uomini di famiglia. Dobbiamo recuperare lo spazio delle voci silenziose. Fa parte della nostra pratica scavare più a fondo nella memoria del corpo, nelle sue cellule, nelle sue ossa, fino ad aprire una finestra sulla memoria ancestrale per liberarci dai traumi. […] Creare a partire dalle nostre esperienze è anche cercare strategie per praticare la decolonizzazione dei nostri corpi» [3].
La stessa paura della nonna, la stessa paura della mamma. Non il racconto di una storia universale, soltanto una versione della storia vissuta da corpi neri, specchio per altri corpi neri: questo è Manual del bestiario doméstico. Archivio di paure trasmesse dai corpi di chi ci ha generato.
quello che dicono i muri
Parlare di casa ha a che fare con una dimensione spaziale intrinsecamente connessa a una dimensione temporale, più angosciante perché meno visibile. Le case sono abitate dalle ombre delle madri, nell’aria aleggia una storia di cui non si conosce l’origine. I muri sono pregni di una temporalità che travalica il presente. Come la pelle trattiene le cicatrici di un tempo finito, sui muri restano i segni di un passato che non ha più un corpo ma che è ancora materia.
Mi tornano in mente alcuni lavori di Valentina Medda [4]. Innescando dinamiche performative tra i linguaggi dell’arte e dell’esposizione museale, nella ricerca di Medda si insinua una corrispondenza potente tra muro e pelle. [Quale nome dare alla stratificazione delle crepe?]
E allora, dopo aver intrecciato le crepe, bisogna insistere sul concetto di riparazione (Attia, 2018). In un Occidente che si è sforzato in tutti i modi di esercitare il controllo sulle ferite degli Altri, lavorare sulla riparazione significa far emergere le cause profonde da cui si aprono queste spaccature. Così la riparazione, senza pretesa di guarigione, si trasforma in una ricerca sull’impossibilità stessa della riparazione.
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PARTE SECONDA
legge dell’arte e del teatro
Le ibridazioni tra teatro e arti visive si riorientano costantemente in relazione alla dicotomia cromatica bianco/nero, provando a decostruire l’estetica del white cube come quella del black box a favore di un possibile gray space (Bishop, 2018). Questo è accaduto negli ultimi vent’anni, ma prima? Storicamente, lo spazio espositivo e il teatro di prosa sono stati costruiti con regole rigide, impossibili da aggirare senza profanarne la sacralità. Il mondo esterno deve restare fuori: siano sigillate le finestre, chiuse tutte le porte. [Sono sicure le case in cui non entra la luce del sole?] A partire dalle riflessioni sull’effetto dello spazio scenico sul corpo compiute da Adolphe Appia [5], la storia del teatro occidentale è stata costruita intorno a uno spazio – nero – che mettesse in risalto i corpi – bianchi. Così il dispositivo black box dopo gli anni Settanta, quando negli stessi spazi – lentamente, molto lentamente – iniziano ad essere accoltə artistə di origine non occidentale, diventa il segno dell’egemonia della lingua del colonizzatore. Sostenere che le produzioni culturali dei neri possano parlare soltanto a delle presunte comunità originarie a cui si rimane per sempre legati è un postulato evidentemente razzista che riduce l’artista a unico testimone di una collettività.
Lungi dal considerare l’esperienza estetica come deriva della creatività soggettiva del singolo al di fuori di un sistema articolato sulla compromissione, è evidente che lo sguardo occidentale sui corpi divergenti rispetto al canone è alimentato da echi post-coloniali, riassorbito soltanto nell’ottica dell’esotizzazione. La violenza coloniale si esprime attraverso la disumanizzazione dell’Altro: svuotatə dall’essere corpo, lə artistə nerə diventano animatricə di un’esperienza seducente e pericolosa. Partendo dalle considerazioni di Frantz Fanon sullo sguardo bianco, Stephen Frosh sostiene che il soggetto nero viene posizionato come un oggetto non in grado di appropriarsi della fantasia di una soggettività integrata ma a disposizione di uno sguardo esterno (Frosh, 2013).
ripulirsi / Rebecca Chaillon
Psichiatra e militante rivoluzionario originario della Martinica, Frantz Fanon in “Pelle nera, maschere bianche” traccia un’analisi lucida del soggiogamento coloniale. Partendo dall’esperienza personale di intellettuale nero residente in Francia, Fanon prova a dare un nome alle cose.
«Il Nero non può compiacersi del suo isolamento. Per lui esiste solo una porta di uscita, ed essa dà sul mondo bianco. Di qui la preoccupazione permanente di attirare l’attenzione del Bianco, il pensiero di essere potente come il Bianco, questa volontà determinata di acquisire le proprietà esteriori, ovvero la parte di essere o avere che entra nella costituzione di un Io» (Fanon, 2015, pp. 58-59).
Aspirazione alla lattificazione: coprire il corpo nero con una maschera bianca che si disintegra appena il corpo viene intercettato da uno sguardo bianco. Il desiderio di bianchezza – oltre all’assoggettamento totale nei confronti dei coloni – dimostra un più profondo desiderio di riconoscimento. Il Nero non è un uomo, il Nero è un uomo nero.
Regista, performer, autrice e attivista originaria della Martinica, Rébecca Chaillon concentra la sua ricerca sugli immaginari che producono le discriminazioni, di razza e di genere. In bilico tra il comico e il grottesco, la sua poetica postdisciplinare sovrappone identità, agendo contro la discriminazione delle minoranze e delle popolazioni post-coloniali nel settore artistico francese. In whitewashing [6] (2017) cambia colore. Ribaltando il processo di lattificazione, la performance è animata da una tensione costante verso la cancellazione dello sbiancamento.
Al centro di una scatola nera dominata dal bianco del pavimento e dei fondali sta un corpo nero. È il corpo di Rébecca Chaillon. È un corpo sporco, macchiato di bianco. «L’ambiente è il pavimento, ma il corpo è meno facile da localizzare» (Spooner, 2023). In un corpo immobile si annida la storia.
Sulla scena, un’altra performer (Aurore Déon) è intenta a eliminare il bianco dal pavimento strofinando con brutale insistenza un mocio mentre l’altra, con una gestualità ripetitiva e composta che evoca la delirante ossessione per la macchia macbethiana, è intenta a eliminare il bianco che le ricopre il corpo. Mettere in bella mostra la pratica cinematografica e teatrale dello sbiancamento è un pretesto per addentrarsi in un’analisi molto più profonda, direttamente connessa al quotidiano. Allo spazio e ai lavori domestici in cui vengono relegati questi corpi, neri. Facendo affidamento su una scenografia essenziale ma pregna di significati stratificati, la performance sfrutta l’ambivalenza tra il riconoscimento del corpo di donna nera esclusivamente in relazione al lavoro di donna delle pulizie e i tempi e le modalità della cura del proprio corpo all’interno di strutture bianche.
Ipersessualizzati, oggettificati, trattati come animali, i corpi delle donne nere a servizio dei bianchi sono stati violentati dallo sguardo, bianco ed essenzialmente maschile. Feticizzazione dello straniero, per citare Sara Ahmed [7]. Cameriere, tate, badanti, domestiche: i corpi di queste donne sono stati trattati come materia insignificante a cui spetta la cura della società degli Altri. [Prendersi cura del mondo senza poter prendersi cura di se stesse, ironico paradosso.] Negando gli strumenti didascalici del teatro-documentario, Chaillon presenta un “discorso poetico con una risonanza afro-fantastica o afro-futurista” [8] che vuole ridare potere e diritto di contrattazione alle donne nere.
Nessun siero per schiarire pelli scure, “whitewashing” è l’inno di chi si libera e riacquista colore. Prima il dolore e la fatica, però.
la cura di chi
Il lavoro di cura è una modalità di relazione con lo spazio e le persone. La doppia presenza a cui sono sottoposte le donne si fa lampante: capaci di dividersi tra diversi registri spazio-temporali, le donne interpretano la cura come gesto intimo connesso alla cura e come attività di scambio e mercato, al confine tra produzione e riproduzione. La valorizzazione economica del lavoro fa sì che la cura diventi luogo prioritario della visibilità sociale delle donne. Ma visibilità non è sinonimo di identità o riconoscimento. [Esistere non basta].
«La cura non è dunque prioritariamente una questione di “affetti per”, cioè di nutrire buoni sentimenti, ma piuttosto di “essere affetti da” cioè di rendersi sensibili, permeabili, vulnerabili e rispondenti all’altro (umano o non umano) e alle sue esigenze di benessere, che sono sempre singolari, cioè espresse in modi che gli sono propri e dipendenti dal contesto» (Centemeri, 2021, p. 81).
Così, la logica della cura si palesa come condizione antropologica di dipendenza. In una società che si arrampica e cresce sui modelli di efficienza personale, le dinamiche di cura rendono manifeste l’interdipendenza tra ii corpi.
poi pulire / Lyric Dela Cruz
La casa, territorio di risignificazione costante, dagli anni Settanta in poi ha rappresentato uno degli sfondi contro il quale si scagliava il lavoro di moltə artistə. Considerando anche le modalità di cura insite nel lavoro domestico come generative di forme di conflitto, lə artistə hanno saputo svelare l’inquietudine che si annida nelle azioni che muovono i corpi a cui spetta la cura della casa. Corpi che danzano, testimoni di un archivio di gesti ripetuti nell’ambiente domestico. [Ma quale danza e quale poesia esiste nella lotta alla sopravvivenza?]. Gesti rapidi, ripetuti e automatizzati, quasi una macchina. Il lavoro domestico continua a essere un’attività di cura fondamentale su cui si poggiano le società occidentali, spia dell’etica capitalistica dedita alla produzione di plusvalore. Resiste chi è più veloce: la logica che determina il capitalismo neo-liberale e finanziario è applicata anche ai corpi. Così, li distrugge.
«Il capitalismo produce rifiuti, non merci. Trasforma in spazzatura le persone, la terra e le risorse, estrae tutto quello che può da un luogo per poi spostarsi altrove e iniziare da capo, lasciandosi dietro la desolazione, corpi e vite devastate. Chi fa le pulizie manda avanti i luoghi del capitalismo, elimina la spazzatura capitalista» (Vergés, 2021, p. 105).
L’ossessione per la ripetizione meccanica del gesto – indicatore unico di persona – assedia il lavoro multimediale e performativo di Lyric Dela Cruz. Artista e regista residente a Roma, originario di Mindanao nelle Filippine, a Santarcangelo Festival nel 2024 presenta Il Mio Filippino: The Tribe (2024) [9]. Assolutizzando un’identità, il titolo esalta l’abitudine coloniale di associare la collettività filippina, il filippino, al lavoro domestico, limitando qualsiasi altro immaginario. Nel 2005, il dizionario statunitense Merriam-Webster identifica i filippini come impiegati domestici, esaltandone la stigmatizzazione.
I filippini sono apprezzati per presunte qualità di docilità, umiltà, adattabilità, dedizione al lavoro, buon umore, orientamento alla famiglia, nonché per la competenza in inglese e alti livelli di istruzione.
E quindi, essere costretti a fare – a essere – lo stesso lavoro avvampa il senso di appartenenza comunitaria delle persone che provengono da uno stesso Paese d’origine? Dela Cruz – giustamente – rifiuta l’idea di comunità a favore di un più sfumato gruppo di persone. [Quali comunità nascono dall’esperienza della violenza subita?]
La performance, agita con la complicità di quattro persone originarie delle Filippine, si interseca alle proiezioni video che problematizzano la storia della diaspora filippina in Italia. Per un tempo che si dilata e sembra infinito, i corpi in scena raccolgono compulsivamente una montagna di spazzatura contando il tempo come nella danza, dall’uno all’otto e poi al contrario. [Palindromo: qual è l’inizio?]. La ripetizione diventa sfinimento, mai come in questo lavoro ha senso parlare di una pratica di visione incarnata (Fischer-Lichte, 2014). Il pubblico si stanca presto, non vuole guardare. Si alza, volta le spalle e se ne va – qualcuno lo fa davvero. È sempre più facile distogliere lo sguardo, coprirsi gli occhi. Più che spettatori, l’invito di Dela Cruz è quello di farsi testimoni di una storia segregata che, mediata dal linguaggio della performance, diventa pubblica. Insieme al fumo, in sala si diffonde una nube tossica. L’inquadratura forzata in cui “Il Mio Filippino: The Tribe” intrappola lo sguardo è quella che appartiene alla performatività bianca: in teatro, tuttə rivoltə verso il palco, non si può far altro che guardare. E poi, gli applausi, gesto liberatorio di chi è sopravvissuto.
lo sguardo di chi
In un Paese di bianchi, ora è lo sguardo nero a fare paura. Il privilegio bianco diventa fragilità bianca (Di Angelo, 2018). Il Bianco non è un uomo bianco. Il Bianco è un uomo. I bianchi – sempre osservatori e mai osservati – non hanno sviluppato una consapevolezza della propria identità razziale. I costumi, la cultura e le credenze dei bianchi sono lo standard in base al quale vengono confrontati tutti gli altri gruppi. La bianchezza è l’unico riferimento per la comprensione.
I corpi che agiscono sulla scena aggrediscono segretamente lo sguardo. Così la storia cambia. Lo sguardo aptico, tattile e violento dello spettatore bianco viene fatto esplodere: chi è ora il soggetto? E chi l’oggetto? In Occidente è andata persa la percezione e la consapevolezza del corpo. Il corpo, in base alle leggi di natura, è capace di molte cose che la stessa mente ammira, direbbe Spinoza. Eppure, soccombe sotto il peso di inenarrabili stati di turbamento psichico. [Quanto corpo riusciamo ancora a sentire?]
Lo scambio di ruoli annienta la dicotomia tra politico ed estetico. Se questo è vero per qualsiasi esperienza performativa, diventa lampante quando il quadro intercetta racconti di razzializzazione e colonizzazione: guardare è un atto incarnato, sta nella pelle. Individuare delle pratiche di archiviazione che trattengano i movimenti dei corpi razzializzati è un’operazione pericolosa. La linea di demarcazione tra archiviazione e feticizzazione di secondo grado è sfumata, il pericolo si annida nelle trame dei processi curatoriali. Lo spettro della whiteness si diffonde pericolosamente, diventa ancora più pericoloso quando si nasconde / stiamo allerta.
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EPILOGO
archetipo di madre
In dialetto romagnolo, azdora è colei che presiede al governo della casa. Padrona del focolare, questa madre è l’unica responsabile della condotta della casa. Le geometrie domestiche si costruiscono attorno a un centro, lì dove sta l’azdora. Ieratica. Il suo è un corpo immobile, imprigionato in un equilibrio che esclude il movimento. L’assenza è proibita, pena il fallimento dell’economia domestica. [Cosa può un corpo?]
Rubiconda in viso e un poco sporca di farina, con un fazzoletto in testa o un cappellino per accogliere i capelli. Il simbolo positivo di una operosità instancabile e il cardine del tradizionale nucleo famigliare.
Già interessato alla crudezza dei meccanismi di repressione in una famiglia della classe media, l’artista svedese di base a Berlino Markus Öhrn, durante una lunga residenza a Santarcangelo di Romagna nel 2015 [10], ha squarciato il velo dell’angelo del focolare per far affiorare il lato oscuro in un rituale black metal. Mettendo in scena un rituale farsesco con una decina di signore anziane del posto, Öhrn ha svelato una verità lampante: le donne non hanno mai smesso di prendersi cura.
[L’imposizione della cura è un’azione violenta. Così, si muore.]
Note
[1] “One of the first things we discover in these groups is that personal problems are political problems. There are no personal solutions at this time. There is only collective action for a collective solution”. Hanisch C., Notes from the second year: women’s liberation, New York, 1970. Il testo originale è disponibile online al LINK.
[2] In questo passaggio, la scelta di riferirsi alla nozione di sfera pubblica e sfera privata e non alla più generica idea di spazio pubblico e spazio privato vuole dare risalto alle teorizzazioni di matrice sociologica compiute da Jürgen Habermas e Hannah Arendt. Per un approfondimento si cfr. Habermas J., Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma, 2001; Arendt H., Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 2009.
[3] Da un’intervista a cura di Theresa Sigmund per la 10° Biennale di Berlino. Il testo completo è disponibile online al link: amlatina.contemporaryand.com
[4] Sto pensando a “Untitled#”, “Catalogo ragionato di escoriazioni sensibili”, “healing interventions for domestic wounds”.
[5] Per una ricostruzione storico-critica sull’evoluzione della scenografia moderna, e in particolare dei metodi per la sua progettazione a partire degli esordi del teatro nei primi anni del Cinquecento fino agli inizi del XX secolo con Appia si cfr. Ricchelli G., L’orizzonte della scena nei teatri: storia e metodi del progetto scenico dai trattati del Cinquecento ad Adolphe Appia, Hoepli, Milano, 2004.
[6] Il progetto nasce nel 2017 da un invito della fondazione Lafayette Anticipations a lavorare sulla disidentificazione, all’interno di una progettualità destinata a rendere Wikipedia uno strumento di informazione più inclusivo. In Italia, il lavoro è stato presentato per la prima volta a Santarcangelo Festival nel 2023.
[7]Per un approfondimento sul tema si cfr. Ahmed S., A Phenomenology of Whiteness, in «Feminist Theory», vol.8, n.2, 2007.
[8] Da un’intervista curate da Francis Cossu per la 77esima edizione del Festival d’Avignon. Il testo completo è disponibile al LINK.
[9] La performance segue le linee curatoriali di una ricerca che l’artista aveva già inaugurato nel 2021 e poi sviluppato con il lavoro visivo e di video-installazione “Il Mio Filippino: For Those Who Care To See”, esposto al Mattatoio di Roma nel 2023. “Il Mio Filippino: The Tribe” è stato sviluppato grazie al supporto di In(Ex)ile Lab, una progettualità a lungo termine che sostiene i lavori di artistə in esilio.
[10] Azdora è un progetto ideato per la 45° edizione di Santarcangelo Festival, direzione artistica Silvia Bottiroli. La performance è realizzata in collaborazione con Stefania Alos Pedretti.
Bibliografia
Ahmed S., A Phenomenology of Whiteness, in «Feminist Theory», vol.8, n.2, 2007.
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Attia K., La réparation, c’est la conscience de la blessure, in Cukierman L., Dambury G., Vergès F., Décolonisons les arts, L’Arche, Paris, 2018.
Bishop C., Inferni artificiali: la politica della spettatorialità nell’arte partecipativa, Luca Sossella Editore, Roma, 2015.
Bhabha, H., I luoghi della cultura: postcolonialismo e modernità occidentale, Meltemi, Milano, 2024.
Centemeri L., La cura come logica di relazione e pratica del valore concreto. Una prospettiva Ontologica, in Fragnito M., Tola M. (a cura di), Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Orthotes, Nocera Inferiore, 2021.
Curcio A., Introduzione ai femminismi, DeriveApprodi, Roma, 2019.
Deleuze G., Che cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre Corte, Verona, 2007.
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Fanon F., I dannati della terra, Einaudi, Torino, 2007.
Fanon F., Pelle nera, maschere bianche, ETS, Pisa, 2015.
Fischer-Lichte E., Estetica del performativo, Carocci editore, Roma, 2014.
Foucault M., Un pensiero del corpo, Ombre Corte, Verona, 2019.
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hooks b., Elogio del margine, Tamu, Napoli, 2020.
hooks b., Sister of the Yam: Black Women and Self-recovery, Routledge, New York 2015.
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Spooner C., A Hypothesis of Resistance – Part Two: Rehearsal, in «Mousse», n. 82, inverno 2023.
Vergès F., Perdersi nella foresta, in Fragnito M., Tola M. (a cura di), Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Orthotes, Nocera Inferiore, 2021.
Francesca Schinzani è ricercatrice e storica del teatro. Ha studiato Scienze dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Bari, laureandosi con un progetto di ricerca mirato allo svelamento delle dinamiche della critica teatrale militante in Italia. Tra i suoi interessi vi è lo studio dell’estetica del performativo applicata agli spazi pubblici, con particolare riguardo ai festival. Dal 2022 collabora stabilmente con Santarcangelo Festival e dal 2024 con il Teatro Kismet / TRIC Teatri di Bari.