NURTURE o dell’educazione libertaria
Antonio Gramsci: anti-spontaneismo e natura umana
di Pietro Maltese

Il discorso pedagogico gramsciano è contrassegnato da una critica, talora piuttosto abrasiva, verso quelle proposte educative incentrate sul libero dispiegarsi delle (supposte) attitudini naturali dei singoli, la cui portata (politicamente) emancipativa è messa in dubbio. Per limitarsi alla fase della reclusione, è possibile ritracciare passi dei Quaderni e delle Lettere nei quali è espresso un disappunto rispetto ad alcune esperienze in senso lato ascrivibili a quella corrente pedagogica assai eterogenea – e non conosciuta nella sua integrità dal sardo – racchiudibile sotto il nome di attivismo, una corrente in netta contrapposizione con i modelli di scuola e di educazione magistrocentrici e tradizionali e caratterizzata da motivi puerocentrici, spontaneisti, anti-nozionistici, in alcuni casi libertari. Ebbene, le perplessità di Gramsci potrebbero farsi risalire alla sua concezione della natura umana.

1 Gramsci e l’attivismo

In un paragrafo del Q. 1, Gramsci pone sotto una lente di ingrandimento critica il neoidealismo di Gentile e Lombardo Radice, le cui conclusioni in materia educativa gli appaiono degenerazioni della pedagogia delle scuole nuove1. In questo testo, è manifestata l’esigenza di «cercare l’origine storica […] di alcuni principi della pedagogia moderna», la quale presuppone la «collaborazione amichevole tra maestro e alunno; la scuola all’aperto; la necessità di lasciar libero, sotto il vigile ma non appariscente controllo del maestro, lo sviluppo delle facoltà spontanee dello scolaro». La scaturigine di tale complesso ideologico è rintracciata nella pedagogia di Rousseau, interpretata come «reazione violenta alla scuola» tradizionale ed ai «metodi […] dei Gesuiti». Per Gramsci, la svolta ginevrina della pedagogia va, al postutto, giudicata, comunque, «un progresso», ciò non può, invece, dirsi per le sue «curiose involuzioni» addebitate a Gentile e Lombardo Radice. Il bersaglio è la nozione di «spontaneità», da essi ereditata dall’autore dell’Emilio e che conduce ad immaginare il «cervello» infantile alla stessa stregua di un «gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare» [Q. 1, p. 114], metafora, questa, rinvenibile in una lettera coeva [L. 30/12/1929 a Giulia].
E ancora, in una nota avente per tema un articolo del Ferrando, pubblicato sul «Marzocco» nel ’31 e relativo ad un libro di Washburne (esponente dell’attivismo americano di ascendenza deweyana) dedicato ad una serie di scuole nuove europee visionate dal pedagogista statunitense nel corso di un viaggio nel vecchio continente, Gramsci esprime giudizi piuttosto tranchant: l’introduzione del lavoro all’interno di alcune di queste scuole è vista come un «accostamento meccanico» di «lavoro e teoria», che non ricompone la scissione tra mente e mano; è problematizzata la generalizzabilità di esperienze educative che, testate su scala ristretta, danno effetti proficui, ma, una volta diffuse ad un livello di massa, gioco-forza incapperebbero in molteplici inconvenienti pratici; l’analisi dell’eccezionalità degli esperimenti attivisti è ritenuta utile per «vedere ciò che non occorre fare» [Q. 9, pp. 1183-1185].
Infine, nel Q. 12, Gramsci osserva: «si è ancora nella fase romantica della scuola attiva, in cui gli elementi della lotta contro la scuola meccanica e gesuitica si sono dilatati morbosamente per ragioni di contrasto […]: occorre entrare nella fase […] razionale». Secondo ilprigioniero, se, nei gradini iniziali di un sistema di istruzione, un livellamento dinamicamente conformistico è indispensabile per collettivizzare una determinata forma di «tipo sociale», ovverosia per adempiere ad ineludibili funzioni di socializzazione, in quelli successivi è auspicabile implementare modalità di «apprendimento […] spontane[e,] autonom[e]» e creative, precisando, però, che la spontaneità e la creatività non debbano suggerire un «“programma” predeterminato con l’obbligo dell’originalità» [Q. 12, p. 1537]. Diversamente accade nella scuola del neoidealismo, dove «l’educatività è esaltata» «secondo schemi cartacei» ed è (solo verbalisticamente) enfatizzata una costante «attività del discente» in stretta «collaborazione» con il docente [Q. 12, pp. 1542-1543].
Quanto alle Lettere, è noto il contenuto di alcune missive sull’educazione dei figli (Delio e Giuliano, residenti in URSS con la madre e la di lei famiglia), nelle quali Antonio lamenta il clima ginevrino e spontaneista di casa Schucht [L. 30/12/1929 a Giulia; L. 20/03/1931 a Tatiana], cui contrappone una visione pedagogica «volontarista» [L. 22/04/1919 a Tania].
Nel complesso, comunque, vista la poca conoscenza di alcuni filoni attivistici, ad esempio di quello deweyano (d’altro canto la circolazione italiana delle opere del pensatore statunitense era, nei primi del Novecento, relativamente ristretta2), si potrebbe giungere alla conclusione secondo cui l’anti-attivismo di Gramsci vada, forse, circoscritto alle involuzioni pedagogiche della teoresi roussouiana e bergsoniana – si noti, per inciso, che egli possedeva L’école active di Ferrière, studioso influenzato dall’istanza bergsoniana dello slancio vitale –, nonché alle declinazioni italiane della pedagogia nuova, sotto il segno e/o il benestare dell’attualismo, le quali ostentano un’immagine estetizzante dell’infanzia. Al contrario, in Gramsci l’infanzia è risolta in termini integralmente sociali. Ciò nella prospettiva dello smontaggio delle «mitologizzazioni» e della «progettazione di un modello educativo […] “storicistico”, sottratto ad ipoteche metafisiche ed a fideismi astratti»3.

2 La natura umana

Come detto, è possibile spiegare la ritrosia di Gramsci nei confronti delle prospettive spontaneistiche esaminando la sua concezione della natura umana. Nella fattispecie, questi critica quelle filosofie che, ponendosi il quesito su cosa sia l’uomo, cercano un «concetto […] unitario», ovvero un’«astrazione in cui si possa contenere tutto l’“umano”». Il problema è che tale «ricerca» dell’umano quale «punto di partenza» rischia di risolversi teologicamente (metafisicamente) e di ridurre il discorso filosofico ad un’antropologia «naturalistica» tesa a rintracciare «l’unità del genere» a partire dalla «natura “biologica” dell’uomo». E ciò sebbene «le differenze dell’uomo, che contano nella storia non» siano affatto «quelle biologiche» [Q. 7, p. 884].
Ora, parecchi passi sembrerebbero confermare una sostanziale aderenza alla concezione (marxiana) della natura umana4 come «insieme dei rapporti sociali» [Q. 16, 1874-1875], mobile, non fissa [Q. 13, p. 1599] e, per ciò stesso, politica [Q. 10, p. 1338] e storica: «la natura dell’uomo è la “storia” […] se […] si dà a storia il significato di “divenire” […]: perciò la natura umana non può ritrovarsi in nessun uomo particolare ma in tutta la storia del genere […] (e il fatto che si adoperi la parola “genere”, di carattere naturalistico, ha il suo significato)» [Q. 7, p. 885]. L’uomo andrebbe, quindi, concepito come una «serie di rapporti attivi (un processo) in cui» convergono «l’individuo; […] gli altri uomini; […] la natura». Ciascuno, spiega Gramsci, entra in relazione con gli altri e con la natura esterna mediante rapporti attivi: con gli altri uomini «organicamente», accedendo ad organismi sociali progressivamente più complessi ed articolati; con la natura non, «semplicemente, per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica». Pertanto, «ognuno cambia se stesso […] nella misura in cui cambia e modifica […] il complesso dei rapporti di cui […] è il centro di annodamento» [Q. 10, p. 1345]. Otteniamo, così, «un’immagine dell’individuo aperta alla rideterminazione continua nei rapporti con gli altri uomini, in cui la natura umana non è consegnata al dato biologico […], ma si caratterizza come potenza, come spazio d’intersezione di forze e relazioni. Abbiamo, di conseguenza, un’antropologia implicita», fondata «sull’apertura costitutiva di ogni uomo agli altri uomini, e che permette a ognuno di relazionarsi, di riconoscersi, nell’intero genere umano, nelle sue contraddizioni, nella sua universalità»5. Come è stato notato dalla letteratura, dietro queste articolazioni concettuali stanno le Tesi su Feuerbach, in specie la VI, quantunque lì Marx non parli propriamente di natura umana, ma di «essenza umana» (das menschliche Wesen). In ogni modo, Gramsci in carcere ri-traduce le Glosse, rendendo das menschliche Wesen con «realtà umana» [Q., p. 2357] ed espungendo ogni connotato essenzialistico (o che possa far pensare ad una qualsiasi forma diessenzialismo6) coerentemente con un’impostazione che insiste sulla centralità della praxis7.
Alcuni autori hanno, tuttavia, evidenziato la presenza di un secondo modello di natura umana, non mobile né flessibile, bensì connotato negativamente e latore di un paradigma pedagogico disciplinante, volto al soggiogamento di istinti primordiali ritenuti animaleschi, anti-sociali e da superare al fine dell’introduzione del singolo nella storicità.

3 Una teoria «silenziosa» e «tacita» della natura umana?

In un articolo del 1990, Howard K. Moss individua una «discontinuità», in Gramsci, tra la «visione teorica» marxiana dell’uomo (cui il carceratos’appoggia) e la prefigurazione di una «pratica politica»8 essenzialmente dispotica9, in quanto basata su una concezione pessimistica della natura umana. Vicino ad orientamenti libertari, Moss è inquadrabile in un filone (politicamente ben schierato) che negli anni ha prodotto studi parecchio critici (ed ingenerosi) nei confronti del pensiero di Gramsci. Si pensi al Day di Gramsci is Dead (2005), il quale lamenta il contrassegno autoritario del dispositivo egemonico, opponendogli l’orizzontalità dei nuovi movimenti di ispirazione anarchica10. La critica della rappresentanza, il rifiuto della (tradizionale) mediazione politica, l’orientamento verso un’immediatezza volta qui ed ora alla realizzazione di esistenze alternative e liberate, la valorizzazione dell’«irriducibilità delle differenze»11, la propensione per forme non-egemoniche di conflitto e di vita comunitaria fondate sulla logica dell’affinità e, al contempo, il convincimento del radicamento della strategia egemonica nella sfera dei vecchi movimenti incardinati nel contesto dello Stato-nazione ed intrinsecamente rivolti alla costruzione di statualità totalizzanti e totalitarie12, costituiscono l’ossatura di questa lettura. Si vedano, poi, gli esiti di certa antropologia politica (anch’essa) di indirizzo libertario, che ha giocato «un ruolo […] inatteso […] nella costruzione teoric[a] dei movimenti contestatari nella fase attuale di crisi […] capitalistica». In queste elaborazioni, l’egemonia, «una forza esterna che si impone sul soggetto»13, è sovente pensata come sovrastrutturale e discorsiva, senza coglierne, perciò, l’ubiquità14. Si tratta di un’egemonia statica e nient’affatto dinamica. E si tratta, inoltre, di un Gramsci ridotto a «teorico dell’ideologia dominante»15 in ragione di un’ermeneutica che giustappone l’egemonia al concetto di ideologia tratteggiato nell’Ideologia tedesca (meglio: ad una diffusa ma, forse, parziale interpretazione del fenomeno ideologico descritto da Marx ed Engels), testo che, comunque, il sardo non poteva conoscere. Sembra, così, esclusa, nella teoria gramsciana, ogni contro-egemonia dal basso16, ogni politica egemonica dei subalterni condotta dai subalterni stessi. Del medesimo tenore le riflessioni di Moss. Dell’egemonia questi stigmatizza il ruolo direttivo delle élites, in ciò assumendo il rapporto egemonico come «gerarchico» e non, quale invece chi scrive crede sia, «osmotico»17. Il ruolo dell’intellettualità organica e del partito è, infatti, inteso in un senso autoritario e ritenuto cifra di una teoria, in ultima istanza, statalista – uno statalismo già ravvisabile negli scritti giovanili.
Criticando, di fatto, la lettera del dicembre del ’29 in cui Antonio afferma che «l’uomo è tutta una formazione storica ottenuta con la coercizione» [L. 30/12/1929 a Giulia], Moss scrive:

 l’idea di sua moglie […] che i bambini a cui è consentito di interagire con l’ambiente svilupperanno, se quell’ambiente non è oppressivo, forme di comportamento improntate alla cooperazione, […] sembra essere materialista, mentre Gramsci adotta la posizione idealista secondo la quale i bambini cresciuti senza coercizione […] tenderanno […] a comportamenti socialmente indesiderabili. Le implicazioni di ciò […] indicano la […] convinzione […] che l’uomo, lungi dall’essere una creazione […] storica, sia un essere […] antisociale le cui tendenze [socialmente inaccettabili vanno] tenute sotto controllo da un’autorità superiore18.

Questa visione caustica costituirebbe la leva della scelta antispontaneista, ed il tono di alcuni testi indicati da Moss sembrerebbe, prima facie, confermare la sua ipotesi: nel Q. 1, Gramsci sostiene che «l’educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l’uomo “attuale” alla sua epoca» [Q. 1, p. 114]. Più tardi, nel 1930, lamenta, nello scrittore tedesco Frank, la tendenza a vaneggiare sulla «restaurazione di un ordine naturale sulle rovine d’un ordine artificioso» e riconduce questo convincimento all’idea per cui l’uomo sarebbe «infelice e cattivo» fintantoché «incatenato dalla legge, dal costume, dalle idee ricevute» [Q. 3, p. 287]. Si tratterebbe della ri-edizione del mito rousseauiano del «“buon selvaggio” corrotto dalla società» [L. 30, 12, 1929 a Giulia], che Gramsci collega alla diffusione della psicoanalisi [Q. 1, p. 26]19. Nel Q. 6, poi, allude criticamente allo «spontaneismo» ed al «razionalismo astratto» eretto «su un concetto della “natura umana” […] ottimistico» [Q. 6, p. 774]. L’acme è, infine, raggiunto in un paragrafo del Q. 22 intitolato Animalità e industrialismo, dove il carcerato constata come «la storia dell’industrialismo», cioè la storia del lavoro e, di conseguenza, marxianamente, dell’uomo, sia «sempre stata […] una continua lotta contro l’elemento “animalità” […], un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione» [Q. 22, pp. 2160-2161]. E qui si ha quasi l’impressione di trovarsi di fronte ad un Gramsci freudiano20.
Insomma, questa la conclusione di Moss, in Gramsci opererebbe una teoria «tacita» e «silenziosa» della natura umana, la quale finirebbe addirittura per palesare residui cattolicheggianti (indirettamente ed implicitamente legati alla nozione di «peccato originale»21). E ciò sebbene nei Quaderni sia presente una polemica nei confronti del cristianesimo, che «pone la causa del male nell’uomo stesso», concependolo quale «individuo limitato alla sua individualità» [Q. 10, pp. 1344-1345] e non, piuttosto, centro di annodamento di rapporti attivi (individuali, sociali, naturali).

4 L’animalità come «disordine»?

In un convegno del 1987 avente per oggetto le meditazioni di Gramsci sull’americanismo, Roberto Finelli si concentra su una nota del Q. 22 qui già considerata (Animalità e industrialismo), dove, a suo parere, emergerebbe una «teoria della civilizzazione come soggiogamento e trascendimento pedagogico del naturale» dai tratti spiritualistici. Vale a dire che l’industrialismo non razionalizzerebbe solo l’«economico», bensì pure il «comportamento verso se stesso dell’uomo», portato a disciplinare la propria «istintualità», che in questo testo parrebbe assumere i connotati di un ambito in cui dominano «spreco» e «disordine». Ne verrebbe una sorta di opposizione tra natura e ragione. Marxianamente, mediante il processo lavorativo, nel ricambio organico uomo-natura, l’uomo trasforma e manipola tanto la natura esterna quanto quella interna. Sennonché, forse per una malintesa declinazione repressiva del motivo della manipolazione, nella rappresentazione gramsciana, commenta Finelli, il lavoro è «produttivo e fecondo all’esterno [,] normativo all’interno», con una raffigurazione – in fondo comune a parte del pensiero filosofico-politico moderno – della storia quale duello (inconcludibile) contro la natura. Siccome, però, Gramsci tematizzerebbe in modo «insufficiente» il «rapporto natura-storia», giungendo alla «svalorizzazione idealistica» della prima (in specie di quella «corporea»), allora il suo uomo nuovo delle moderne società di massa ripeterebbe al proprio interno delle perniciose scissioni e queste, a loro volta, getterebbero un’ombra sulla caratura universale del suo progetto di razionalizzazione sociale, alternativo a quello di marca americana e per questo incentrato sull’auto-disciplina e non sulla coercizione estrinseca. Scissioni, nello specifico, tali per cui l’individuo subordinerebbe «parti di sé alla superiorità ed all’ortopedia di altre parti di sé». Il punto dolente risiederebbe, secondo Finelli, nel fatto che pure l’americanismo non americano sarebbe, insomma, contrassegnato da un modello di «socializzazione» nel quale non sembrerebbe esservi spazio per un’«universalizzazione effettiva», sibbene «astratta, perché il convenire di ciascuno nell’omologazione comune sarebbe realizzato […] al prezzo della scissione […] della propria […] naturalità». Motivo per cui, per Finelli, l’universale esibito sarebbe «formale» per la presenza di sedimenti di un «pensare analitico, che, muovendo da una certa natura presupposta dell’individuale, concepisce l’universale come tale che, anziché accogliere e produrre in sé […] il particolare e la differenza, li nega». Nei Quaderniemergerebbero, allora, due prototipi contrapposti di individualità e, per la qual cosa, di socializzazione: l’uno garante delle differenze, l’altro, al contrario, incentrato su «un individuale» non presupposto-posto ma «preconcepito alla relazionalità sociale», che si fa e si dà all’interno di una processualità pedagogica autoritaria, basata sulla negazione di quelle «peculiarità» che «individualizzerebbero» il soggetto (anche) «quale ente naturalistico e presociale». Questi due modelli di socializzazione sarebbero guidati, rispettivamente, da un principio di «universalizzazione in cui, rimosse le barriere di classe, ogni alterità viene accolta e sviluppata come differenziazione interna»22, il che ricalca l’idea di comunità reale opposta alla comunità apparente da Marx ed Engels23 anche al fine di confutare l’accusa che l’ipotesi comunista schiacci, sussumendola, l’individualità sulla classe24, e da un principio, invece, movimentato da un’«etica del sacrificio e dell’oblazione», che mira a conculcare la singolarità. Questo «idealismo analitico e astraente»25 sarebbe, parimenti, reperibile nel congegno egemonico e nel movimento catartico dall’economico-corporativo all’etico-politico26. Difatti, la politica-egemonia si dispiegherebbe unicamente a partire dall’oltrepassamento «dell’agire unilateralmente economico», dall’uscita da una sfera irrimediabilmente imprigionata dalla tensione all’utile, e che per questo appare un «presupposto […] da superare». Evidenti, qui, secondo Finelli, i residui crociani (la dialettica dei distinti) relativi al rintracciamento di una «forma individuale dell’agire» e di una «forma […] universale», i quali vengono da Gramsci originalmente rielaborati «nel quadro di una morale della sublimazione» che, alla resa dei conti, attribuisce all’agire economico (individuale) lo stigma del «disvalore»27. Certo, Finelli ammette l’estraneità del sardo all’idea di economia pura avente per protagonista unhomo oeconomicus dai connotati biologici ed immutabili [Q. 10, p. 1276]. Cionondimeno, a suo parere, tanto la dimensione economica quanto quella etico-politica sarebbero, sì, in Gramsci, «ambiti di scelta e di libertà», e però qualitativamente differenti: la prima coinciderebbe con il campo della «volizione» «individuale», la seconda con quello della volizione «universale». E nel primo caso non potrebbe accendersi il movimento egemonico, non coincidendo, esso, con la «riproduzione», da parte di un gruppo sociale, della propria «parzialità», quanto piuttosto con la capacità di quel gruppo, a partire dalla propria parzialità, di dirigere altri gruppi28. L’economia, in questo modello, non possiederebbe, quindi, la medesima «valenza socializzante della politica» e le soggettività non equivarrebbero ad un presupposto-posto(come invece Finelli riconosce accadere in altri, e numerosi, passi dei Quaderni) a causa della supposizione di due «sostrat[i] naturalistic[i] extrastoiric[i] da cui muovere, e, superando solo» i «qual[i], maturerebbe» un’inedita «identità» potenzialmente emancipabile. Questi sostrati, per Finelli, sarebbero: la natura esterna, cioè l’«ambito dell’attività economica […] permeato da volontà solo immediata o […] corporativa», e la natura interna, sia nella qualificazione di «natura prima, in quanto fondo di pulsioni biologiche e istintuali», sia in quella di «natura seconda in quanto […] precipitato di visioni del mondo non più attuali, eppure sedimentate in modi di comportamento automatici e irriflessi»29. In sintesi, come è stato scritto, Gramsci vedrebbe nelle procedure razionalizzanti e socializzanti della governamentalità fordista la «realizzazione degli universali concreti della tradizione della filosofia dell’emancipazione». Ciò poiché «l’omogeneizzazione dei modi di lavoro e di vita» verrebbe «letta come unificazione del genere umano nell’appropriazione […] della natura». Sicché, la sfida consisterebbe nel «costruire l’universale della razionalizzazione in modo antagonistico alla sua forma capitalistica»30. È una sfida che, però, Finelli vede perdente in partenza per la parzialità strutturale dell’universalità sviluppata nelle note industrialiste, le quali svelerebbero una concezione negativa della natura umana e indicherebbero modelli di socializzazione disciplinari.

Conclusioni

Stando alle argomentazioni qui considerate (Moss, Finelli), su cui chi scrive nutre più d’una perplessità, nella filosofia della praxis sarebbe rinvenibile anche una nozione di natura umana alternativa a (se non incompatibile con) quella canonicamente ritenuta marxista. Una concezione che presuppone l’esistenza di un residuo istintuale negativo da disciplinare o, meglio, da storicizzare. Si potrebbe, tuttavia, avanzare l’ipotesi che questa stessa durezza istintuale antisociale sia già da sempre storica? Sempre nel paragrafo intitolato Animalità e industrialismo, Gramsci constata che finanche «gli istinti che oggi sono da superare come ancora troppo “animaleschi” […] sono stati un progresso notevole su quelli anteriori, ancor più primitivi». Quelli che comunemente chiamiamo istinti sarebbero, cioè, prodotti storici e dietro di essi potrebbero individuarsi strutture istintuali ancora più primitive, superate per mezzo di «coercizione brutale» in determinati salti di civiltà (ad esempio «dal nomadismo alla vita stanziale e agricola») [Q. 22, p. 2161]. Ebbene, queste strutture sorpassate sarebbero ancora presenti quali sedimenti profondissimi, se si vuole latenti e pronti, eventualmente, a ritornare in superficie in quanto consustanziali alla vita umana? La posta in gioco è di quelle cruciali, concernendo il problematico rapporto tra storia e natura, tra vita qualificata (bíos) e vita solamente biologica (zoé).
Gramsci precisa che quando si parla di una seconda natura, esito di processi egemonico-educativi31, e quindi si suppone una «prima natura», quest’ultima non sia propriamente naturale [Q. 16, p. 1875]. Sennonché, come è stato notato, nella gramsciana filosofia della praxissembrerebbe, altresì, viva la consapevolezza della presenza di un «dato biologico», che vale come «presupposto della storia umana» e, al contempo, quale risultato della stessa storia. Ciò in virtù dell’incessante processo di trasformazione della natura esterna (del dato materiale quale oggetto soggettivamente posto), che fa sì che la natura sia «immersa nella storia» e, allo stesso tempo, che la storia sia immersa nella natura32. Questa conclusione rimane, però, aperta, né potrebbe essere altrimenti, giacché la vita non può essere «semplicemente ontologizzata né interamente storicizzata»33.

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1 Va ricordato che Lombardo Radice costituisce un caso di studioso inscrivibile nell’alveo dell’attualismo e, al contempo, attento ai motivi dell’attivismo internazionale.
Cfr. D. Martinez, Gramsci e il movimento per l’educazione nuova. Alcuni spunti di riflessione, «Studi sulla Formazione», 1, 2014; C. Meta,Antonio Gramsci e il pragmatismo. Confronti e intersezioni, Le Cáriti, Firenze 2010.
F. Cambi, Collodi, De Amicis, Rodari. Tre immagini d’infanzia, Dedalo, Bari 1985, p. 132.
Secondo un’interpretazione diffusa, in Marx non si può discutere di una natura umana in sé (non mediata socialmente) e, commenta Virno, una tale «impostazione» sembrerebbe «avallare la rottura fra uomo biologico e uomo socio-culturale. In realtà, in Marx le cose sono […] più complicate», sostenendo egli che «la “mediazione sociale della natura” va di pari passo con la “mediazione naturale della società” […]: se la natura è filtrata dalla società, la società […] è compresa nella natura, costituendo […] un episodio della “storia naturale”» (Scienze sociali e “natura umana”. Facoltà di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione, Rubbettino, Soveria Mannelli, p. 8).
5 M. Filippini, Individuo e individualità in Gramsci, «Critica Marxista», 3-4, 2007, p. 36.
Cfr. J. Rehmann, Theories of Ideology. The Power of Alienation and Subjection, Brill, Leiden 2013, p. 121.
Cfr. F. Frosini, La “filosofia della praxis” nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, «Isonomia», 2002, p. 37: «Se “la realtà umana” è “l’insieme dei rapporti sociali”, allora la storia dell’umanità, che è storia di lotte di classi, è il dispiegarsi della natura umana nelle determinazioni dialettiche a cui i rapporti sociali corrispondono. Questo conduce all’idea che, se non ha senso parlare di “uomo in generale”, ha senso invece porsi il problema dell’unificazione del concetto di uomo, che potrà essere solo un’unificazione storica, concreta, cioè raggiunta sviluppando politicamente, praticamente, la struttura dialettica dei rapporti sociali».
H. K. Moss, Gramsci and the Idea of Human Nature, «Italian Quarterly» 119-120, 1990, pp. 7-19, trad. it. a cura di G. M. Freddi-G. Sottile, worldsocialism.blog.excite.it.
Cfr. Id., Antonio Gramsci, in T. Chevalier (ed.), Encyclopedia of the Essay, Fitzroy Dearborn, London 1997, p. 359.
10 Day ha di fronte a sé il movimento alter-globalista e la sommossa di Seattle, ma analoghe considerazioni sono state di recente avanzate rispetto agli indignados spagnoli o al fenomeno Occupy; sul tema cfr. C. Formenti, Tra postoperaismo e neoanarchia, «Alfabeta2», 22, 2012.
11 G. Liguori, Gramsci è morto?, www.gramscitalia.it/
12 Cfr. R. D. Day, Gramsci is Dead. Anarchist Currents in the Newest Social Movements, Pluto Press, London 2005, p. 65.
13 R. Ciavolella, Egemonia e soggetto politico in antropologia, relazione presentata al seminario Egemonia prima e dopo Gramsci, Urbino 20-21/10/2014: «La dimensione libertaria, e quindi antiegemonica, è […] forte in questo tipo di elaborazioni. L’antropologia sembra offrire esempi di alterpolitica, buoni per pensare formule […] dove l’emancipazione possa passare attraverso forme non istituzionalizzate, “dal basso”, e tese alla costruzione di alternative piuttosto che al sovvertimento del sistema attraverso la presa del potere […]. In questo contesto, la figura di Gramsci è strattonata […] da antropologi d’orientamento libertario come […] Scott, che lo criticano in quanto teorico dell’imposizione del pensiero unico».
14 Cfr. A. Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi, Roma 2014, pp. 219-234.
15 R. Ciavolella, art. cit.. Sull’egemonia come ideologia cfr. Cfr. J. C. Scott, Weapons of the Weak. Everyday Forms of Peasant Resistance,Yale University Press, New Haven and London 1985, pp. 315-316: «Hegemony is simply the name Gramsci gave to this process of ideological domination. The central idea behind it is the claim that the ruling class dominates not only the means of physical production but the means of symbolic production as well. Its control over the material forces of production is replicated, at the level of ideas, in its control over the ideological “sectors” of society-culture […]. What Gramsci did […] was to explain the institutional basis of false-consciousness [;] the critical implication of hegemony is that class rule is effected not so much by sanctions and coercion as by the consent and passive compliance of subordinate classes. Hegemony, of course, may be used to refer to the entire complex of social domination. The term is used here, however, in its symbolic or idealist sense, since that is precisely where Gramsci’s major contribution to Marxist thought lies. It is in fact the pervasiveness of ideological hegemony that normally suffices to ensure social peace and to relegate the coercive apparatus of the state to the background. Only “in anticipation of moments of crisis and command, […] is force openly resorted to”. Exactly how voluntary and complete this hegemony is likely to be is not entirely clear, even on a close reading of Gramsci. At times he appears to imply that hegemony involves an active belief in the legitimacy and superiority of the ruling group; at other times he implies that the acceptance is a more passive act in which the main features of the social order are merely accepted as given. […] The concrete action of workers who defend their material interests may […] suggest a radical consciousness but, at the level of ideas – the level at which hegemony operates – that incipient radical consciousness is undermined by the substratum of values and perceptions socially determined from above. […] The function of the revolutionary party, then, is to provide the working class with the conceptual apparatus and “critical consciousness” it cannot produce on its own».
16 Cfr. J. C. Scott, Domination and the Arts of Resistance. Hidden Transcripts, Yale University Press, New Haven and London 1990, p. 78: «The problem with the hegemonic thesis […] is that it is difficult to explain how social change could ever originate from below. If elites control the material basis of production, allowing them to extract practical conformity, and also control the means of symbolic production, thereby ensuring that their power and control are legitimized, one has achieved a self-perpetuating equilibrium that can be disturbed only by an external shock».
17 C. Meta, Gramsci e Dewey: un dialogo possibile?, in P. Lubinu (a cura di), Gramsci e la Sardegna, Atti del Convegno «Considerazioni su Gramsci», Ossi, 18/06/2008, (finito di stampare nel Febbraio 2009), p. 66.
18 H. K. Moss, Gramsci e l’idea della natura umana, cit.
19 Cfr. L. Boni, Gramsci e la psicoanalisi: frammenti freudiani nei Quaderni, «Rivista di Psicoanalisi», 2, 2003, p. 399.
20 Cfr. M. Meloni, Una impossibile intimità: Gramsci, Freud, la psicoanalisi, EDES, Sassari 2009, p. 41.
21 H. K. Moss, Gramsci e l’idea della natura umana, cit.
22 R. Finelli, Universale concreto e universale astratto nel pensiero di Antonio Gramsci, in G. Baratta-A. Catone (a cura di), Modern Times. Gramsci e la critica dell’americanismo, Cooperativa Diffusioni ’84, Milano 1989, pp. 215-217.
23 Cfr. F. Engels-K. Marx, L’Ideologia tedesca, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1958 (1932), p. 55.
24 Cfr. M. Tomba, Concetto di comunità in Marx. Note sulla traduzione di un termine, trad. it. della relazione presentata il 28/05/2008 al Convegno Traduire et diffuser les textes de Karl Marx et Friedrich Engels: approches internationales et historiques, Université de Bourgogne (Dijon); L. Basso, L’uomo come zoon politikon. Società, comunità e associazione in Marx, «Consecutio Temporum», 5, 2013; Id., Critica dell’individualismo e realizzazione del singolo nell’«Ideologia Tedesca», «Filosofia Politica», 2, 2001 ; Id., Marx: quale libertà?, «Quaderni Materialisti», 7-8, 2008-2009.
25 R. Finelli, art. cit., p. 218.
26 Q. 10, p. 1244: «Si può impiegare il termine di “catarsi” per indicare il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall’“oggettivo al soggettivo” e dalla “necessità alla libertà”».
27 R. Finelli, art. cit., p. 218.
28 Ivi, p. 219. In vero, la critica di Finelli si fonda sulla sua interpretazione di Marx, fondata sulla centralità della nozione di astrazione reale e per cui la dimensione economica non va antropomorfizzata, ma intesa come spazio di interazione di «universalità oggettive e impersonali». Le astrazioni reali mediano, in questa visione, «la lotta e il confronto delle volontà» e rendono i protagonisti del meccanismo economico delle «universalità che piegano […], nella loro ontologia astratta, i voleri individuali alla meccanica dei loro automatismi e delle loro valorizzazioni […] quantitative» (p. 220).
29 Ivi, pp. 221-222.
30 A. Tosel, Americanismo, razionalizzazione, universalità secondo Gramsci, in ivi, p. 245.
31 Cfr. G. Pizza, Second Nature: on Gramsci’s Antropology, «Antropology & Medicine», 1, 2012, p. 97.
32 G. Dore, La scimmia ammaestrata. Natura, cultura e razionalizzazione del lavoro in Gramsci, «La Ricerca Folklorica», 9, 1984, p. 22.
33 R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, p. 24.

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Pietro Maltese è ricercatore in Pedagogia Generale presso l’Università degli studi di Palermo. Tra le sue pubblicazioni: L’Università postfordista. Nuovi modi di produzione e trasmissione della conoscenza, ETS, Pisa 2014; Letture pedagogiche di Antonio Gramsci, Anicia, Roma 2010; Generazioni precarie. Formazione e lavoro nella realtà dei call center, ETS, Pisa 2011.