La pratica dell’insegnamento, anche in epoca precedente l’età contemporanea, ha dovuto confrontarsi con due problemi fondamentali. Da una parte la riflessione si appuntava sui contenuti da trasmettere; dall’altra non si poteva ignorare un fattore fondamentale affinché questi contenuti giungessero effettivamente agli allievi e cioè la metodologia più efficace per farlo. Ma mentre sul primo corno del problema la teoria poteva svilupparsi apparentemente senza ostacolo e produrre i modelli più vari e differenziati, il secondo corno rimaneva per lo più silente ma doveva fare i conti con un’inquietante e fastidiosa resistenza dei soggetti sottoposti all’insegnamento. Infatti le menti degli allievi non sono trasparenti, trasmettere una nozione non significa automaticamente che questa venga non solo compresa, ma anche solo ascoltata. La mancata comprensione o la scarsa ritenzione dei precetti, la distrazione e la disattenzione mantenevano in vita un territorio mentale dei discenti che a volte risultava irraggiungibile dai docenti.
L’uso delle immagini o degli oggetti come catalizzatori della trasmissione didattica e dell’attenzione ha quindi una lunga storia proprio a partire dal tentativo degli artigiani della trasmissione di conoscenze di oltrepassare questo confine e di comunicare efficacemente le nozioni.
Per avere un esempio di scelte strategiche operate in questa direzione basta pensare all’uso delle immagini simboliche e narrative che fin dal medioevo costellava le chiese per narrare la storia sacra al popolo, analfabeta ma interessato a comprendere la strada verso dio. Oppure si può ricordare la versione esplicitamente pedagogica di questa riproduzione di immagini o esposizione di oggetti nella grande utopia di Tommaso Campanella. La città del Sole infatti era immaginata racchiusa in sette cerchie di mura lungo le quali i maestri avrebbero condotto a passeggio i bambini; le mura erano immaginate «istoriate» delle vicende del mondo umano, delle immagini degli animali esotici e dei ritratti dei grandi uomini; gli elementi della natura sarebbero stati esposti direttamente nella loro presenza fisica come i minerali nelle teche o gli animali nelle gabbie. L’intera città diveniva quindi una grande enciclopedia illustrata o addirittura vivente sulle cui forme ogni cittadino avrebbe imparato ogni cosa fin dalla nascita.
Questa intuizione conobbe notevoli sviluppi nel campo della didattica con Pestalozzi e le sue lezioni oggettive, che cercavano la mediazione degli oggetti per la trasmissione didattica. Alla fine dell’Ottocento quindi, in epoca di obbligo scolastico (dapprima sulla carta e progressivamente esteso alla realtà) anche in Italia gli editori e i commercianti di materiali scolastici cominciarono a produrre e distribuire – accanto ai libri – sussidi per la didattica che potevano essere mostrati nel momento della lezione o venire appesi alle pareti dell’aula e prolungare il loro effetto anche nei tempi non specificamente dedicati all’insegnamento di uno specifico argomento.
Entrando in un’aula del 1900 come quella fotografata a Giulianova (Teramo) nel marzo del 1900 e conservata nell’archivio Indire di Firenze possiamo vedere che gli elementi fondamentali dell’allestimento della classe erano ancora i banchi disposti in linee serrate e senza spazi di “fuga”, organizzati ordinatamente in direzione della cattedra che li dominava frontalmente. La lezione frontale infatti costituiva lo strumento incontrastato della didattica e richiedeva un dominio rigido del docente anche sulla base della disposizione spaziale reciproca degli attori.
Dietro al docente, sulle pareti, campeggiavano l’immagine del re e la carta d’Italia. Il ritratto del sovrano attribuiva autorevolezza all’insegnante quale rappresentante del Regno incaricato di impartire l’istruzione e l’educazione agli studenti, mentre la carta del regno contribuiva a quel lavoro di nazionalizzazione delle masse che era iniziato con l’Unità e che procedeva faticosamente nelle piazze, nelle caserme, nei campi di battaglia ma anche nelle aule scolastiche. Non era appeso il crocefisso, almeno in questa scuola, essendo l’Italia nata laica e in contrasto con lo stato Vaticano, anche se è vero che non era raro trovare scuole – soprattutto elementari – che invece lo appendevano.
Troviamo conferma di questa diffusione informale dei crocefissi in un altro tipo di documento, il catalogo del materiale scolastico (ne uso una copia della ditta Battei di Parma del 1914). Qui il crocefisso viene pubblicizzato (anche se in pagina separata e successiva a quella che presenta gli emblemi ufficiali) in due versioni, «intagliato in legno infrangibile» di 70 cm o in metallo alto 40 cm. I ritratti del re e della regina invece, nelle diverse versioni proposte, potevano raggiungere anche il metro di altezza.
In questo catalogo accanto agli strumenti della didattica e alle carte geografiche dell’Italia, delle altre parti del mondo, delle «colonie italiane in Africa» e delle recentemente conquistate «Tripolitania e Cirenaica», troviamo i cosiddetti «quadri murali», cartelloni delle dimensioni dei manifesti che potevano trasformare periodicamente le pareti dell’aula in lavagne istoriate funzionanti come supporto nell’illustrazione delle lezioni. Ne esistevano serie di vari argomenti; alcune legate alla storia e alle scienze: «Storia del Risorgimento italiano», «Storia romana e greca», «Storia naturale»; altre dedicate all’educazione morale del popolo come i quadri di «scene famigliari, di vita reale e di Nozioni varie»: «I doveri verso la patria (6 scene)», «Il natale dell’operaio», «Non deridere i disgraziati», «La disubbidienza», ecc. Per arrivare alle tavole specifiche sull’alcolismo e sull’indispensabile indottrinamento morale e materiale dell’operaio: «Tav. I L’ozio e il lavoro – Tav. II Previdenza e risparmio vale benessere – Tav. III L’imprevvidenza è la miseria»
Negli anni del fascismo l’uso nelle scuole dei sussidi didattici da parete conobbe una crescita di importanza notevole. Nello specifico della scuola la trasformazione si avviò immediatamente dopo la marcia su Roma. La prima cosa che venne reintrodotta fu il crocefisso. Il 22 novembre del 1922 il sottosegretario Dario Lupi attraverso una circolare impose la sua affissione accanto al ritratto del re e l’anno seguente diede parere favorevole alla richiesta di sostituire il crocefisso con un’immagine «del Redentore in una sua espressione significativa che valga a manifestare il medesimo altissimo ideale che è raffigurato nel crocefisso, ( per es. ‘Cristo e i fanciulli’)».
Circolare sul crocefisso, 1923 (Archivio di Stato di Bologna, Fondo Provveditorato agli studi, Serie II)
[http://www.cespbo.it/immagini/fascismo/1923_crocifisso.jpg]
Queste circolari preparavano il terreno al R.d. 1 ottobre 1923 attraverso il quale «l’insegnamento della religione cattolica diveniva fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica e dunque il crocefisso era parte di quell’insegnamento diffuso della religione che permeava di sé anche i programmi scolastici [della scuola elementare]» (Alberto Gagliardo, Arredi e decorazioni scolastiche, in Gabrielli, Montino, La scuola fascista, pp. 27-32).
Nel 1926 la composizione della parete maestra della classe venne completata con l’introduzione dell’immagine del duce. L’acquisto dei ritratti di Mussolini quando il fascismo si era ormai trasformato in regime dava concretezza immediata al nuovo assetto di poteri maturato in Italia: il re ora non era più l’unico riferimento della nazione, ma la sua figura veniva affiancata da una religione avviata verso il Concordato e dalla presenza fisica del dittatore. L’uso dell’icona del capo rientrava «in un progetto di personalizzazione della politica e di spregiudicato uso dei linguaggi del corpo che facevano allora le prime prove in una società che andava scoprendo la sua dimensione di massa» (Gagliardo, cit.)
Il regime in questo senso cercò di moltiplicare e di diffondere i suoi simboli, come il fascio littorio che divenne presto emblema dello Stato, o come la nuova datazione dalla Marcia su Roma che confluì nelle lettere della burocrazia ma anche sulle pagine dei quaderni scolastici. La stessa parola del duce fu trasformata in elemento grafico-estetico con cui allestire il territorio e utilizzarlo a fini di propaganda. La «M» mussoliniana, sull’esempio della «N» di Napoleone III, le facce e i busti del duce, le sue frasi rivestirono il paesaggio urbano a partire dalla seconda metà degli anni Venti trasformando le piazze in altrettanti scenari decorati al fine di «istruire il popolo». La città diveniva così una grande classe all’aperto in cui tracciare i compiti e i precetti che la popolazione doveva leggere e interiorizzare: il «popolo scolaro», verrebbe da dire, pensando – mutatis mutandis – al lavoro di Antonio Gibelli Il popolo bambino.
L’aula divenne così negli anni seguenti il corrispettivo «scolastico» di questa opera pedagogica urbana che si serviva dei simboli del regime, dai busti di Mussolini ai fasci littori, dalle frasi del duce alle icone degli eroi dell’aria e dei martiri della Grande guerra o della «rivoluzione fascista».
Nel libro di testo di Stato per la quinta classe firmato da Roberto Forges Davanzati nel 1930 (e rimasto in uso fino al 1938) troviamo la descrizione della vita in di una scuola romana in cui si trasferisce Vittorio, piccolo protagonista della storia. Seguiamo i ragazzi mentre salgono le scale per arrivare all’aula del secondo piano: «quando la colonna degli scolari passa, al primo pianerottolo, dinanzi al busto di un giovane, che sorride nell’ampia luce del finestrone, il maestro dà il comando di saluto, e tutti levano il braccio» (p. 67). Nelle pagine seguenti si apprende che «il busto di giovane sul primo pianerottolo è di un ufficiale di marina morto, il 28 ottobre 1911, a Homs, in Tripolitania», di cui uno scolaro – «quello che è passato sempre senza esami» (cioè il migliore) – viene incaricato di leggere ai compagni nuovi arrivati la motivazione della medaglia d’oro. Una foto mostra la scalinata che oltre al busto dell’eroe presenta i ritratti del re e del duce. L’allestimento dell’ambiente “educativo” scolastico fascista parte dalle scalinate e dai corridoi e include retroattivamente nella propria genealogia anche i martiri del nazionalismo coloniale.
Nei momenti cruciali della storia del regime i sussidi murali accompagnarono il coinvolgimento nella mobilitazione di una scuola sempre più fascistizzata e forzata a divenire la catena di trasmissione dell’ideologia del regime. Ad esempio la conquista dell’Etiopia fu seguita da pubblicazioni come «Il manifesto scolastico settimanale» che forniva una specie di giornale murale fatto di grandi immagini e didascalie che poteva essere usato come supporto all’illustrazione delle fasi della guerra e dei costumi delle popolazioni sottomesse, poteva spiegare la loro barbarie e mostrare gli eroismi dei combattenti fascisti. Durante l’anno scolastico corrispondente alla conquista, le carte geografiche dell’Africa Orientale divennero la lavagna d’attualità sui cui seguire giornalmente l’avanzata delle truppe e su cui rintracciare i luoghi degli eventi citati durante la lettura dei bollettini di guerra. L’appropriazione militare dei territori aveva nelle aule un proprio corrispettivo culturale nell’appropriazione simbolica ed emotiva di quei territori trascritti nelle forme dei codici geografici. Ma in quel periodo l’allestimento dell’aula a scopo didattico-propagandistico raggiunse addirittura la multimedialità, con l’introduzione della radio in molte scuole che permetteva, in alcune occasioni, di ascoltare direttamente le parole sacralizzate del duce o di sincronizzare un numero sempre maggiore di istituzioni scolastiche sui contenuti di una invasiva didattica politica.
Forges Davanzati, Il balilla Vittorio, 1930
Cinti
Questa trasformazione delle pareti ebbe quindi i suoi teorici dell’allestimento decorativo. Ad esempio Italo Cinti che scrisse il volumetto La decorazione dell’aula scolastica, Roma, ed. Urbinati, 1939, in cui afferma: «Il monito va prendendo una parte significativa nella decorazione-propaganda muraria esterna, in tutte le strade d’Italia; e può entrare, deve entrare, anzi, nelle nostre classi: anche il muro è libro così, ed è voce, voce di Colui che è nel cuore di tutti: il Duce. È vero che la scritta ha un suo significato a sé stante, una sua funzionalità imperativa e morale da compiere, e la compie se interpreta gli orientamenti combattentistici, eroici del nostro tempo fascista (e il duce ne ha di superbamente lapidarie), ma la “collocazione” delle scritte rientra nel decorativo; la scritta si fa per ciò stesso figurazione, pur senza nulla perdere del contenuto discorsivo».
Per quanto riguarda i bambini, addirittura il precetto politico di regime doveva giungere ad una «incorporazione» vera e propria, come accadeva nelle messe in scena delle «M» e della parola «dux» fatte rappresentare dai balilla e dalle piccole italiane opportunamente disposti con i loro corpi per renderli parte di una scrittura politica leggibile da lontano.
Ma l’imperialismo bellicista del regime non era senza contropartite. Le aule istoriate politicamente dalla fine degli anni Trenta si rivestirono anche dei cartelloni murali destinati a dare istruzioni in caso di bombardamento, questa volta subìto. Alle lezioni pratiche su come indossare la maschera antigas (dal 1934) si aggiunsero le esercitazioni, illustrate nei manifesti preparati dall’Unione nazionale protezione antiaerea, per imparare a defluire in maniera ordinata, recarsi nei rifugi, operare i primi soccorsi o spegnere gli incendi. Non tardarono anche ad arrivare i bombardamenti veri, che ovviamente colpirono anche le scuole trasformando quei muri superbi e autoritari in ruderi fumanti. Nel dopoguerra, oltre agli innumerevoli lutti si calcola che almeno l’80% dei sussidi didattici andarono distrutti nelle vicende del secondo conflitto mondiale. Tra i nuovi cartelloni murali che furono preparati per le precarie e improvvisate scuole del dopoguerra erano presenti inediti manifesti che mostravano le diverse tipologie di bombe e insegnavano ai bambini a riconoscerle, per evitare che, chi andava alla ricerca di rottami di metallo spinto dalla grande povertà, potesse procurarsi ferite o la morte maneggiando incautamente queste diffuse eredità inesplose del ventennio.
Scuola Elementare «Madonna di Campagna», Viale Madonna di Campagna. Effetti prodotti dai bombardamenti dell’incursione aerea dell’8-9 dicembre 1942. UPA 2825_9D01-38. © Archivio Storico della Città di Torino
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Gianluca Gabrielli insegna nella scuola elementare. Si è occupato del razzismo fascista e del colonialismo italiano, nonché di storia della scuola. Ha collaborato alla mostra “La menzogna della Razza” (1994) e attualmente sta lavorando in un gruppo di lavoro per la preparazione di un “Dizionario sulla scuola fascista”. La ricerca sulla didattica della matematica in epoca fascista è stata svolta insieme a Maria Guerrini, insegnante di scuola elementare, in collegamento con il gruppo di ricerca di Bruno D’Amore (Università di Bologna) e con il sostegno della Soprintendenza ai Beni Librari e Documentari della Regione Emilia-Romagna.