ARTE E POLITICA
Il corpo dei totalitarismi. La narrazione iconica di Mussolini al potere
di Nicola Porro

133. Mussolini the motorcycle pilot, 1931

1. La stagione storico-politica compresa fra le due guerre mondiali del Novecento è segnata in Europa dall’avvento dei grandi totalitarismi. Il modello archetipico sarà rappresentato dal fascismo italiano, che conquista il potere nell’ottobre del 1922. Il suo paradigma più compiuto e terrificante si identificherà nel decennio successivo con il nazionalsocialismo tedesco, che sale al governo nel 1933. Regimi reazionari, a forte impronta populista e xenofoba, si affermeranno però in molti altri Paesi, dal Portogallo di Salazar (1928) alla Spagna franchista (1939) a diversi contesti nazionali dell’Europa orientale e specificamente dell’area balcanica. L’involuzione repressiva del regime sovietico culminerà in un’altra esperienza totalitaria, quella del comunismo staliniano.

Nella narrazione simbolica e iconica di questi regimi sono presenti, seppure in differenti combinazioni narrative e semantiche, alcuni tratti comuni. Fra questi la tendenza all’estetizzazione della politica, l’identificazione nella figura del leader di una missione collettiva di tipo metastorico, la rappresentazione agiografica di icone simbolo delle emergenti società di massa, come quelle del combattente o del lavoratore.

Questi ingredienti simbolici sono spesso mescolati e sovrapposti nella narrazione retorica del Capo proposta dalle macchine propagandistiche del potere. Tali repertori, a loro volta, sono influenzati dalle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione, da correnti artistiche come il futurismo e l’espressionismo, dalla tradizione estetica classicistica o neoclassicistica. Alcune variazioni sul tema, talvolta significative, discendono dalle differenti finalità ideologiche che presiedono alle singole narrazioni mitopoietiche e, naturalmente, dalle peculiari biografie per immagini che i leader totalitari intendono proporre all’immaginario pubblico.

Concentrandoci su quest’ultimo aspetto, si può parlare di narrazioni iconiche che danno vita a tipologie di leadership abbastanza differenziate. Si può anzi affermare che il racconto iconico del Capo costituisca l’elemento di più marcata differenziazione fra i diversi modelli. Mussolini, il capo del fascismo, si trasforma nel Duce degli italiani attraverso una narrazione corporale, carnale e trasformistica, che sfrutta per prima gli strumenti di una cinematografia in via di accelerato perfezionamento tecnico, nonché la riproducibilità fotografica su carta stampata che si realizza nei primi anni Trenta. Alla comunicazione iconica si associa lo stesso potere evocativo della voce che, grazie alla diffusione della radiofonia, allude alla capacità di fascinazione e persino di erotizzazione del messaggio politico. Luzzatto (2001) ha compendiato nella formula del mussolinismo fotografico questa strategia comunicativa già orientata alla multimedialità.

Non si tratta di un modello facilmente riproducibile. Se Mussolini ostenta e teatralizza la dimensione corporale, il Caudillo spagnolo Francisco Franco offrirà al contrario l’esempio di una fisicità celata, appartata, quasi evanescente. Coerente con una visione del potere quaresimale e antiseduttiva, ligia a una sessuofobia d’impronta clericale. Lo stesso Hitler predilige la narrazione di una corporeità estranea, quasi metafisica. Si affida all’ipnosi dello sguardo, al magnetismo isterico della parola, a un’aggressività  verbale che allude a una forza misteriosa capace di trascendere il linguaggio espressivo del corpo. Con Stalin anche il racconto iconico della rivoluzione sovietica, che negli anni Venti aveva attinto ad alcuni fra i più originali filoni narrativi delle arti visive contemporanee, conosce un’involuzione nel conformismo e nella banalità. Il “piccolo padre” amerà essere celebrato attraverso immagini bonarie e convenzionali. L’agiografia staliniana sembra preoccupata soprattutto di veicolare un racconto rassicurante, in cui è rimossa qualunque seppure indiretta allusione alla forza, cui fanno invece massicciamente ricorso apparati di regime impersonali e per definizione invisibili. Palandrane, colbacchi e divise occultano una fisicità del leader non aliena dai privati piaceri della carne e del bicchiere ma rigidamente interdetta alla contemplazione pubblica.

2. Si può sostenere che il Duce del fascismo abbia incarnato la sola autentica icona totale fra quelle associate ai dittatori del primo Novecento. Un’icona corporale, onnipresente e invadente, che aspira a dar vita a un repertorio di simboli e di significati elaborato tramite il ricorso a tecniche fotografiche e cinematografiche via via più sofisticate. Mussolini può essere considerato il primo leader politico mediatico nella stagione incipiente di una prima rivoluzione delle comunicazioni di massa.  La sua ambizione esplicita è quella di associare rivoluzione politica e rivoluzione comunicativa elaborando una narrazione il cui ingrediente fondamentale è proprio il corpo del Capo. Ne discende una strategia dell’immagine che si sviluppa più organicamente a partire dal 1932, quando la macchina iconica del potere celebra il decennale della Marcia su Roma e annuncia quelli che De Felice avrebbe definito “gli anni del consenso”.

Il corpo totale di Mussolini è un corpo sportivo. O meglio, sportivizzato, elaborato e proposto alla pubblica ammirazione attraverso l’adozione di stilemi iconici che evocano insieme una fisicità poderosa e un rigoroso disciplinamento. Le immagini del Duce atleta devono insomma suggerire il possesso di un dono, di un carisma corporale, che è in realtà costruito in maniera del tutto artificiale. Devono però anche evocare il possesso di quelle maussiane tecniche del corpo che nell’accezione fascista esaltano il gesto sportivo come il più tipico prodotto di un intenso lavoro di perfezionamento e potenziamento delle attitudini naturali. Per i fascismi al potere il corpo dell’atleta possiede una dimensione ideologica, esprime un ordine disciplinato dalla fatica dell’allenamento e dalla sottomissione a severe norme tecniche e comportamentali. L’estetizzazione della politica attingerà potentemente ai repertori simbolici del corpo dell’atleta1. L’iconografia mussoliniana, a differenza di quella che riguarda altri leader totalitari, tende a incorporare questo costrutto simbolico nella rappresentazione del Capo. A caduta, la sportivizzazione del corpo interesserà la narrazione pubblica del regime, con la celebrazione dei campioni sportivi – esemplare la storia per immagini del pugile Primo Carnera – ma anche di anonimi militanti o panciuti gerarchi costretti a esibirsi con risultati non sempre lusinghieri davanti agli obiettivi di regime in salti in cerchi di fuoco o esibizione ginniche da sabato fascista2.

L’operazione di ingegneria simbolica che presiede alla costruzione iconica del corpo sportivizzato del Capo è resa esplicita nella narrazione di regime. Su Il popolo d’Italia del 24 ottobre 1934 troviamo un esempio di elaborazione somatica del potere politico:

“Il Duce è uomo di sport nel senso più elevato, perché la sua vita fisica e morale meravigliosamente si armonizzano e si completano. Il suo torso è possente, le braccia atletiche. Sembra fatto per abbattere e stritolare; e su questo rigoglio di muscoli e di nervi, su questa compattezza erculea si ferma la nostra immaginazione, perché noi sentiamo che nessuno può vincerlo, che nessuno può sostenere il confronto: gigante fra i pigmei”.

Nella realtà, la statura del gigante fra i pigmei raggiungeva appena il metro e sessantasette, qualche centimetro al di sotto della già modesta media dei coscritti italiani del tempo. L’erculea compattezza del corpo del Capo magnificata dalla celebrazione retorica prescinde dalle spalle strette e dal bacino basso. Né infierisce su una fisicità tutt’altro che invulnerabile. In guerra aveva collezionato quarantaquattro ferite i cui postumi lo avrebbero accompagnato per sempre. Quello di Mussolini è un corpo precocemente tormentato dall’ulcera e da altre patologie psicosomatiche che la medicina associa alla personalità narcisistica. Un corpo travagliato anche da affezioni veneree che nell’immaginario pubblico concorreranno a esaltare una presunta insaziabile virilità.

Anche il carisma mussoliniano ha tuttavia bisogno di continue conferme. La moglie Rachele sarà costretta in età già matura a sobbarcarsi gravidanze forse indesiderate per esaltare con il proprio esempio la prolificità della donna italica. A Claretta Petacci verrà  riservato il ruolo dell’amante semipubblica, da incastonare in quel triangolo “lui, lei e l’altra” così stuzzicante per l’immaginario erotico maschile.

Il corpo narrato del Duce deve evocare, oltre alla potenza atletica e alla voracità sessuale, un terzo ingrediente cruciale che dovrà rappresentarlo come l’estensione biologica di una mente decisionale, perennemente operativa.  Lavoratore infaticabile afferma di sottoporsi a una massacrante routine, tiene un conto preciso sino all’ossessività dei questuanti incontrati, delle pratiche sbrigate, degli interventi pubblici. Dallo studio che affaccia su Piazza Venezia dovrà trapelare anche in piena notte una luce che lo accrediti chino al tavolo di lavoro. Anche nella gestione della routine il corpo del Duce si identificherà con il corpo macchina modellato sul profilo del produttivismo industrialistico del primo Novecento. Persino nel tempo del tramonto, nei mesi della disfatta militare, la propaganda metterà in circolazione decine di episodi che avrebbero dovuto testimoniare la perfetta efficienza fisica del Capo, garanzia di un rapido ribaltamento delle sorti belliche e dell’inevitabile vittoria finale. Il corpo corazza disegnato dall’agiografia di regime occulterà a lungo l’impietosa verità di una fisicità stremata e di una psiche depressa. Le ultime immagini del dittatore in vita, nei giorni decisivi che precedono la Liberazione di Milano e annunciano la fine ingloriosa della dittatura, mostrano un fragile esoscheletro. Ancora una volta è l’icona corporale ad annunciare, questa volta con spietata autenticità, la disfatta finale del regime. Icona sportivizzata, feticcio erotico e corpo macchina compongono i tratti etologici della celebrazione del Capo, inteso come il maschio dominante la cui potenza si manifesta attraverso l’ostentazione di una superiorità corporale. La narrazione trionfalistica del corpo del Duce è così l’espressione di un’autentica corporalizzazione del carisma. L’esempio di una costruzione del senso che rinvia a una rappresentazione fisicamente percepibile dell’anatomia politica descritta da Foucault3.

134. Mussoklini the skeeter, 1932

3. Per Sergio Luzzato4, che ha dedicato un’importante ricerca all’iconografia del Duce, la narrazione mussoliniana rinvia a due differenti registri comunicativi. Uno è rivolto alla cronaca. L’altro aspira a generare una mitologia.

Appartiene al primo registro il repertorio, fotografico e cinematografico, che si sforza di veicolare un’immagine accattivante del Capo. Fra i suoi ingredienti principali c’è il vitalismo, a raccontare una fisicità in perenne movimento, un’energia indomabile e infaticabile, una presenza ubiquitaria. Il vitalismo si associa al trasformismo. Mussolini è un Fregoli della politica, uno Zelig dell’immaginario. Ama raccontarsi attraverso un’ostentazione compiaciuta della propria fisicità. Si fa ritrarre a torso nudo mentre prende parte alla battaglia del grano. Indulge alla posa bonaria del buon padre di famiglia, effigiato in costume ascellare e circondato dalla prole, sulla spiaggia di Riccione. Accarezza bambini, sorregge vedove, abbraccia mutilati, passeggia assorto in pensieri impenetrabili nei giardini di Villa Torlonia. Ama soprattutto esaltare quella sportività che gli appare emblema della modernità, estetica della competizione, territorio d’elezione dell’immaginario giovanilista del regime. Eccolo pronto alla stoccata vincente su una pedana di scherma, impegnato in bracciate vigorose durante una traversata natatoria, concentrato ai comandi di un piccolo velivolo che si appresta a pilotare. Eccolo affrontare con il busto inclinato una discesa sciistica sulle nevi alpine, cimentarsi in un percorso equestre in sella a un cavallo di razza, accennare a un rovescio durante un incontro di tennis, atteggiarsi a timoniere di un’imbarcazione da diporto in un’inappuntabile tenuta da yachtman. Eccolo intento a guidare una rombante italianissima motocicletta e atteggiarsi ad ammiratore tecnicamente informato al volante dell’ultimo modello di un’Alfa da competizione. A ben vedere, anche la scelta dei repertori tecnici dello sport risponde a una logica simbolica. Privilegiate sono le raffigurazioni che rinviano a una capacità di esercitare comandi (pilotare i mezzi della motoristica o della nautica “in cielo, in terra, in mar”, dominare un cavallo di razza) oppure quelle che enfatizzano abilità socialmente distintive, ancora associate all’epoca alle pratiche del tennis, della scherma, dello sci. Sono quelle stesse abilità distintive e mimetiche che qualche decennio prima Thorstein Veblen5 aveva individuato come espressione dell’istinto predatorio della nascente borghesia industriale, impegnata a legittimarsi simbolicamente in un processo di imitazione e innovazione rispetto alle pratiche distintive della vecchia aristocrazia. A essere disdegnate nella galleria dell’immaginario sportivo del leader sono le attività più popolari, come il ciclismo, la boxe e lo stesso calcio. Sistemi iconici già al tempo affollati da icone campionistiche (è il tempo di Carnera, di Bartali, di Piola e Meazza) che imporrebbero al leader impietose comparazioni. Da sottolineare anche come gli sport praticati dal Duce appartengano tutti alla tipologia delle pratiche individuali (il leader può guidare una squadra, non confondersi in un collettivo!) e a marcata componente competitiva. Il gesto sportivo coincide insomma con quello agonistico o della simulazione agonistica, visto che il Capo è per definizione invincibile. Manca quella dimensione salutistica che sarà invece prevalente nella narrazione dei contemporanei leader sportivizzati, cultori del jogging, delle scalate montane e del fitness più che delle pratiche di competizione strettamente intese. Individualismo, competizione, distintività e allegoria del comando rappresentano insomma i quattro ingredienti strategici della narrazione del corpo sportivizzato di Mussolini. L’enfasi posta dalle immagini del Duce sui gesti dello sport distingue Mussolini dagli altri leader totalitari dell’epoca. Lo avvicina, invece, a una rappresentazione che, almeno sino alla fine del Novecento, ritroveremo soprattutto nei Presidenti americani e che più tardi darà forma a quella sportivizzazione iconica della leadership – incline a moduli narrativi ecologico-salutistici anziché a forte impronta agonistica – cui si iscriverà senza indugio una parte consistente dei leader democratici contemporanei.

4. Con le ghette o in camicia nera, in marsina o in divisa da combattimento, il petto tappezzato di medaglie o in   elegante tenuta da passeggio, concionante dal balcone di   Piazza Venezia o con gli occhi strabuzzati nell’enfasi di un comizio, quella del Capo del fascismo è un’immagine onnipresente. Di qui un’iconografia a prima vista schizofrenica che alterna vitalismo, trasformismo, sportività e persino una rassicurante propensione alla ludicità, a immagini di tipo statuario, fissate in pose e in ambientazioni che devono rappresentare il Duce come l’erede dei Cesari. Depositario perciò di una missione legata al mito della romanità più che profeta spiritato e ispirato da potenze misteriose. La sua corporeità è oggetto di una narrazione che può persino prescindere dalla rappresentazione visuale. Un notiziario radiofonico EIAR del 1935 descriverà così quel corpo ubiquitario che non può mostrare:

“…alto sul sauro, sotto la falda ferrigna del nero elmetto, il Duce che assiste alla sfilata domina la scena del mondo e si stampa, con rilievo latino, nel bronzo del tempo…”

È una nota esemplare quella che si esprime nel linguaggio servile dalla piaggeria di regime. Associa l’icona statuaria che allude al comando (allegoricamente esercitato sul cavallo di razza), all’iconografia combattentistica (il nero elmetto), alla megalomania totalitaria (dominare la scena del mondo), all’esaltazione contrappresentistica della romanità (il rilievo latino), all’evocazione classicistica (il bronzo del tempo). Ingredienti di un racconto per immagini che può essere sviluppato “per pura voce” all’interno di una trama multimediale.

Mussolinismo e hitlerismo si propongono in questa chiave come due paradigmi alternativi, che producono rappresentazioni iconiche molto diverse. Luzzatto considera il mussolinismo fotografico lo strumento principale che permetterà di rappresentare il Duce di volta in volta come uomo di Stato o cittadino alla mano, contadino o condottiero, edificatore di imperi o taumaturgo. Ha scritto Isnenghi:

“…il corpo del Duce – vivo, effigiato, parlato e scritto – incombeva visibile, invadente e ubiquitario. Niente di discreto, di misterioso e riposto, in questo moderno re di masse: niente che rimanga in ombra, semmai il rischio della sovraesposizione… Il Duce sa, vede tutto. A tutto provvede personalmente. Ed è in ogni luogo”6.

Questo corpo-ovunque e la sua inesauribile vitalità (all’Assemblea quinquennale del Partito fascista del 1937 rivela con ragionieristica pignoleria di aver concesso sessantamila udienze e di essersi personalmente interessato a 1.887.112 pratiche trasmessegli dalla sua segreteria particolare) costituiscono un tratto distintivo del fascismo italiano. Mussolini è un dittatore solare, che si compiace di alternare le ormai collaudate tecniche della solennizzazione fotografica al racconto quotidiano. Eccolo acclamato “ambasciatore della pace” dopo aver sottoscritto il Patto di Monaco e poi in costume da bagno sulla sabbia di Ostia. E di nuovo cavaliere galante nelle feste di palazzo, effigie imperiale in terra d’Africa, condottiero idolatrato in un raduno di fedelissimi. Si potrebbe continuare a lungo: la versatile autobiografia corporale di Mussolini non rappresenta una banale manifestazione di narcisismo dell’immagine. Essa si rivolge a destinatari differenziati e adotta consapevolmente linguaggi eterogenei. I pubblici sono molteplici: militanti antemarcia e casalinghe, gerarchi e reduci, masse acclamanti e scolaresche in uniforme. Come aveva intuito Italo Calvino7, il corpo del Duce costituisce un autentico sistema di segni. Rappresenta un io corporale narrante che non ha bisogno di evocare, alludere, suggerire. Esprime una potenza iconica priva di mediazioni, che con la fondazione dell’Istituto Luce viene continuamente perfezionata e rielaborata sul piano tecnico senza mai alterarne la trama implicita. I cultori dell’arte fotografica e delle nuove tecniche cinematografiche riconoscono immediatamente i prestiti e le influenze che aiutano l’affermazione del Duce. La scuola figurativa sovietica insegna a usare inquadrature oblique, prospettive abnormi e giochi di ombre che producono effetti originali. Il corpo del Duce e la sua espressività istrionica vengono raccontati attingendo abbondantemente alle suggestioni del cinema hollywoodiano. Le pose orientate alla solennizzazione, ricorrenti nella produzione ufficiale delle potenze coloniali e degli imperi tradizionali, vengono rivisitate non senza originalità. L’espressività mediterranea del Capo è coniugata con l’esigenza di rendere solenne la rappresentazione del potere. Ciò avviene principalmente attraverso due modalità.

Da un lato, i nuovi media consentono l’effetto presenza con la riproducibilità tecnica delle diverse narrazioni iconiche del leader8. Mutuando lo slogan da Lenin, Mussolini affermerà che “Il cinema è l’arma più forte!”. Isnenghi9 ricorda come proprio negli anni Trenta la stampa quotidiana si arricchisca della risorsa fotografica. Negli stessi anni la radiofonia dà forma al rito del discorso in diretta. Nascono i cinegiornali di regime.

Dall’altro, il ricorso combinato ai linguaggi della radio, del cinema e della fotografia, favorisce una narrazione che indulge consapevolmente al populismo. Mussolini tende spontaneamente a indossare i panni dell’oratore popolare, capace di istituire una comunione diretta, fisicamente percepibile, con i propri uditorii10. Coniugando cameratismo e appello carismatico, comunicazione diretta ed esibizione dell’autorità, il Duce rivisita modalità il cui imprinting era stato delineato già nel 1919 dal D’Annunzio dell’impresa fiumana. Ne vengono però accentuati gli elementi emozionali, come nei racconti per immagini delle visite agli mnemotopi dell’italianità. L’evocazione dei miti imperiali in contesti monumentali esalta il ruolo e la missione del Capo. La gestualità, la mimica facciale, la voce roboante e scandita di Mussolini trasformano il mito in una narrazione attualizzata.

Il populismo multimediale che si esprime nella narrazione del dittatore calamita l’interesse internazionale. Agli inizi degli anni Trenta la statunitense Columbia Pictures affida al regista Lowell Thomas, simpatizzante dell’Italia fascista e già autore di pellicole dedicate alla Grande guerra e a Lawrence d’Arabia, la produzione di un lungometraggio dedicato alla figura del Duce. Il personaggio è rappresentato come l’uomo nuovo della grande politica europea, riflettendo quell’ambiguità di giudizio sul regime che persisterà sino alla metà del decennio. Il lavoro, interamente girato in Italia sotto la costante supervisione del suo protagonista, sarà presentato nel 1933 con il titolo Mussolini speaks. Memorabile la scena conclusiva, girata fra le rovine del Foro romano, nel luogo dove sarebbe stata deposta la salma di Giulio Cesare dopo il tirannicidio. L’intenzione del regista è di suggerire una continuità simbolica fra i due Cesari accreditando indirettamente le velleità imperiali del regime nella stagione che precede l’avventura etiopica e il conseguente strappo con gli Usa e le potenze democratiche europee. Nel 1938 Mussolini sarà chiamato a interpretare se stesso in un’altra pellicola, Una giornata a Villa Torlonia. Il protagonista-interprete adotta differenti registri comunicativi. Un montaggio di spezzoni tratti da filmati d’archivio compone e scompone il racconto con un’abilità tecnica che anticipa procedure ancora in voga. L’obiettivo è suggerire al destinatario, individuato principalmente nella numerosa comunità italo-americana degli Usa, l’idea di una comunione di destino fra il Capo, la sua gente e l’eredità delle sue memorie. Sicuro e disinvolto quando deve interpretare se stesso sotto la direzione di una regia professionale, Mussolini si abbandona non di rado in situazioni pubbliche a una incontenibile gestualità istrionica. È il caso del discorso improvvisato a Napoli il 25 ottobre 1931 e replicato spesso nel dopoguerra, non senza malizia, in documentari cinematografici e televisivi sul regime. Un’autentica performance a soggetto che segnala un’attitudine specifica del personaggio. Essa consiste nel creare dal nulla un vero e proprio teatro della politica, che Isnenghi definisce “elaborazione nazionalfascista delle tradizioni del popolare”. Una narrazione drammaturgica che richiama la commedia dell’arte o il teatro dei pupi, il melodramma o la sceneggiata partenopea, contaminandoli e orientandoli a un uso propagandistico. È  una forma di comunicazione affidata in larga misura alla gestualità fisica e che esige la prossimità di un pubblico da incantare e soggiogare. Analizzata a distanza di tempo ed espunta dal suo contesto empatico, la spontaneità istrionica del Capo si degrada a macchietta. Solo qualche decennio più tardi al pubblico televisivo, cui è per definizione precluso il contatto materiale con il corpo dei leader, quelle immagini parleranno una lingua indecifrabile. La contaminazione espressiva di generi diverrà invece in età televisiva prerogativa di tecniche specializzate, sviluppate nei laboratori della pubblicità commerciale. La democrazia del sondaggio e del televoto produrrà altre narrazioni della leadership. Anch’esse attingeranno agli archetipi del populismo ma ne proporranno stilemi comunicativi nuovi, orientati al linguaggio della televisione commerciale e all’estetica del consumo.

5. Il Duce del fascismo fa del proprio corpo, della voce e della gestualità mediterranea che accompagna le sue esibizioni pubbliche qualcosa che non ha precedenti nella comunicazione politica del suo tempo. Ne fa, in sostanza, una onnipresente metafora ideologica. Il totalitarismo fascista, del resto, non può rappresentarsi che attraverso immagini totalizzanti che fungano da silloge iconica del regime. Questa silloge iconica, a sua volta, è resa possibile dal concomitante sviluppo dei nuovi media comunicativi e dalla costituzione di società di massa che generano complessità politica e acute conflittualità sociali. I totalitarismi fra le due guerre si propongono così nell’immaginario collettivo come risposta alla crisi postbellica, come strumento di riduzione della complessità, come governo della conflittualità nella forma della liquidazione violenta degli attori antagonistici.

In omaggio alla lezione weberiana, tuttavia, il puro esercizio della forza e l’occupazione delle istituzioni nelle forme proprie dei regimi dittatoriali non sarebbero sufficienti a preservare nel tempo il consenso pubblico. Occorre un’operazione di ingegneria simbolica, cioè una narrazione del potere i cui elementi cruciali sono rappresentati dal carisma del Capo, dalla sua tangibile ostentazione, dai pubblici riti di conferma che si associano all’esercizio della leadership. Lo sviluppo e il perfezionamento della fotografia e della cinematografia, la diffusione della radio e – in misura minore ma non meno significativa – l’agiografia estetica prodotta dalle arti visuali degli artisti di regime risulteranno perfettamente funzionali allo scopo. Usano linguaggi accessibili a tutti, producono densità emozionale ed empatia, esaltano attraverso la (autentica) modernità del medium la (falsa) modernità della politica. Il carisma del Capo non è elaborato attraverso mediazioni intellettualistiche e non induce una fruizione estetica elitaria. Al contrario individua la propria ubicazione di senso nel corpo. O meglio: in aree di significato in cui l’azione sociale è dominata dal corpo. La sportivizzazione del corpo del Capo e la ricorrente allusione erotica alla figura del maschio dominante che si incarna etologicamente nell’icona del Duce rappresentano perciò aree di significato. La narrazione mediatica della leadership è chiamata a trasformarle in sostanza politica. I repertori iconici dello sport enfatizzano una visione a suo modo darwiniana, in cui a prevalere è sempre il più idoneo al comando. Anche la selezione di questi repertori è peraltro sottoposta a una strategia di significato per nulla ingenua: il Capo che vince ha bisogno di alludere a pratiche distintive, altamente competitive ma in assenza di avversari. Il primato del leader sportivizzato è pura allegoria, assioma e tautologia. Un inganno efficace che stravolge l’etica decoubertiana.

La narrazione per immagini del corpo di Mussolini non è priva di una sotterranea intenzione provocatoria. Allude a una fisicità plebea capace di sottomettere, anche adottandone gli stilemi (le pratiche sportive distintive, l’abbigliamento), la vecchia aristocrazia, l’establishment militare, le dinastie industriali, i grands commis dello Stato. Forze che si erano illuse di cavalcare l’onda montante del fascismo ma che non ne dimenticavano la matrice sovversiva e ne paventavano derive incontrollabili. L’appello populista che si materializza nel corpo totale del Capo eccita la natura (il dominio etologico del leader) contro la cultura di cui l’establishment “delle buone maniere” si ritiene depositaria. Lo sport, che impone esibizione del corpo e produce gerarchie, è declinato nelle forme di un’arte popolare. Anche la voracità sessuale e il vigore erotico servono a confermare nell’immaginario pubblico, in chiave ad un tempo sovversiva e patriarcale, la predestinazione al comando del maschio dominante. Attraverso la narrazione del corpo del Capo prende così forma il più regressivo dei messaggi: quello che degrada la comunità civilizzata al rango del branco animale. Insieme, l’appello regressivo, carismatico-totalitario e incarnato nell’icona fisicamente incombente del Capo, verrà veicolato da tecnologie comunicative rivoluzionarie. Alimentando a livello di grandi masse, come avevano prontamente avvertito autori come Adorno e Benjamin, il più pericoloso equivoco ideologico.

Immaginario sportivo e allusione erotica, condensati nel corpo del capo, costituiscono tratti in buona parte peculiari del fascismo italiano. Rappresentano anche una versione originale di quella estetizzazione della politica che il fascismo condivide con gli altri movimenti reazionari europei attivi fra le due guerre. L’esempio più sofisticato e stilisticamente accattivante sarà fornito dalla narrazione del corpo degli atleti proposta da Leni Riefenstahl nel film Olympia. La pellicola, celebrando i Giochi olimpici di Berlino 1936, costituisce un potente racconto per immagini. Gli stilemi iconici attingono al canone artistico del neoclassicismo ma l’intenzione manifesta è dare forma espressiva all’Ordine Nuovo nazista. La venerazione del corpo del Duce, come l’atletismo estetizzante della Riefenstahl, enfatizzano un carisma corporale che agisce come fattore di consenso. L’immaginario fisico è mobilitato per evocare insieme la paura, il desiderio o un’elaborazione fantasmatica dell’identità collettiva. La corporalizzazione del carisma ne costituisce il fattore saliente.

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1 J. M. Hoberman, Politica e sport. Il corpo nelle ideologie politiche dell’800 e del 900, Il Mulino, Bologna, 1988.
2 M. Canella e S. Giuntini, Sport e Fascismo, Franco Angeli, Roma 2009.
3 M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1976 (Ed. or. Surveiller et punir, Gallimard, Paris, 1975).
4 S. Luzzatto, L’immagine del Duce. Mussolini nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma, 2001.
5 T. Veblen, La teoria della classe agiata, Edizioni di Comunità, Torino 1999 (Ed. or. 1899, The Theory of the Leisure Class, MacMillan, London).
6 M. Isnenghi, L’Italia del Fascio, Giunti, Firenze, 1996, p. 411.
7 I. Calvino, I ritratti del Duce, in Calvino I., Saggi 1945-1958, Mondadori, Milano, 1995.
8 L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine, Bollati e Boringhieri, Torino, 1988 e P. Chessa, Dux. Benito Mussolini: una biografia per immagini, Mondadori, Milano, 2008.
9 M. Isnenghi, Op. cit.
10 G. Isola, Abbassa la tua radio per favore…Storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista, La Nuova Italia, Firenze, 1990.

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Nicola Porro teaches at the University of Cassino and Southern Lazio (Italy), where leads the Lab on Social Research. He has been a member of the Board on Body and Social Sciences of the International Sociological Association. At present he is President of EASS (European Association for the Sociology of Sport). He is author of numerous books on sport as a social phenomenon and editor of various researches on the field. On 2010 he published Corpi e immaginario (Bonanno), dedicated to the body imaginary in the late modernity.