“Il 26 dicembre 1940, alla frontiera franco-spagnola, mentre stava per emigrare in America, Walter Benjamin si tolse la vita. I motivi erano diversi: la Gestapo aveva requisito la sua abitazione parigina con la biblioteca (aveva potuto salvare dalla Germania «la metà più importante») e una buona parte dei manoscritti, ed egli aveva motivo di preoccuparsi dei manoscritti che, ancora prima della sua fuga da Parigi a Lourdes nella Francia non occupata, aveva potuto collocare nella Bibliothèque Nationale per mezzo di Georges Bataille. Come poteva, proprio lui, guadagnarsi da vivere senza le lunghe raccolte di citazioni e gli estratti?”1 .
Ogni testo che scrivo nel mio studio parte sempre da uno sguardo che invio nella direzione di una foto che campeggia sulla libreria che raffigura Walter Benjamin intento a leggere qualcosa, mentre si tiene la fronte con la mano destra, pensieroso più che concentrato. Certe immagini suscitano ricordi di fatti che non abbiamo mai vissuto ma che fanno parte di quella memoria condivisa, in realtà sempre rigorosamente ridisegnata da ciascuno singolarmente, che diventa patrimonio comune, base di connessione. Il suicidio di Benjamin è forse il primo atto politico forte di un intellettuale che ha saputo fondere la sostanza del gesto umano, il suicidio, con il valore concettuale profondo di quel gesto stesso. Hannah Arendt raccontando in poche righe quell’ultimo atto estremo del pensatore tedesco non dice che abbia scelto di morire perché non può più scrivere, ma chiude con una domanda retorica che, almeno nella mia rilettura emozionale di quel momento, non può che farmi pensare che, eliminata la possibilità di assemblare la sua rete di citazioni per costruire un suo pensiero Benjamin ha pensato bene di doversene andare per sempre. In altre parole ha enunciato, in pieno Nazismo, che per poter dire qualcosa non si può fare a meno del pensiero dell’altro. Ciò che mi colpisce quindi è che questa affermazione non è un termine retorico ma un metodo di lettura e scrittura del mondo che ha fatto di lui uno dei pensatori sempre “attualizzabili” fino ad oggi. Citare Benjamin è come citare una costellazione di pensieri, usare i suoi testi vuol dire discutere necessariamente della forza del pensiero composto, dell’efficacia del montaggio concettuale, della necessità della citazione come elemento base della cultura della postproduzione. Ho riletto L’omino gobbo e il pescatore di perle della Arendt non so più quante volte, fino a convincermi che non è più essenziale sapere se in quella frase lei volesse in qualche modo “spiegare” la morte di Benjamin, ma sono certa che quel piccolo epitaffio, commovente e insieme densamente politico, sottolinea una peculiarità della ricerca benjaminiana che è la sua vera eredità intellettuale e politica. Nello stesso testo la Arendt dice che Benjamin non ha mai trovato in vita né fama né collocazione nel mondo accademico perché non ha mai accettato di essere catalogato in un solo ambito disciplinare2, ma anche perché davanti agli stessi accademici ha definito essenziale per la sua ricerca il suo sistema relazionale di citazioni indicandole come le possibili costellazioni dei saperi.
Come scrive lo stesso Benjamin occorre: “Opporre alla teoria della storia l’osservazione di Grillpazer, che Edmond Jaloux in Journaus Intimes («Letemps» 23 mai 1937) traduce: «Leggere nell’avvenire è difficile in modo puro, ma vedere in modo puro nel passato è ancora più difficile: vale a dire senza mescolare a questo sguardo retrospettivo tutto ciò che è accaduto nel frattempo». Raggiungere la «purezza» dello sguardo non è difficile, è impossibile”3. Tengo a mente questa considerazione perché penso che sia la condizione essenziale di un nostro oggi che tende a creare una pericolosa continuità tra passato e presente, non attualizzando ciò che è stato, ma imitandolo, adottando un’idea di “modello” quanto mai pericoloso che porta ai revisionismi di vario genere. Guardo al suicidio di Benjamin e non posso che consolarmi sapendo che da quell’ombra flebile è nato un pensiero che ha informato la “mia” cultura, che ha scritto libri che sono stati la “mia” storia. Non è la portata del gesto in sé che muta a causa di ciò che la storia ha disegnato subito dopo per l’Europa nazi-fascista, ma il mio sguardo di studiosa occidentale, figlia di chi ha vissuto in prima persona quelle vicende, non può e non vuole essere “puro” e rilegge quella decisione come una scelta, una precisa posizione. Non posso non pensare che la donna che da anni mi racconta di nuovo quel suicidio, Hannah Arendt, è a sua volta una “sopravvissuta”.
Il cadavere di Benjamin cade davanti a me al rallentatore mentre una pallottola colpisce il bacino di Peter Fechter, diciottenne, che salta il Muro di Berlino e viene lasciato morire dissanguato per un’ora. Due corpi che cadono su un confine che sono due nodi di una mia costellazione storica. Non sono “vittime”, sono gesti, scelte, che hanno determinato immaginari, costruito luoghi atopici o eterotopici, che si potranno ripercorrere ogni volta che qualcuno deciderà di prendere posizione.
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1 H. Arendt, L’omino gobbo e il pescatore di perle, in Il futuro alle spalle, Il Mulino, Bologna 1995, p.65 (Ed. or. W. Benjamin 1892-1940).
2 H. Arendt, op.cit. pp. 45-46.
3 W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1974, p.120.