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Distanza come identità? È una riflessione che si misura di volta in volta con il lavoro di artisti diversi, e che cresce negli anni.
Distanza come identità? si propone di riflettere sulla ricostruzione dell’identità autoriale nell’ambito dell’arte contemporanea degli ultimi due decenni, e propone la tesi che la rappresentazione della distanza (geografica, culturale, …) sia una metafora della rappresentazione dell’identità autoriale, e più specificatamente di un’identità autoriale situata.
In questo quadro prende forma una riflessione sul racconto della distanza come sguardo sull’altro, non più e non solo come sguardo di dispersione postmoderna, ma come necessità di recupero di una posizione, di una proiezione di autorialità che sia una costruzione formale e concettuale significativa che propone un punto di vista, un luogo e un tragitto che permettono il racconto (del sé proiettato sull’altro).
Il racconto dell’identità attraverso la distanza si articola in molti modi: dall’incontro e dialogo al conflitto, dall’aperta contaminazione all’impossibilità della traduzione (nel senso etimologico del portare lʼaltro a se) dell’altro. Dentro questo insieme di possibilità una ʻchiusura necessariaʼ è importante per definire un terreno comune in cui si possa riconoscere una specifica comunità identitaria.
È necessario sottolineare che la ʻposizione autoriale’, il posto dell’espressione, non è sinonimo di immobilità, non è unʼassoluta e inalterabile categoria dell’essere, quanto piuttosto una «unità-nella- differenza» (Stuart Hall), una presente presa di coscienza della propria posizione (che si muove nello spazio e nell’esperienza).
Oggi il grande discorso (‘grand narrative’) sull’identità omogenea ed eurocentrica non può più spiegare tutto, ma questo tutto non può neanche essere spiegato da “minimal selves” (Stuart. Hall), da atomi di sè isolati e autoreferenziali, che non comunicano fra loro. Lʼidentità è un luogo, così pure lʼidentità autoriale. Ha una collocazione nella storia e nel linguaggio. Insiste/esiste come specificità e si rappresenta come unione delle differenze e non come esclusione dell’altro da sé. Si forma nell’incontro del sé con i tanti pezzi del mondo. In un certo senso lʼidentità si può considerare una costruzione e come ogni costruzione ha bisogno di una struttura in cui riconoscersi. La struttura è un requisito che identifica lʼappartenenza ad un gruppo, (le cosiddette comunità immaginarie etniche, sociali, religiose, …). La ʻchiusura necessariaʼ è quindi uno stato provvisorio e transitorio. È una condizione aperta alla riscrittura di sé, che avviene attraverso un continuo situarsi nella geografia, nell’esperienza e nel linguaggio. La chiusura è una condizione porosa: rende possibile le identità e la comunicazione attraverso il riconoscimento della differenza. Proiettando il sé sull’altro negozia, si definisce, si incontra il mondo con azioni/rappresentazioni.
Molti artisti lavorano sul racconto della distanza, quella di cui in seguito traccerò le procedure (Ursula Biemann) è un punto di partenza della mia riflessione. Il suo percorso non è il limite della mia osservazione; anzi è solo lʼinizio.
Alcuni artisti rappresentano la distanza con il movimento fisico, muovendosi attraverso diversi confini o vivendo l’esperienza dell’esilio. Altri, al contrario, rappresentano la distanza con il ‘movimento sul posto’, con uno sguardo al lontano o al vicinissimo centrato sullo ʻspostamento immobile’.
Il concetto di distanza legato alla rappresentazione del concetto di identità autoriale ha a che fare con la letteratura critica della ʻfine della modernitàʼ: un dibattito di questi decenni, ancora aperto, che indaga, attraverso un’analisi economica, sociale e culturale, un modo diverso di rapportarsi alla ʻmodernità’.
Le ipotesi maturate ultimamente sono più di una: c’è chi sostiene che la modernità sia un «discorso incompiuto» (Jurgen Habermas), e chi invece argomenta come il mondo post-coloniale e le sue nuove relazioni globali abbiano ridefinito una post – alter –after – super – modernità ( Okwui Enzewor, Vidal, George Baker, Nicolas Bourriaud, Bruno Latour, Arjum Appadourai, Achille Mbembe, Kobema Mercer, Geeta Kapur, Jalah Hassan, Olu Ogiuibe).
Gli autori che si occupano del discorso sulla crisi della modernità la studiano o da un punto di vista via via locale e geograficamente situato o da un punto di vista più generale, astratto da situazioni specifiche, ma dando forma alle loro riflessioni nel quadro complessivo della crisi della modernità occidentale (autori a volte criticati proprio per non riuscire ad uscire dal discorso stesso, ma solo capaci di proporne unʼaltra variante).
In generale, due sono i temi fondamentali del dibattito critico: il collasso delle grandi categorie interpretative, delle ʻgrand narratives’ dell’Occidente, e insieme la comparsa di punti di vista storiografici diversificati, che accadono in uno scenario globale e che si strutturano con nuove relazioni di potere rispetto ad un precedente sguardo sul mondo coloniale e occidentale che si imponeva con una lettura dei fatti dettata dalla sua storia di egemonia percepita come l’unica possibile.
Le storie intricate provenienti da tanti mondi si strutturano adesso attraverso nuove connessioni fra di esse e hanno l’ambizione di riscrivere la Storia da più punti di vista.
La creazione artistica che scaturisce in questo nuovo paesaggio è dettata da una produzione processuale eccentrica, nel senso etimologico dello spostamento dal centro. Lʼessere fuori dal percorso indicato dalla storia dell’arte occidentale (critica e formale), intraprendere altre direzioni, è una costante della produzione contemporanea allargata e globale.
Negli ultimi venti anni il concetto di identità autoriale dell’artista è stato definito dentro il dibattito post- coloniale e postmoderno. Al centro di questa riflessione cʼè stata una radicale decostruzione della capacità comunicativa del linguaggio dell’Occidente osservato e decostruito come espressione di abuso e/o potere; un linguaggio squilibrato in relazione gerarchica con ciò che descrive; un linguaggio – in seguito – nuovamente interpretato come aperto alla contaminazione di altri elementi; un linguaggio trasformato nel suo essere intimo, e allo stesso tempo in difficoltà come meccanismo di significazione.
Lʼartista, all’interno di questa riflessione critica, è stato progressivamente privato della possibilità assertiva della sua autorialità. La morte dell’autore e il suo scioglimento hanno voluto dire la difficoltà di una posizione autoriale, e insieme una disseminazione semantica: una dispersione che ha portato il processo/lʼoggetto artistico ad essere sempre più autoreferenziale a volte al limite dell’incomprensione. Lʼarte contemporanea spesso si presenta solo come insieme di segni che significano all’interno di un sistema complesso di continua re-interpretazione; un labirinto dove ci si perde dentro, un organismo che fuori dal suo contesto autoreferenziale, perde la sua forza comunicativa.
Il racconto autoriale del movimento, nella mia interpretazione, non è una struttura chiusa, piuttosto si forma dentro un discorso più ampio che include discipline quali antropologia, geografia, filosofia, studi culturali e post-coloniali. La rappresentazione del movimento è intesa come lʼespressione di un senso di appartenenza al linguaggio e ai concetti che si esprimono.
Raccontare la distanza include il ʻmovimento sul posto’ come l’andare lontano. I due estremi sono spezzati continuamente da confini, luoghi eterotipi nei quali la metafora della distanza (geografica/culturale/identitaria) è per definizione concentrata in uno spazio vicinissimo e genera collisione.
La rappresentazione della distanza sottintende la necessità di unʼapertura, la coscienza di un sé (autoriale e artistico) non immobile e autoreferenziale; una capacità di re-invenzione del linguaggio e dei processi che si usano, tutte le volte rinnovati dall’irradiarsi da un nuovo punto di osservazione.
Molti sono i principali nodi critici che gli artisti sviluppano, rivelando punti di vista diversi nella narrazione della distanza:
– la distanza come proiezione critica del sé sull’altro: come ci rappresentiamo? La distanza è esclusione, separazione?
– lʼartista come produttore di significato: il cambiamento del ruolo dell’artista nella società globale. Un artista globale per un mondo globale? Critica al modello di abolizione della distanza
– la distanza nella condizione diasporica transnazionale: distanza come discorso sulla sfera pubblica
– i confini della differenza: la rappresentazione dell’altro
– autorialità: ripensarne una definizione, funzione. L’autorialità come necessità di una ʻposizioneʼ
– critica del modello autoreferenziale e solipsista di produzione postmoderna. Le opere galleggiano in un mare di segni ogni volta da risignificare, una rete senza alcuna struttura che genera perdita e dispersione
– necessità di una «chiusura necessaria» (Stuart Hall) che determini la possibilità di riconoscersi in una comunità identitaria
– il processo artistico come luogo della negoziazione. Lʼidentità autoriale come costruzione dellʼsé posizionato in cui ʻlʼaltroʼ è parte interna dello sviluppo della posizione.
Bisogna sottolineare che la rappresentazione della distanza è stata un argomento molto studiato in questi ultimi anni, soprattutto perché la distanza è un concetto che si inserisce bene in un discorso più ampio sulla produzione artistica globale, nonché sulla ridefinizione della sfera pubblica. La distanza è – a mio parere – quindi ottima metafora di un attivo posizionamento nella sfera culturale e sociale, un fruttuoso incontro del linguaggio artistico con il mondo.
In questo senso sono state molto di aiuto le discipline antropologiche ed etnografiche che con il loro lavoro sul campo, di osservazione, deduzione e produzione, hanno costruito le premesse, in ambito artistico, di un nuovo contesto per la produzione di arte e teoria dellʼarte. Nei decenni recenti, inoltre, la necessità di unʼestetica relazionale ha prodotto la definitiva fine dell’oggetto modernista inteso come oggetto di contemplazione separato dal mondo e autoconcluso. Al suo posto si è sviluppata una pratica artistica in costante relazione con il suo contesto, aperta e confusa con il mondo, un processo che eccede la chiusura modernista.
La teoria artistica, così come gli studi culturali, hanno guardato comunque da vicino i limiti di un approccio etnografico al processo artistico (Hal Foster). Lʼartista come etnografo usa una metodologia che si basa sul lavoro di osservazione sul campo per rappresentare lʼaltro da sé. Questa stretta relazione – sottolinea soprattutto Hal Foster – può essere portata ad un punto estremo di identificazione con lʼaltro rappresentato (autoprimitivismo, ect), tale da determinare il completo abbandono della ʻdistanza criticaʼ. È necessario mantenere una distanza che sia garanzia di autenticità del discorso artistico, una proiezione di sé sull’altro che faccia ridurre il rischio della completa alienazione dell’altro in un sé che include ma non racconta più.
Io credo quindi, con Foster, che la proiezione del sé autoriale sull’altro sia un concetto fondamentale e necessario anche nella condizione di una ʻgrand narrativeʼ fratturata da ʻmarginal narratives’. Anzi, è proprio la presenza di questa proiezione che rende possibile lo svelamento dell’altro da sé’. A volte il racconto della distanza sarà muto e tradurrà lʼimpossibilità di decifrare la differenza (magari perché i codici dell’altro sono linguisticamente troppo lontani e dunque difficilmente riproducibili con altri linguaggi): non tutto è sempre trasferibile da una forma ad unʼaltra.
Lʼartista che forza una traduzione dell’altro nel suo linguaggio, anche se in un processo di completa identificazione con lʼaltro, rischia di rappresentare soltanto se stesso.
La comprensione e la ricerca dell’altro da sé è fondamentale per definire la distanza come metafora della rappresentazione dell’identità. Nella recente letteratura post-coloniale il topos dell’altro da sé è uno dei temi centrali.
Gli studi femministi, culturali, post-coloniali e la teoria dell’arte hanno studiato la trasformazione della narrazione dell’altro in termini di genere, consapevolezza, sguardo, relazione colonizzatore/colonizzato, e hanno portato all’attenzione l’ampiezza di queste diverse percezioni e rappresentazioni.
La struttura del linguaggio generato dalla storia occidentale è stato visto come struttura di potere, come espressione di una proiezione del desiderio, ed è stato riscritto e privato di quel senso di assoluto universale metafisico attraverso il quale lo si è pensato per molto tempo. Il concetto di rappresentazione occidentale è stato messo in crisi dalla perdita di un forte e unico punto di vista eurocentrico sul mondo che si è frammentato e ricomposto in molte ‘Storie’.
Uno dei concetti che più è stato oggetto di critica è stato appunto l’espressione dell’autorialità: distrutta la sua unità, questa è stata concepibile solo come frammentazione. La crisi del concetto di autorialità è legata alla fine della percezione modernista dell’individuo come unità contenuta. L’autorialità è aperta alla corruzione, può essere invalidata come forma chiusa e spalancata a una nuova ridefinizione. La pratica artistica di questi ultimi decenni ha giocato molto con questa continua ridefinizione e con le sue infinite possibilità, aprendo lʼopera ad una condizione di costante fragilità.
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CASE STUDIES:
Artista globale per mondo globale? Critica al modello di abolizione della distanza: Ursula Biemann Sahara Chronicle, 2006-2007
Ursula Biemann, Sahara Chronicle – Desert truck terminal
courtesy the artist
Ursula Biemann è unʼartista e una teorica nata in Svizzera che lavora principalmente in zone critiche dai confini instabili.
Sahara Chronicle è lavoro indipendente ma anche parte integrante del più ampio ʻThe Maghreb Connection‘ progetto dʼarte e di ricerca sulla politica di mobilità e contenimento dei flussi migratori nel Maghreb. Sahara Chronicle indaga l’elaborato sistema di informazioni e di organizzazione sociale che è cresciuto intorno a questo movimento. Il movimento delle persone è esaminato non come fenomeno isolato, ma in relazione al flusso delle risorse, informazioni, immagini e capitali che transitano nella regione mediterranea. Il progetto vuole sviluppare uno spazio discorsivo e una rappresentazione delle forme di migrazione come autodeterminazione nel corso dei movimenti precari e vulnerabili della vita.
Sahara Chronicle è una installazione composta da fotografie, parole e video realizzati da Ursula Biemann in numerosi viaggi sul campo nei maggiori nodi della migrazione sub-sahariana in Marocco, Niger, Mauritania, Ciad. I video racconti sono lo specchio della rete di organizzazione migratoria, nodi di una fitta e inestricabile rete non costruita come narrazione omogenea. Chi vede è costretto a cercare il senso delle storie raccontate negli interstizi, tracciando linee nel discorso migratorio che vanno al di là delle immagini che lʼocchio percepisce.
I video che Ursula Biemann realizza sono delle registrazioni-osservazioni di quello che succede. Una registrazione del processo spazio-temporale, un tempo che ha bisogno di una interpretazione lenta, antispettacolare, anti televisiva. Il video diventa uno strumento cognitivo particolarmente utile alla comprensione dello spazio di confine con i suoi brulicanti traffici che hanno bisogno di essere osservati con calma più e più volte, senza il desiderio di cogliere immediatamente e totalmente lo spazio complesso delle relazioni. Ci vuole più di uno sguardo per comprendere la logica del flusso multidirezionale di persone che trasportano se stesse e una moltitudine di oggetti e sacchetti di plastica. Il video è lo strumento per osservare le microstorie, le singolarità, lo spazio reale delle relazioni che si forma mentre accade.
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Gli spazi di frontiera possono essere considerati spazi eterotipi, zone di transizione che vivono di un tempo di attesa, di un tempo differito, zone che si distinguono perché non imbrigliate nel contesto culturale generale ma che operano attraverso altre regole. Lo scopo dei video è quello di osservare il farsi della contro-geografia attraverso pratiche dissidenti, spesso semi o totalmente legali, invisibili. Queste zone di passaggio indagate non sono le vecchie città di frontiera, ma costruzioni precarie di confine, enclave, zone di mercato libero che si sono sviluppate a seguito del cambiamento delle rotte migratorie.
I video che Ursula realizza non trattano lʼarte in modo immanente, ma sperimentano forme estetiche e teoretiche riconducibili al saggio più che al genere del documentario.
I video sono una forma di saggio che aumenta la capacità di comprensione del mero visibile forse non più sufficiente alla narrazione, e risponde ad un incremento della complessità del mondo. Al video è affidato il compito di creare un luogo altro, un luogo differito, un controluogo da osservare. La voce autoriale dell’artista esprime una visione personale, femminile, migrante, bianca e lavoratrice, e questo la distingue dall’approccio documentario e scientifico. È la voce ‘translocal’ di un soggetto mobile che non appartiene al luogo ma ne sa abbastanza per svelare strati di significati. I video racconti non propongono però una struttura narrativa definita, un autore che interpreta ciò che osserva e ne cerca una sintesi comprensibile; la cifra proposta, piuttosto, è quella dell’impossibilità di una visione unica, di unʼimmagine che svela tutto. Si suggerisce invece lo smembramento delle posizioni e delle immagini presentate, che il visitatore deve in qualche modo ricomporre a suo modo. Anche visivamente l’istallazione di Sahara Chronicle è fatta di più punti di osservazione fra videoproiezioni, monitor, fotografie, parole, ogni volta montate in modo diverso. Ursula Biemann usa le immagini per parlare della dispersione e le parole (i saggi che scrive e le parole nelle immagini) per astrarre il movimento che racconta. Il suo approccio non è quello di documentare ma quello di riorganizzare e ricostruire le complessità. Il suo obiettivo non è di cambiare il mondo ma di cambiare il discorso sul mondo attraverso la pratica artistica.
Chiaramente la posizione di Ursula Biemann critica apertamente il modello di abolizione della distanza come luogo del farsi della differenza e propone, attraverso il suo sguardo e la sua costruzione estetica, un sé che nel racconto di questa distanza racconta dellʼaltro. Il racconto della distanza nel progetto è sinonimo di relazione, scambio, costruzione di identità che si vorrebbero negate e relegate in uno spazio senza icone (il vuoto del deserto come metafora di annullamento) e che invece trovano nuove immagini perché osservate da altri punti di vista.
L’interesse artistico e curatoriale della Biemann riguarda la trasformazione dello spazio determinata dal movimento delle persone. Lo sforzo è di capire come le traiettorie umane, i percorsi migratori e le strade dei viaggi hanno generato nuovi paesaggi culturali e sociali, e come queste esperienze, queste strutture precarie si inseriscano nel territorio fisico che le ospita e lo definiscano allo stesso tempo. Le ricerche geografiche – strumento utile alla ricognizione che l’artista utilizza – sono strumenti teorici che permettono di riconsiderare la relazione soggetto-spazio-movimento: questa nuova considerazione simbolica dello spazio diventa una lettura delle relazioni culturali del territorio.
L’elaborazione di queste riscritture è un modo per riformulare i dati appropriandosi di altri metodi visivi e delle loro strategie territoriali per un diverso fine: il discorso artistico.
Guarda il video con l’intervista di Daria Filardo a Ursula Biemann
In occasione della sua mostra personale presentata nello spazio di Careof, alla Fabbrica del Vapore, a Milano
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English version
Distance for Identity?
By Daria Filardo
Distance for Identity? is an on going project that meets the works of different artists.
Here my theoretical point of view and the meeting with Ursula Biemann.
The aim of Distance as identity? is to reflect on how authorial identity has been reconstructed in contemporary art over the last twenty years; it posits that the representation of distance (geographical, cultural, etc.) between subject and the object of his gaze is a metaphor for the representation of authorial identity and, more precisely, of a situation-specific authorial identity.
In this context there evolves a reflection on the narration of distance, taken as the view of the Other. It is no longer, and not only, a dispersive postmodernist gaze, but also the need to recover a position: a projection of authorship which is a meaningful formal and conceptual construct; it must be able to propose a point of view, a place, and a route that will enable the narration of the self projected onto the Other.
The narration of identity via distance can find many forms of expression: from coming together/dialogue to conflict, from open contamination to the impossibility of translation of the Other (in the etymological meaning of bringing the Other towards oneself). Within this wide set of possibilities a closure must be drawn; it is important for defining a common ground in which a specific community of identity can be recognized.
We must emphasize here that the authorial position, the place where expression occurs, is not synonimous with immobility; it is not an absolute and unchangeable category of being as much as it is a “unity within difference” (Stuart Hall), an up-to-the- minute awareness of one’s own position (which moves within space and experience). Today the wide debate (great narrative) on homogeneous and Eurocentric identity can no longer explain everything, but neither can this everything be ascribed to “minimal selves” (Stuart. Hall), to atoms of isolated and self-referential selves that don’t communicate with each other.
Identity is a place; so, too, is authorial identity. It has a place in history and in language. It exists as/insists on being a specificity which manifests itself as a union of differences, and not as the exclusion of the Other. It originates in the encounter between the self and the many pieces of the world. In a certain way identity can be considered a construction and, like every construction, it needs a structure to achieve definition. The required structure identifies one’s belonging to a group (the so-called imaginary communities which are based on ethnicity, social concerns, religion, …). Therefore, the aforementioned necessary closure is a provisory and transitory state. It is a condition open to the re-writing of self, which occurs vis the condition of always being inside geography, experience and language. Closure is a porous condition: it makes identities and communication possible through the recognition of difference. By projecting the self on the other, it negotiates, achieves self-definition, meets the world with actions/representations.
Many artists work on the narration of distance. The one whose procedeures I will herewith describe (Ursula Biemann) is a starting point for my consideration. Her career is not the end of my observation, rather it is only the beginning.
Some artists represent distance by moving physically, across various borders or else experiencing life in exile. On the contrary, others represent distance by moving in place, with a gaze which, whether it be focused far-off or very close-up, concentrates on “immobile movement”.
The concept of distance which is tied to the representation of the idea of authorial identity has much to do with late Modern criticism: a decades-old debate, still on- going, which investigates – via an economic, social and cultural analysis – a different way of relating to modernity.
There is more than one hypothesis among the most recent developments: there are those who mantain that modernity is an «unfinished discourse» (Jurgen Habermas), while others argue, instead, that the post-colonial world and its new global relations have redefined a post – alter –after – super – modernity (Okwui Enzewor, Vidal, George Baker, Nicolas Bourriaud, Bruno Latour, Arjum Appadourai, Achille Mbembe, Kobema Mercer,Geeta Kapur, Jalah Hassan, Olu Ogiuibe).
Authors who have addressed the crisis of modernity approach it from either a local – and therefore geographically positioned — point of view or from a more general line of investigation (one that is abstracted from specific situations); however they all form their arguments within the overall context of the crisis of Western modernity. (Some of them have been criticized for their inability to go beyond the debate, thereby only proposing variations of the same.)
In general, there are two fundamental themes underlying the critics’ debate. Firstly, the collapse of the large interpretative categories, of the great narratives of the West; secondly, the emergence of historigraphically-diversified viewpoints in a global scene. The latter are structured according to new relations of power with respect to the world- view formerly held and imposed by the colonizers; the West was used to choosing its own reading of the facts, dictated by the history of of its own hegemony (perceived as the only history possible).
Complicated stories from so many different worlds are now structured in a different way: they form new connections among themselves and they aspire to rewrite History from a variety of viewpoints.
The artistic creation unleashed in this new setting is determined by a process-based production which is eccentric (in the etymological sense: it moves away from a center. Being outside the path established by the formal and critical aspects of Western art history and undertaking new directions, are constants in the way of contemporary working which is now available to all and is global in its scope.
Over the last twenty years the concept of the artist’s authorial identity has been defined by the postcolonial and postmodern debates. These revolve around a radical deconstruction of the communicative ability of Western vocabulary, which has been observed and deconstructed as the expression of abuse and/or power; a vocabulary which is out of balance in its hierarchical relation with the described source; thus a newly interpreted vocabulary which is open to contamination by other elements; a vocabulary transformed in its intimate being and yet, at the same time, impeded as a device for signification.
Within the realm of this critical consideration, the artist has been progressively deprived of the chance to assert his authorship. The death of authorship and its dispersal demonstrate the difficulty of an authorial position as well as a semantic dissemination; this dispersal has brought the artistic process/object to be ever more self-referential, even to the edge – at times – of incomprehension. Contemporary art is often presented as a set of signs which achieve meaning within a complex system of continual re-interpretation; a labyrinth where one gets lost; an organism which, removed from its self-referential context, loses all power of communication.
The authorial narration of movement, in my interpretation, is not a closed structure, rather it takes form within a wider discourse which includes disciplines like anthropology, geography, philosophy, cultural and post-colonial studies. The representation of movement is taken as the expression of a sense of belonging to the language and to the concepts that these disciplines put forth.
Talking about distance includes moving in place as well as moving through space. The two extremes are constantly broken up by borders, overlapping places in which the metaphor of distance (geographical/cultural/identity-related) is, by definition, concentrated in a space which is so close that it generates collision.
The representation of distance implies the need of an opening, the awareness of (authorial and artistic) self which is not immobile and self-referential; an ability to reinvent language and the processes that sometimes are used (each time renewed by their provenance from a new observation point).
The artists develop many critical points of investigation, giving rise to varying points of view in the narration of distance:
– distance as a critical projection of oneself on the other: how do we represent ourselves? Is distance exclusion, separation?
– the artist as someone who produces meaning: the artist’s changed role in globalized society. A global artist for a global world? Critique of the model which abolishes distance.
– distance in the transnational condition of diaspora: distance as a discourse on the public domain.
– the borders of difference: representation of the other.
– authorship: re-thinking a definition, function. Authorship as the necessity of a “position”.
– critique of the self-referential and sollipsistic model of postmodern production. The artworks float in a sea of signs that must be re-signified each time, a network without any structure thus generating loss and dispersal.
– need for a «necessary closure» (Stuart Hall) that determines the possibility of recognizing the members of an identity-related community.
– the artistic process as a place of negotiation. Authorial identity as a construction of the situation-specific self, in which the other is taken as an internal part of the situation’s development.
Here let us emphasize that the representation of distance has been widely-studied in recent years, especially because distance is a concept that is easily inserted in a wider discourse about global art production, as well as about the redefinition of the public sphere.
In my view, distance is an excellent metaphor for an active taking of position in the social and cultural sphere, a fruitful encounter between art’s vocabulary and the world. In this sense the disciplines of anthropology and ethnography have been of great help because – with their fieldwork, observation, deduction, and production – they have cast the foundations, in art, for a new context of art production and theory. Moreover, in recent decades, the need for a relational aesthetic has led to the definitive ending of the modernist object (taken as an object for contemplation self- enclosed and separate from the world). In its place there has developed a kind of artistic practice which is in constant relationship with its context, open to and jumbled with the world, a process that exceeds modernist closure.
In any case art theory, like cultural studies, have observed closely the limits of an ethnographic approach to artistic process (Hal Foster). The artist as ethnographer uses a methodology based on the fieldwork observation of representing the other. Hal Foster especially has emphasized that this tight relationship can be carried to the extreme of identifying oneself with the represented Other (autoprimitivism, etc.), to the point of abandoning critical distance. One must needs keep a distance that can guarantee the authenticity of the artistic discourse; in projecting oneself on the other the goal is to reduce the risk of the complete alienation of the Other, relegated in a self which includes but no longer narrates.
So, like Foster, I believe that the projection of the authorial self on the Other is a fundamental and necessary concept even in the condition of a great narrative, fractured by more marginal ones. Moreover we could say that the very presence of this projection makes possible the revelation of the Other. Sometimes the narration of distance will be mute and will relate the impossibility of deciphering difference (perhaps because the Other’s codes are linguistically too removed and are, therefore, difficult to reproduce via other languages). Not everything is always transferable from one form to another. The artist who forces a translation of the Other into his own language – albeit in a process of complete identification with the Other – risks representing only himself.
The comprehension and the search for the Other is fundamental to defining distance as a metaphor for the representation of identity. The topos of the Other is one of the central themes in recent post-colonial literature.
Feminist, cultural, and post-colonial studies as well as art theory have studied the transformation of the narrative of the Other in terms of gender, awareness, outlook, the relationship between colonizer/colonized and they have brought attention to the vastness of these different perceptions and representations.
The structure of the language generated by Western history has been seen as a power structure, as the expression of a projection of desire; now it has been rewritten and deprived of the sense that we attributed to it for a long time: the universal metaphysical absolute. The crisis of the concept of Western representation has been caused by the loss of a single, strong eurocentric view of the world that has been cut up and recomposed into many Histories. One of the concepts that has been most strongly criticized is precisely the expression of authorship: once its unity has been destroyed, it can only be conceived of as a fragmentation. The crisis in the concept of authorship is tied to the end of the modernist perception of the individual as a contained unity. Authorship is open to corruption, it can be invalidated as a closed form and opened wide to a new redefinition. Artistic practice of recent decades has played much with this continual redefintion and with its infinite possibilities, opening the artwork to a condition of constant fragility.
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CASE STUDIES:
A global artist for a global world? Critique of the model that abolishes distance: Ursula Biemann Sahara Chronicle, 2006-2007
Ursula Biemann is an artist and theoretician born in Switzerland but working mainly in critical areas characterized by unstable borders.
Sahara Chronicle is an independent artwork which is also an integral part of the vaster The Maghreb Connection project. This study of art and research delves into the politics of mobility and containment of migratory flows in the Maghreb and explores the elaborate system of information and social organization that has grown up around this deplacement. People’s movements are examined not as isolated phenomena but in relationship to the flow of resources, information, images and capital across the Mediterranean region. The project wants to promote a space for discussion and a representation of the forms of migration as self-determination in the course of precarious and vulnerable movements of life.
Sahara Chronicle is an installation composed of photographs, writings and videos carried out by Ursula Biemann during her many trips to study the major intersections of sub-saharan migration in Morocco, Niger, Mauritania, Chad. Her videos narrate the network of migratory organization, points of conjunction in a tight and inextricable network which is not constructed like a homogeneous narration. The viewer is forced to seek the meaning of the stories told in the interstices, tracing lines in the migratory discourse that go beyond the images perceived by the eye.
The videos created by Ursula Biemann are recordings-observations of what happens. A recording of the space-time process, a time that requires a slow, non spectacular, anti-televisional interpretation. Video becomes a particularly useful cognitive instrument for comprehending the border space with its teeming traffic that needs to be calmly observed time and again, without rushing to gather immediately and totally the complex space of relations. More than one gaze is needed to understand the logic of the multidirectional flow of people who transport themselves and a multitude of objects and plastic bags.
Video is the instrument chosen for observing the micro-stories, the singularities, the real space of relationships which take form while it is is happening. Border zones can be considered overlapping spaces, areas of transition that exist in a time of waiting, deferred time, zones which are characterized by their not belonging to the general cultural context but which follow different rules. The aim of the videos is to observe the making-in-progress of counter-geography via dissident practices, often seeds to be sown, completely legally, invisibly.
These areas of passage are not the old border towns but precarious constructions along the border, enclave, areas of free market that have developed in reaction to the changing routes of migration. Ursula’s videos do not deal with art in an immanent way, but experiment aesthetic and theoretical forms that are closer in spirit to an essay than to a documentary. The footage is a kind of essay which increases our capacity to understand the merely visible (perhaps no longer sufficient for the purposes of narration) and that represents an answer to the problem of the world’s increased complexity. Video has the task of creating an ‘other’ place, a differed place, a counter-place from which to observe. The artist’s authorial voice expresses a worker’s vision – which is also personal, female, migratory, white –and this sets her apart from the documentary and scientific approach. It is the “translocal” voice of a mobile subject who doesn’t belong to the place but knows enough about it to reveal its layers of meaning. However the film stories do not propose a defined narrative structure, an author who interprets what he observes and seeks a comprehensible synthesis; what is proposed is rather the impossibility of a single view, of one image that reveals all. Rather the dismembering of the presented positions and images is suggested; the viewer must, somehow, recompose the fragments in his own way. Even visually the Sahara Chronicle installation is made of several observation points, from projections to monitors, photographs, writings, each time mounted in a different way. Ursula Biemann uses images to talk about dispersion and writings (the essays she writes as well as the words appearing in the images) to abstract the movement she narrates. Her approach is not to document but to reorganize and reconstruct the complexities. Her goal is not to change the world but to change the discourse on the world via artistic practice. Clearly Ursula Biemann’s position openly criticizes the model which abolishes distance as a place where difference occurs in the process of making; rather she proposes, via her outlook and her aesthetic working, a self which – by narrating this distance – narrates the other. The narration of distance in this project is synonymous with relationship, exchange, and construction of identities that we would like to see negated and relegated to a space devoid of icons (the desert’s void as a metaphor for cancellation); instead they achieve new images because they are now observed from other viewpoints. Biemann’s artistic and curatorial interest deals with the transformation of space as affected by the movement of people. Her effort lies in trying to understand how human trajectories,migration routes and roads of travel have generated new social and cultural landscapes, and how these experiences, these precarious structures insert themselves into the physical territory, which hosts and defines them at the same time. The artist’s geographical explorations – a useful reconnaissance instrument – are theoretical instruments that allow a reconsideration of the relations between subject- space-movement: this new symbolic consideration of space becomes a reading of the territory’s cultural relations. The elaboration of these re-writings is a way to reformulate the givens, appropriating other visual methods and their territorial strategies for a different end: artistic discourse.
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Daria Filardo is art historian and independent curator based in Florence. Teaches Contemporary art and History of Photography at SACI (Florence), and Arts Management and Event Planning in the Master course of IED (Florence). From 1998-2000 has worked as a resident curator at the public museum Palazzo delle Papesse Contemporary art Center in Siena. From 2001 is a free lance curator. A short selection of recent projects include: co-curator of Arte torna arte, Galleria dell’Accademia, Firenze 7-may/ 9- December 2012 www.artetornaarte.it, co-curator of Cartabianca Firenze, Museo of Villa Croce Genova, 201, curator of Andras Calamandrei Sometimes I wish I could swallow up all the exhistent words, Magazzino 1b, Prato, 2010; curator of the exhibition Motherland/Homeland. Simon Roberts, Ex3 Firenze; curator of the exhibition Sahara chronicle. Ursula Biemann (distance for identity?) careof/DOCVA 2010, milano, Co-curator of Fuori Contesto- public art project Bologna/Milan/Manifesta7 Bz-Tn-Rov Italy, 2008.