Queen’s Palace / 2 postcards in the Rotunda in the Fridericianum
Images 1
Tacita Dean, c/o Jolyon, 2012, 50 vintage postcards, gouache, 8.9 . 13.9 (2 postcards); 13.9 . 8.9 cm, (48 postcards), Courtesy Tacita Dean; Frith Street Gallery, London; Marian Goodman Gallery, New York, Paris, Commissioned by dOCUMENTA (13)
Photo: Roman März.
“La ricostruzione tedesca, divenuta ormai leggendaria e da un certo punto di vista davvero ammirevole, equivalse per la Germania – dopo le devastazioni operate dai nemici durante la guerra – a una seconda liquidazione, per tappe successive, della sua storia precedente: infatti, con il grande lavoro che essa richiese e con la nuova anonima realtà che riuscì a creare, impedì fin da principio che si volgesse lo sguardo al passato e orientando la popolazione esclusivamente verso il futuro la costrinse a tacere su quanto avesse vissuto”1. Lo scrittore e saggista tedesco W. G. Sebald così descrive la particolare relazione che individua tra popolo tedesco, rovine della II Guerra Mondiale e ricostruzione tedesca postbellica. Il suo testo tratta in realtà della pressoché totale rimozione della letteratura dopo la guerra riguardo allo shock e alla tragedia della totale distruzione della Germania da parte degli Alleati negli anni quaranta. Sebald, con grande dovizia di particolari racconta prima la portata incredibile dei danni alle città e poi il numero alto di vittime civili, e si chiede come e perché i tedeschi abbiano attuato una sorta di cancellazione collettiva forzata davanti a un così grande dolore. Nel testo appena citato si cela già una prima parziale risposta accennata da Sebald: la rimozione della distruzione era funzionale alla cancellazione totale di un periodo che andava a sua volta “raso al suolo” nella memoria collettiva. Un’amnesia condivisa, salvifica, che potesse in qualche modo cancellare tutto per poter così affrontare l’inaffrontabile non come passato, ma come mai accaduto. Appare particolarmente interessante che Sebald faccia cenno al fatto che la ricostruzione produca un ambiente neutro, asettico, seriale, come sono moltissime città tedesche risorte dalle macerie dei bombardamenti aerei a tappeto della guerra. Una sorta di architettura dell’invisibile che doveva ricostruire una Germania che non potesse in nessun modo alludere a nessun passato così da poter eludere qualsiasi necessità di relazione con gli eventi del passato recente.
In occasione della recente edizione di Documenta13 a Kassel, curata da Carolyn Christov-Bakargiev, l’artista inglese Tacita Dean ha realizzato l’opera c/o Jolyon, una serie di cartoline di vedute originali di Kassel prima delle II Guerra Mondiale sulle quali ha dipinto a mano, a gouache, delle vedute della stessa città oggi negli stessi luoghi. Essendo quest’anno Documenta legata a diverse location espositive collocate in area di crisi bellica, le cartoline sono state spedite dall’artista a Joylon Leslie, primo CEO del Aga Khan Trust of Cultur a Kabul. Un doppio legame connette Tacita Dean al luogo di destinazione delle sue cartoline: durante lo stesso 2012 l’artista ha tentato di realizzare un film chiedendo a un operatore sconosciuto di filmare scene a sua scelta di Kabul, ma il materiale era così mosso da non poter essere utilizzato. Alcuni fermo immagine del girato hanno però ispirato alcuni disegni sulle cartoline. Secondo punto di contatto il nome Joylon del suo destinatario, che in realtà è anche il nome di suo padre, da lui stesso scelto in omaggio a un personaggio della The Forsyte Saga di John Galsworthy.
La cartoline raffigurano diversi angoli di una Kassel storica, con molte case dall’aspetto quasi rurale, con le tipiche costruzioni con gli alti campanili e le torri appuntite. A questa Kassel, a questa Germania, che la memoria contemporanea ha del tutto cancellato la Dean sovrappone un’immagine a noi familiare, di un paese astorico, senza tempo, con pochissime tracce vere di passato: di un passato antico scomparso sotto le bombe e di un passato più recente rimosso. La sovrapposizione che opera l’artista non ha assolutamente la connotazione del completamento, né la retorica della nostalgia, ma piuttosto mostra, rivela, la “normalità” intesa proprio come messa a norma, di un nuovo ambiente urbano silenzioso, sommesso. Ricordo che in occasione del mio primo viaggio a Kassel per Documenta10 nel 1997, la cosa che mi aveva colpito era l’assoluta anonimia del paesaggio cittadino, non mi veniva di definirlo bello certo, ma paradossalmente nemmeno brutto. Era come essere davanti a un luogo appunto senza riferimenti estetici, senza passato. Si è a lungo parlato delle “responsabilità” degli intellettuali tedeschi a fronte del Nazismo e la fuga o il disinteresse di questi verso ciò che accadeva nel proprio paese. Ma questo tema all’interno della Germania non è stata fonte di discussione vera almeno fino a oltre trent’anni dalla fine della guerra. Una tacita e collettiva rimozione ha eluso le domande fondamentali che potessero in qualche modo ricostruire il legame tra il Nazionalsocialismo e la classe intellettuale. L’architettura tedesca del dopoguerra ha realizzato, almeno in linea generale, un processo simile: creare spazi urbani, edifici, costruzioni, che non facessero palesemente riferimento a nessuna delle grandi correnti architettoniche nate in Germania dall’Ottocento, durante il modernismo e in periodo Nazista, costringendo a un confronto con il recente passato. “L’atto conclusivo della distruzione – quale fu vissuto dalla quasi totalità dei tedeschi – restò così, nei suoi aspetti più foschi, un infamante segreto di famiglia su cui gravava una sorta di tabù, un segreto che probabilmente non si poteva confessare nemmeno a se stessi”2.
courtesy Marian Goodman Gallery
L’opera di Tacita Dean pone quindi una questione fondamentale: quale posto riserva alla memoria di ciò che è stato letteralmente spazzato via dai bombardamenti della II Guerra Mondiale l’estetica postbellica? La sovrapposizione gentile delle gouache, che lascia intravedere sempre in trasparenza, anche lì dove cancella, l’edificio antico, il bianco e nero ovvio per il tempo delle immagini originali, la presenza fortemente incongruente di alcuni elementi tipicamente metropolitani, costituiscono un sottile cortocircuito percettivo. Come ricordare senza cadere nella retorica nostalgica? Come affrontare il trauma della distruzione senza usarlo come espediente giustificativo del Nazismo? Come mostrare il dolore senza spacciarlo come espiazione o risarcimento del male fatto prima? In altre parole come raccontare l’irraccontabile? Georges Didi Huberman nel suo saggio Immagini malgrado tutto,3 che parte dall’analisi di quattro immagini scattate miracolosamente clandestinamente da dei prigionieri nel campo di Aushwitz, inizia proprio con la questione spinosa dell’inimmaginabile e dell’inenarrabile. Uno dei paradigmi delle SS ripetuto fino alla follia ai prigionieri dei campi di concentramento e sterminio tedeschi era proprio che, anche qualora questi si fossero salvati nessuno avrebbe creduto loro, nessuno avrebbe potuto accettare come vera quella situazione assolutamente surreale. Dunque l’ossessione principale dei sopravvissuti è stata proprio questa definizione, apparentemente pudica del talmente folle da essere “irracontabile”, che ha sommerso per anni immagini, documenti e testimonianze in nome di un sentimento di orrore che non ci permetteva di affrontare la realtà. In realtà Didi Huberman svela, rende visibile il paradigma costruito ad hoc del non immaginabile e del non raccontabile. In una società che ha fatto dell’immagine e della visione fotografica la sua principale fonte di “verità” e mostra oscenamente – nel senso proprio di obscaenus di mostrare l’immondo, il turpe – tutto può essere solo se raccontato. La rimozione, la cancellazione, è divenuta la pratica di tutti i paesi che davanti a un orrore compiuto non rielaborano ma cancellano, spesso coprendo. Basti pensare alla memoria quasi totalmente rimossa del colonialismo in Italia, così come in Spagna e in Portogallo.
Tacita Dean c/o Jolyon, 2012, Gouach on found postcards jeweils
courtesy Marian Goodman Gallery.
Il lavoro di Tacita Dean copre per mostrare, non cancella per rimuovere, ma cancella per disvelare, non sovrappone per annullare ma per moltiplicare. In più la spedizione della cartoline a Kabul propone un’operazione proiettiva pregnante: inviare ad un paese che ora dovrebbe ricostruire un lavoro che insiste sulla rimozione dell’immagine passata è come preconizzare un possibile scenario, come immaginare quali interessi economici più che evidenti corrono dietro le ricostruzioni postbelliche.
Ancora Sebald, parlando del suo ritorno in patria dopo la guerra, nella sua città, racconta cosa gli accadde di vedere in una piccola porzione di spazio che era stata, al tempo dei bombardamenti, trasformata in un cumulo di macerie: “Negli anni Cinquanta il terreno, sul quale alcuni magnifici alberi avevano resistito alla catastrofe, era già completamente invaso dalla vegetazione, e noi bambini abbiamo giocato spesso per interi pomeriggi in mezzo a quella natura incolta e selvaggia che la guerra aveva prodotto al centro del paese. Ricordo ancora il senso di inquietudine da cui ero ogni volta sopraffatto lungo le scale che portavano alle cantine. Là sotto c’era odore di marcio e muffa, e io avevo sempre paura di inciampare nella carogna di un animale o nel cadavere di un uomo. Alcuni anni dopo, sull’area dello Herzschloss venne aperto un piccolo supermercato, un’orribile costruzione a un solo piano, priva di finestre. E quello che era un tempo un bel giardino della villa scomparve definitivamente sotto un parcheggio asfaltato. Questo, ridotto al minimo comun denominatore, è il capitolo principale nella storia del dopoguerra tedesco4.
Le tipologie di interventi di Tacita Dean sulle cartoline storiche di Kassel si potrebbero riassumere in tre diverse modalità: cancellazione, aggiunta, infiltrazione. Nel primo caso la pittura si fa cielo bianco e inserendosi tra gli edifici antichi in realtà ne cancella delle loro parti, ne rimuove allo sguardo delle porzioni condannate così a un oblio non violento dato che la traccia resta sempre appena visibile in trasparenza (Alt-Kassel, Untere Kettengasse; Kassel, Lütherkirche; Kassel, Adventskirche; Kassel Rathaüs, Bück van Residenz-Palaís aüf Preüssisches Staatstheater; Kassel, Aüferstechüngskirche). Il colore trasforma dolcemente l’edificio in rovina e poeticamente disvela il suo destino avvicinandolo improvvisamente alla visione più verosimile che se ne ha nella realtà contemporanea. Nel secondo caso l’aggiunta è evidente e invadente. Edifici di oggi si sovrappongono, impallano, nascondono, modificano come corpi parassiti, gli edifici preesistenti. La nuova architettura cancella e rimuove il passato, aggiunge uno strato non più poroso che non lascia intravedere il “cos’era”, ma prepotentemente gli si sostituisce. (Alt-Kassel, An der Fulda; Alt-Kassel, Beüderstrasse; Kassel, Schöner Fachuretkbau in der Klosterstrasse; Alt-Kassel, Graben; Alt-Kassel Obere Kettengasse; Alt-Kassel, Pferdemarkt; Alt-Kassel, Fuldagasse). Mentre nel primo caso una sorta di dissolvenza incrociata vela e disvela la storia passata, nel secondo un violento cut up rimonta l’intero immaginario urbano all’interno di quel paradigma di annullamento identitario. Il terzo caso propone un intervento al limite dell’ironico, certo decontestualizzante e più virale. Piccoli elementi, parti di arredo urbano, o addirittura automobili o striscioni temporanei, si sovrappongono agli edifici, perfettamente congruenti con essi nella loro posizione del tutto verosimile, ma spiazzata temporalmente. Il bianco e nero del ricordo viene attualizzato violentemente, con uno shock percettivo notevole, attraverso il colore dell’oggi.
L’utilizzo della gouache che richiama i taccuini dipinti all’aperto dai viaggiatori già da fine ottocento, rimanda a un contrasto stridente tra la gentilezza del mezzo e la durezza del contenuto.
Nessuna immagine tende a far rivivere ciò che c’era o a ricostruire scientificamente un dato di fatto, ma piuttosto con un fare poetico, più evocativo che scientifico, ogni disegno apre una negoziazione tra un’immagine che appare paradossalmente irreale, che viene da un passato bianco e nero, e una sua attualizzazione che non ricorda ma ricrea, ma nel farlo evoca una rimozione drammatica mai davvero narrata e quindi irraccontabile.
“Sono perfettamente consapevole che queste mie annotazioni, prive di sistematicità, non rendono giustizia a un argomento così complesso, ma credo che, perfino nella loro incompletezza, esse contribuiscono a illuminarci sul modo in cui la memoria – sia essa individuale, collettiva o culturale – fa i conti con esperienze che trascendono i normali limiti.
.
.
1 W.G. Sebald, Luftkrieg und Literatur, trad. It., Storia naturale della distruzione, Adelphi, Milano 2004, pp. 21/22.
2 Idem, p.23.
3 G.Didi Huberman, Images malgré tout, Edition du Minuit, Paris 2003; trad.it., Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano 2005.
4 W.G.Sebald, op.cit., pp. 79/89.