CALL FOR PROPOSALS

roots§routes è un magazine con una linea editoriale dettata dalla sua redazione che garantisce la qualità e la coerenza degli interventi. Ritenendo però necessaria una costante apertura verso qualsiasi contributo di qualità, che corrisponda alle finalità condivise da tutti i redattori, valuta importante la possibilità di ospitare, accanto agli artistə e ai ricercatorə invitati, contributi che possano arrivare da contesti non conosciuti direttamente.

roots§routes a tale scopo lancia una Call for Proposals, invitando artistə e ricercatorə a inviare proposte di contributi, partendo dal tema della rivista del quadrimestre seguente.
La proposta di contributo dovrà essere inviato sotto forma di abstract di un massimo di 350 parole compilando l’apposito box sottostante o inviando una email all’indirizzo redazione@roots-routes.org con nell’oggetto: “Article Submission” specificando il numero per il quale si intende proporre il contributo tra quelli elencati dalla redazione. È inoltre richiesto l’invio di una biografia breve e una selezione di pubblicazioni. L’abstract potrà essere scritto in una delle seguenti lingue: inglese, italiano, francese, portoghese o spagnolo.
In caso di interesse della redazione verrà inviata una risposta positiva all’indirizzo email da cui è giunta la proposta, nella quale si chiederà di inviare il contributo per intero nella lingua scelta dal proponentə.

La redazione, al ricevimento dell’intero contributo, si riserva il diritto di chiederne parziale modifica o, in caso di evidente non coerenza con il concept inviato, di rifiutare il contributo stesso.
In caso di rifiuto verrà inviata una email di comunicazione con una motivazione allegata.

PROSSIMO NUMERO
Anno XV | n° 47 | Gennaio - aprile 2025
§FARE MONDI.
Tra ricerca e fabulazione

a cura di Anna Chiara Cimoli e Alessandro Tollari

Parlo di dèi; io sono atea.
Ma sono anche un’artista, e perciò una bugiarda.
Diffidate di quello che dico. Sto dicendo la verità.

Ursula K. Le Guin, La mano sinistra del buio

In fuga dal metodo

Per poter effettuare una ricerca, bisogna procedere anzitutto a definire un problema, stabilire un campo d’indagine, prendere posizione e reperire gli argomenti adatti a sostegno della tesi. Serve una solida rete di riferimenti bibliografici per poter perimetrare l’oggetto di studio e lo stato dell’arte intorno alla questione; e, inoltre, un metodo, un insieme coordinato di passi per affrontare con trasparenza obiettivi specifici e progressivi. E tu che fai ricerca, dovresti scrivere «come se non parlassi mai con te stesso / e ti evitassi» (W. Szymborska, 2009, p. 463), aspirando a farti soggettività neutra. Solo così è possibile giungere ai risultati, che sono sempre attesi, e all’elaborazione di un sapere vero e verificabile. E tutto il tempo che viene dedicato alla produzione di conoscenza è uno sforzo per fare sintesi della tempesta degli eventi: un’estrazione linguistica, un’astrazione dal mondo. Un testo più durevole del bronzo – almeno fino a quando altra letteratura non giunga a soppiantarlo. Una competizione contro (e fuori da) il tempo della vita; e contro l* competitors dell’accademia neoliberale. Questi i fini, questi i mezzi. There is no alternative. O no?

Alla discussione della tesi di dottorato, la commissione chiede a Luce Irigaray che metodo abbia adottato per condurre la ricerca. «Questione delicata. Perché è proprio il metodo, la via della conoscenza, che ci ha trascinato via, che attraverso la frode e l’artificio ci ha portato fuori strada» (A. Gordon, 2022, p. 66) risponde la candidata.
Negli ultimi decenni, molta ricerca accademica in campo latamente umanistico e artistico ha cercato di scrollarsi di dosso una visione di sé pesantemente marchiata dalla supremazia dei metodi quantitativi propri delle discipline “dure”, nonché dei metodi qualitativi tipici delle scienze umane, all’interno di una visione del sapere del tutto coerente con il progetto del realismo capitalista in cui viviamo (M. Fischer, 2018). Una fuga verso territori ignoti, abitati dall’incertezza, dall’imprevisto, dal rischio di fallimento; ma anche dalla eccitante possibilità di reclamare a sé un posizionamento rispetto al proprio gesto di produzione di conoscenza, non per vezzo personalistico ma per riconoscimento della parzialità delle prospettive e dell’intrinseco pericolo di riprodurre violenza epistemica nel proprio procedere metodologico. Come ricorda Erin Manning, «alcuni dei maggiori disastri dell’umanità sono stati prodotti dalla visione ristretta di uomini con una buona metodologia» (A. N. Whitehead, in E. Manning, 2016, p. 26). È questo il campo della Research Creation (recherche-création), e in generale delle metodologie post-qualitative, practice-based e art-based. Indagini in cui il campo di studio e il metodo non sono dati a propri, ma si co-costituiscono nel processo di ricerca.

Ai margini del sapere, tra fantasmi e terremoti

Avery Gordon, in Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica, riflette sulla domanda-trappola, apparentemente neutra e legittima, posta a Luce Irigaray: «All’inizio c’è una domanda: che metodo hai adottato nella tua ricerca? Più precisamente: com’è possibile usare la finzione come dato? Di cosa parliamo quando parliamo di fantasmi e infestazioni?» (A. Gordon, 2022, p. 66).
Per avviarci in questo percorso rabdomantico, il primo gesto che dobbiamo compiere è un gesto minore, [1] mettendoci dalla parte di queste presenze quasi assenti. Perché di fantasmi e infestazioni parliamo, ostinatamente, nella nostra ricerca storica, artistica, antropologica, etnografica, poetica: ectoplasmi di profili e presenze storiche che tentiamo di descrivere, baluginii di forme nella penombra, possibili modelli epistemologici che sfuggono tra le mani.

L’archivio che esploriamo è un cimitero, cenere muta. Scrive Nathalie Léger in Suite per Barbara Loden: «So per esperienza che si accede ai morti penetrando in un mausoleo di carte e di oggetti, un luogo chiuso, colmo e tuttavia vuoto, dove si fatica a stare in piedi. Cosa troviamo? Scatole, resti, simulacri il cui accumulo trasuda l’eccesso e l’incompiutezza e, nonostante qualche breve trionfo, la sconfitta. […] ‘Ci sono venticinque scatole di documenti’, mi ha detto il figlio di Barbara al telefono, ‘cosa cerca lei?’. Sonda in tono cordiale, il tono cordiale che ci si aspetta da chi ha deciso di non farti accedere a niente» (Léger N., 2020).
Le venticinque scatole vengono allora terremotate dalla ricercatrice, affinché i pezzi ricadano in altra forma. Nella narrazione di Léger autobiografia, autoetnografia, storia del cinema, dell’editoria, del femminismo sono fili di un tessuto a tratti evidente, altri sommerso. Non contraffortano quello che sappiamo della “vera” Barbara Loden, semi-dimenticata attrice e regista statunitense, ma spalancano la traccia e la espongono alle contaminazioni del possibile. La forma della suite, del seguito, dell’addendum esplorativo e interrogativo è l’asta che porta al di là dell’ostacolo: il terremoto genera un nuovo mondo [2].
Vitalità della materia e minaccia mortifera sono i poli dentro cui si colloca la prassi della ricerca. Come parlare del tempo semi-morto, in realtà vivissimo, che trascorriamo lì dentro? Ed è una questione politica: possiamo trasformare il documento in monumento funebre oppure scivolare nelle zone d’ombra, osservare le crepe, seguire i miraggi dell’analogia, aprire dialoghi ventriloqui con il non-più, tastare le viscere in un’aruspicina del non-ancora. 

Worlding: finzioni per vivere oltre la fine dei mondi
Ma il valore affettivo dei corpi minacciati dal farsi polvere e oblio non riguarda solo gli altri e le altre. Riguarda anche noi, oggi, nei nostri tempi penultimi. Si chiede Federico Campagna: «Che cosa rimarrà di noi? Cosa sopravviverà alla fine del nostro futuro? Sono domande sempre più assillanti per chi […] si trova a vivere dentro la canzone-mondo della modernità occidentalizzata» (F. Campagna, 2023, p. 57); e prosegue: «Per noi che abitiamo oggi dentro questa cosmologia ormai agli sgoccioli, il compito di imparare a morire bene inizia con un esercizio di falsificazione […]. Coloro che dovranno affrontare l’arduo compito di ricostruire un mondo ex nihilo non meritano che si consegni loro la formula metafisica di una civiltà il cui impatto sul pianeta è stato tanto catastrofico» (ivi, pp. 101-102). Si tratta di offrire un messaggio falsificato, una fiction «ancora più radicale di un’utopia», una riscrittura ucronica che rimescoli le temporalità e offra, come direbbe Ian Cheng, «un futuro in cui è possibile credere» (I. Cheng, 2024, p. 18). È questo il worlding, il fare (altri) mondi, a cui chi fa arte e ricerca è chiamat* oggi.

Alcuni ambiti della conoscenza esplorano da tempo la possibilità che l’immaginazione si accompagni alla ricerca. È il caso del design che sviluppa progettualità e scenari a partire da speculazioni finzionali
[3]. È il caso della critical fabulation di Saidiya Hartman, che cuce lacerti di informazioni, generando un quilt in cui il documento sta fianco a fianco con la fiction, la traccia storica con la sua ombra; che interroga i vuoti quanto i pieni; che fa reagire il lucido e l’opaco. Quella che si narra è la storia di “una certa impossibilità” (Hartman, Wilderson, 2003, p. 184)  che genera un “asterisco nella grande narrazione della storia” (Hartman, 2021 p. 14), valorizzando “punti di vista contestati”. Anche qui, non ci si propone di riscattare un passato irredimibile, né di prendere la parola da un presente di raggiunta giustizia: piuttosto, questa finzione tende a (creare?) un futuro “stato libero” ancora tutto da darsi, che si colloca in “un futuro di molti futuri”, nella tradizione degli oppressi (T.J. Demos, 2023, p. 37).

Ed è proprio qui, in definitiva il punto. Proviamo a pensare non a che cosa la conoscenza è, ma a che cosa fa, o potrebbe fare: proviamo a pensarla come una creazione di possibilità di fare mondi altri, possibilità ancora non date, e/o non più date, ma potenzialmente (ri)emergenti, valutabili in termini di opportunità ed efficacia, o meglio ancora, di desiderabilità e vitalità. Se la verità deve essere de-finita, la vita è un gioco che vuole restare sempre aperto. 

Dunque, quali margini di manovra ritagliare? Come fare una ricerca che mescoli l’ambiguità semantica dell’inventio, al contempo “trovare” e “inventare”? Quale worlding è possibile nelle discipline normate dai metodi e dalle metriche accademiche (in alcuni contesti e in alcuni Paesi più che in altri)? Mentre fuori imperversano immaginari distopici e post veritieri, in che modo possiamo assumere l’onere autoriale di fare sedute ucroniche col passato, aprire varchi eterotopici nel presente, divinare utopie future? L’arte del falsario è in effetti una scienza, per quanto perturbante.   


Questa call invita contributi sul tema dell’intersezione, della frizione, del dialogo fra ricerca e fabulazione, con particolare riferimento a:

_il contributo dell’immaginazione artistica alla ricerca scientifica
_la possibilità di traslazione e osmosi dei metodi creativi fra diverse discipline
_l’analisi di casi di studio che esplorino le possibilità di “forzatura” del sapere accademico, sia nei contenuti che nella loro traduzione formale (hacking, embodiment, pratiche di disseminazione radicale…)
_sperimentazioni linguistiche e transcodificazioni nel campo della scrittura accademica
_le questioni etiche che il ricorso alla finzionalità speculativa pone rispetto alla ricerca scientifica
_le rifrazioni provenienti dalla sperimentazione in ambito digitale e dei game studies, con riferimento al worlding
_i nuovi codici, linguaggi e mitografie della ricerca scientifica e culturale nel XXI secolo
_la ricerca tramite la prassi didattica sperimentale in contesti formali e non-formali
_la ricerca sul caso, l’inatteso e l’aleatorio
_ i ruoli del pensiero analogico e della metafora, della dimensione onirica e inconscia nella produzione di conoscenza
_pratiche ucroniche/utopiche/eterotopiche in prospettiva minoritaria
_pratiche artistiche che generano fiction critiche dell’immaginario del mondo accademico ed educativo
_ riflessioni teoriche e pratiche intorno ai future studies e ai possibility studies
_e tutte le altre possibilità che non siamo stat* in grado di immaginare.

Crediti fotografici: Roberta Baldaro GARBINO #9 | 2013, fotografia analogica b/n, stampa digitale su carta, disegno a matita, 9 fotodisegni, cm 41x27 (collezione privata). Courtesy l'artista

Note 

[1] Cfr. Manning, cit. Vedi anche Ingold T., Antropologia come educazione, La linea 2019 (ed. or. Anthropology and/as Education, Routledge 2017) sul concetto di educazione “in a minor key”. 
[2] Si veda il romanzo Agadir di M. Khaïr-Eddine (1967), e la traduzione artistica e teatrale di Yto Barrada per il Barbican Centre di Londra (2018).
[3] Si veda Dunne F., Raby A., Speculative Everything, Design, Fiction, and Social Dreaming, MIT Press, 2013.


Bibliografia

Campagna F., Cultura profetica. Messaggi per i mondi a venire, Thlon 2023, (ed. or. Prophetic Culture. Recreation for Adolescents, Bloomsbury 2021).
Cheng I., Fare mondi. Vademecum per emissari, Timeo 2024 (ed. or. Emissaries’ Guide to Worlding, Ian Cheng 2023).
Demos T.J., Radical Futurisms, Sternberg Press 2023.
Fischer M., Realismo Capitalista, Zero 2018 (ed. or. Capitalist Realism, Zero books, 2010).
Gordon A., Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica, DeriveApprodi 2022 (ed. or. Ghostly Matters. Haunting and the Sociological Imagination, University of Minnesota Press, 2008).
Hartman S., Wilderson F.B., The Position of the Unthought, in «Qui Parle», n. 2, 2003.
Hartman S., Venus in Two Acts, Cassandra Press, 2021.
Léger N., Suite per Barbara Loden, La Nuova Frontiera, 2020 (ed. or. Supplément à la vie de Barbara Loden, P.O.I. Editeur, 2012)
Szymborska W., Scrivere un curriculum, in La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi 2009.
Whitehead A. N., cit. in E. Manning, The Minor Gesture, Duke University Press 2016.

DEADLINE

PARTECIPAZIONE CALL FOR PROPOSALS

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invio abstract entro 05 novembre 2024

UNICA USCITA

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pubblicazione il 15 gennaio 2025
consegna articolo entro 20 dicembre 2024

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