Utilizzo Google Immagini – ricerca avanzata – e digito la parola Gaza: due bambini, uno dei due tiene in mano un pallone, ci suggerisce che probabilmente hanno interrotto il gioco per mettersi in posa, sullo sfondo macerie e calcinacci; due bambini armati che minacciano di sparare alle tempie un bambino ancora più piccolo che sta al centro fra loro terrorizzato; un uomo dal volto alienato regge tra le braccia un bambino privo di sensi e ferito; altre quattro immagini simili alla precedente; salme avvolte in panni colorati e una folla di persone dietro silenziosa. Questa tipologia di fotografie è puntualmente e regolarmente intervallata dalla carta geografica politica di Gaza. Il fruitore di google ha così collocato spazialmente il punto geografico dove tutto ciò è accaduto o sta per accadere. Ma se smetto di analizzare ogni singola immagine, allontanando la vaga sensazione di impotenza mista a nausea, ciò che vedo è uno sfondo bianco, quasi una parete con esposte fotografie la cui immagine coordinata è quella della guerra. Mi chiedo quale sensazione avrei provato se mi fossi imbattuta distrattamente o casualmente in quella pagina web: onestamente sarebbe stata l’abitudine. Quella millenaria di una questione storica che ha radici nelle scritture della religione cristiana1, quella sociale di una guerra2, che non è la nostra, ma che sta dentro i nostri telegiornali, quotidiani, motori di ricerca.
Nel processo di comunicazione sulla questione israelo-palestinese, all’artista Taysir Batniji non interessa l’immediatezza dello scatto di guerra del quale metto in discussione l’efficacia comunicativa e la capacità di attivare una riflessione non superficiale. Con eleganza l’artista palestinese entra nello spazio del quotidiano di chi, come in format applicabile su scala internazionale, percorre le vie della propria città ammirando le vetrine che si susseguono lungo il percorso. Scrive l’artista sull’installazione: “I use a visual frame derived from daily life by evoking commercial adverting, but with altered content. In this contraction between form and content is an invitation to contemplate a reality far from the familiar, and beyond the scope of a journalistic report.”3
La mia fruizione dell’opera GH0809 ha avuto origine molto prima della sua visione diretta durante la Biennale di Venezia. Parte da uno spostamento verso Venezia, si addentra nell’esperienza “Biennale” che ha quella implicita ma particolare magia di aprire squarci su estetiche contemporanee di differenti luoghi, e attraversa i Magazzini del Sale con la Contemporary Art from the Arab World per giungere infine all’opera GH0809. “The title of GH0809 is an abbreviation of ‘Gaza Houses 2008-2009’; its letters and numbers resembling an illusory real estate company. The project was conceived after the army of the Israeli occupation launched a war on Gaza in 2008-094. This war claimed the lives of many Palestinian civilians, most of them children, caused by the widespread desction of houses and facilities.”5 Venti fotografie di venti case distribuite nel territorio della Striscia di Gaza, ciascuna corredata da una cornice e da una dettagliata descrizione: villaggio, quartiere, mq, suddivisione dei vari ambienti, numero delle camere, numero degli abitanti. Le fotografie sono retro illuminate e rivestite da una lastra in plexiglas: una vetrina di un’agenzia immobiliare. Lo spettatore subisce la decontestualizzazione di tale visione che lo porta a bloccarsi di fronte l’opera, a prendere coscienza di tutti i livelli di spazio che si sono attivati per rendere possibile la visione di quelle case distribuite nel territorio di Gaza. Se procedo la mia ricerca su Google Web, digitando la parola Gaza, ciò che mi colpisce di più è la lista delle ricerche correlate: striscia di Gaza, Gaza city, Gaza war, Gaza Freedom march, Cartina Gaza. L’elenco coincide perfettamente con il mio l’immaginario su Gaza, o forse nel tempo quell’elenco reiterato attraverso differenti tipologie di comunicazioni ha creato il mio immaginario. La tentazione di visualizzare geograficamente i 40 km di striscia di Gaza mi spinge fortemente a pensare in quale stato si trovi, ma il sistema riscontra una prima anomalia, perché la Palestina non è uno Stato, non ha una capitale, ma è un “territorio autonomo”. L’accortezza che va usata nello scrivere sulla geografia politica della Palestina si ripercuote sulla definizione di “palestinesi”, coloro che si muovono nello spazio della Striscia di Gaza e nella non confinante Cisgiordania, anch’esso territorio autonomo. Ai meccanismi mentali di collocazione spaziale, di inquadramento dell’immaginario di un luogo come prima chiave di lettura dello spazio, l’artista fornisce un’altra alternativa perché parla di un’altra Gaza. Taysir sposta il punto di vista. Gaza non è una striscia di terra militarizzata e sotto continuo attacco militare, è un insieme di villaggi di cui Gaza è il più grande, in cui c’erano case abitate e abitanti, desideri, amori, ambizioni, tensioni e speranze. Con GH0809 l’arte è diventato spazio e lo spazio è diventato strumento artistico. Taysir ha messo in mostra lo spazio, l’ho ha messo in vendita, ma non ha fissato un prezzo perché la evocazione di ricordi di vita non ha importi quantificabili in cifre.
Come scrive Viviana Gravano in Paesaggi Attivi, “Non è la sola definizione del luogo che fa delle carte geografiche un territorio del tutto mobile, quanto la stessa rappresentazione simbolica, che si basa su una variazione di scala, che stravolge il senso dello spazio, del luogo e della distanza.”6. Guardando una carta politica di Gaza non si può far a meno di notare quanto di più simile ad una striscia geometricamente disegnata possa esistere: il Mar Mediterraneo è una linea naturale, a sud l’Egitto, a nord e ad est Israele. L’idea è quella di una trappola: lo spazio aereo e marittimo restano sotto controllo israeliano, numerosi check point sono disseminati lungo tutto il territorio, i confini sono chiusi, i valichi militarizzati. Le abitazioni private non sono più luoghi sicuri dove rifugiarsi nel quotidiano, da immortalare in fotografie colorate che ammiccano ai potenziali acquirenti da una vetrina commerciale. Le case di GH0809 sono bersagli di guerra, ne sono testimonianza, non solo, hanno il grande potere di sfidare attraverso l’ordinario l’immaginario.
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1 Il riferimento alla religione cristiana è da individuare nella Bibbia, precisamente nel Libro dell’Esodo contenuto nell’ Antico Testamento. L’episodio centrale del libro narra come il popolo ebraico, che si trovava in schiavitù nel paese d’Egitto (Esodo 1,13-14), fuggi verso la Palestina, Terra promessa, attraverso la penisola del Sinai sotto la guida di Mosè, inviato da Dio (Esodo 12, 37-51).
2 Trovo necessaria una breve nota relativa all’origine della “questione palestinese”. Alla fine della prima guerra mondiale, con lo smembramento dell’Impero Ottomano, la Palestina divenne colonia inglese e restò tale fino al 1947, quando la Gran Bretagna affidò all’ONU il suo mandato sulla regione. Con la risoluzione N° 181 del 29 Novembre 1947, l’ONU stabilì la partizione della Palestina in due stati indipendenti, uno ebraico e l’altro arabo, lasciando Gerusalemme sotto il controllo internazionale. Ma gli avvenimenti precipitarono e il 14 maggio 1948 venne proclamato lo stato di Israele. Ringrazio Giuseppe Macaluso che mi ha fornito preziose informazioni e indicato fonti bibliografiche per una conoscenza approfondita della questione isdraelo-palestinese.
3 Catalogo della mostra The Future of a promise. Contemporary Art from the Arab World, a cura di Lina Lazaar, Magazzini del Sale. 54. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia (p. 34).
4 Tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, muoiono 1.400 palestinesi e oltre 4000 case sono state distrutte dai bombardamenti israeliani (Valentino P., Obama offre aiuto ad Abu Mazen «A Gaza situazione insostenibile», in Il corriere della sera, 10 giugno 2010, p.15).
5 Catalogo della mostra The Future of a promise. Contemporary Art from the Arab World, op. cit.
6 Gravano V., Paesaggi attivi, Saggio contro la contemplazione, costa & nolan, Milano, 2008.