La cit-azione visiva
Mi piace pensare la citazione, soprattutto quella visiva, come una forma di scrittura visuale che a differenza di quella scritta, ossessionata dalle virgolette, dall’esplicitazione della fonte, dal segno grafico di distinzione, obbligata a farsi riconoscere ad ogni costo come “discorso altrui” come “discorso riportato”1, sia invece una pratica di linguaggio “reazionaria”, capricciosa e impertinente; una forma di emancipazione, una risposta attiva, a chi ha già detto e ha già visto.
La citazione visiva, infatti, non è riferimento autoriale, non è ossequio all’originale ma è traccia di un discorso che transita, di una parola o di un’immagine che si mette in movimento, come l’etimologia stessa del termine dice, dal latino citare: mettere in movimento. Quando il discorso si mette in moto, traghetta i suoi saperi e i suoi soggetti, questi non possono solo ripetersi, riprodursi, duplicarsi ma nella ripetizione trovare anche una nuova forma di espressione, di diritto di replica. Se alla citazione concediamo il privilegio di essere luogo del discorso transitorio, le potremmo concedere il diritto di replica, come “obiezione” e non solo come “duplicazione”.
Nell’immagine la citazione esprime un senso ulteriore, qualcosa in più rispetto al prima, senza il quale ovviamente non avrebbe avuto origine ma dalla cui paternità si separa. Soprattutto nell’universo della spettacolarizzazione, quello della pubblicità, la citazione visiva viene spesso usata come strategia valoriale che rimanda al già noto come garanzia di conoscenza e per creare una familiarità visiva con l’osservatore. Penso alla moltitudine di spot pubblicitari che citano opere famose del patrimonio artistico, sia dell’arte che della letteratura, promuovendo però in questo modo, anche un dialogo con i patrimoni universali2.
L’originale, infatti, è interpellato per essere risemantizzato, per sfidare il testo precedente e per aprirsi al linguaggio della ricombinazione. Non si può citare se non esiste un testo precedente. Tuttavia, questa natura di derivazione è l’anima della citazione, anzi del linguaggio stesso. Noi siamo nel linguaggio (verbale e non verbale) perché siamo intrisi di discorso altrui, potremmo dire che apparteniamo ad una comunità culturale e non ad un’altra proprio perché citiamo le parole che risuonano nella nostra memoria. La citazione, quindi, è la prima forma che conosciamo di essere nel linguaggio e l’unica che ci permette di muoverci nel linguaggio con la possibilità di nuove versioni. Se questo è vero per le parole, tanto più lo è per le immagini che entrano a far parte del nostro immaginario e del nostro vissuto visivo.
Nell’immagine, però, la citazione non “riporta” ma racconta in un testo nuovo un’interpretazione, un valore. Si cita, infatti, nell’immagine solo ciò a cui si riconosce un valore culturale, sociale, immaginario. Basti pensare alle innumerevoli citazioni negli spot, nelle pubblicità e persino sui nostri indumenti dell’immagine più citata al mondo: il capolavoro di Leonardo da Vinci, Monna-Lisa, che ritorna ogni volta diversa da se stessa ma sempre unica e irripetibile, non solo per la citazione dell’opera ma per il suo carattere di valore simbolico che la fa diventare ogni volta un’altra da se. In questo il padre del ready-made Marcel Duchamp ha fatto scuola con la sua Monna Lisa con baffi L.H.O.O.Q (1919).
La scrittura citazionale nel visivo mette in atto, quindi, il nostro agire nel linguaggio in maniera consapevole. Infatti quando citiamo un frammento di discorso o con dei software grafici riproduciamo un quadro, agiamo il nostro essere nella scrittura (verbale e visiva), mettiamo in movimento i sensi e lo facciamo attraverso un atto di déprédation (saccheggio) che poi diventa appropriation (appropriazione) secondo Compagnon3. Ma l’atto linguistico che certamente pratichiamo maggiormente nella citazione scritta e ancor più in quella visiva è la ripetizione. Infatti:
Il senso di una citazione è dovuto, quindi, non solo al valore di significazione che il citante le attribuisce ma al complesso dei valori che si realizzano nella sua continua ripetizione4.
Attraverso la ripetizione si crea una sorta di familiarità visiva che aiuta chi osserva a sentirsi parte integrante della comunità di riferimento, di cui riconosce la citazione. Tuttavia, attraverso la ripetizione può passare anche una forma di discorso alienato che ha in comune con la citazione il fatto di reggersi sulla ripetizione continua: lo stereotipo. Questo problema si enfatizza ancor di più con lo stereotipo visivo che, in quanto immagine condensata, anonima e congelata, ossia immagine collettiva, non ha la necessità di mostrare il riferimento ad una fonte, al pensiero originale che l’ha generato; anzi poiché nasce da un’esigenza di semplificazione e regolamentazione di alcuni individui da parte di altri, non ha bisogno di legittimazione e si camuffa come semplice espediente estetico magari proprio in un’immagine pubblicitaria.
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“Repetita Iuvat”: citazione e stereotipo nella ripetizione5
Sia la citazione che lo stereotipo, quindi, sono accomunati dalla ripetizione dei segni che li caratterizzano. Che lo stereotipo sia intriso di una valenza citazionale lo dimostra il fatto che esso sia il risultato di un’operazione di selezione, prelievo di un frammento, dettaglio di testo, cultura, o altro per l’inserimento di questo in un nuovo testo in cui esso debba risultare familiare.
Lo stereotipo ha bisogno del consenso sociale e si produce e riproduce come la citazione. Come questa, infatti, deve essere riconosciuto, accettato e quanto meno “condiviso”. Adam Schaff ne parlava in termini di parola etichetta, di espressione verbale che sintetizza un sapere su un individuo da parte di un gruppo o di una comunità e che serve a categorizzare le persone, affinché le loro differenze siano riconosciute e sempre uguali a se stesse6. Ma gli stereotipi oggi sono sempre più visivi, e s’insinuano nel nostro immaginario collettivo proprio come immagini del mondo, rispetto alle quali non abbiamo alternative.
Lo stereotipo come la citazione è fatto di saperi incorporati e in-corporati, intrisi cioè di corpi, anzi di modalità di scritture visive e verbali che sono fatte di corpi e che si riflettono in questi. Attraverso i corpi rappresentati lo stereotipo scrive le identità e costruisce, attraverso la pratica citazionale, modelli culturali sui quali si decidono i rapporti umani. La pratica di scrittura simbolica degli stereotipi è, quindi, proprio la citazione, che nel rimando non si subordina ad un presunto originale ma ri-crea, duplica, riproduce un corpo che sottintende, scrivendo e riscrivendo i rapporti culturali e identitari.
L’immagine stereotipata, infatti, pesca da un repertorio d’immagini del passato o da un presente svuotato della sua contingenza e relativizzato nell’istantanea di un’immagine come fa la pubblicità. Del resto non esiste stereotipo che non diventi immagine fissa se non venga continuamente ripetuto, duplicato, eterno ritorno di se stesso, copia della sua stessa copia che non rimanda a nessun originale e che si qualifica, per questo, come ciò che è simulacrale7. Lo stereotipo visivo in quanto immagine collettiva, non ha necessità di mostrare il riferimento ad una fonte, al pensiero originale che l’ha generato, proprio come la citazione visiva che diventa una pratica di riscrittura dei sensi visivi. L’immagine pubblicitaria, cioè, è riuscita a fare dell’ ”originale”, dell’aspetto reale un semplice prototipo, una costruzione artificiosa priva di un originale8 che riesce, tuttavia, con i dovuti cambiamenti a conservare simultaneamente quell’immagine riduttiva e cristallizzata che fa parte dello stereotipo visivo. Quando un’immagine diventa simulacro come nel caso dell’immagine stereotipata, essa non ha altra pretesa che non sia quella di essere rappresentazione di se stessa, senza originale, che trae il proprio significato dalla sua concretezza immediata, dalla celebrazione di un dettaglio, la cui ripetizione, questa volta, non da un altro senso, ma attrae l’intero contenuto su se stesso.
Del resto lo studio dello stereotipo va analizzato evidenziando il suo aspetto tensivo e relazionale, il che significa in parte recuperare la sua dimensione non semplicemente di discorso cristallizzato, ma di discorso collettivo, enunciazione collettiva, quindi, in cui la plurivocità/citazionalità ritorna costantemente. Lo stereotipo, in fondo, è il risultato, proprio come accade per l’atto di citazione, di un’operazione di selezione compiuta su un campione sociale, di organizzazione dello stesso e di evidenziazione di una sua parte come semplificativa del tutto. E’ in fondo una conoscenza sul mondo acquisita come “seconda mano”, piuttosto che fondata sulla conoscenza diretta, che passa, quindi, da un discorso di allusioni più che di certezze, una conoscenza sul mondo che si basa più sulla necessità di economizzare la comunicazione che sull’efficacia scientifica della conoscenza. Lo stereotipo è intriso di formule, rappresentazioni fisse, di citazioni obbligate, di saperi e credenze che circolano nel discorso quotidiano, di tic visivi, che possono essere facilmente curabili se si accetta che siano “segni-banali”9 o patologici sensi incrostati di un racconto citazionale fatto di ripetizione.
La ripetizione dello stereotipo nel riporto visivo è, tuttavia, una ripetizione come la definisce Amossy “sterile”, il cui senso non porta ad una valorizzazione positiva bensì peggiorativa. In questo, allora, la forma citazionale contenuta nello stereotipo sembrerebbe non avere un valore dialogico ma addirittura monosemantico, guidando il discorso non verso un’apertura ma verso una chiusura del senso. Ma nell’immagine le cose cambiano:
La ripetizione, infatti, se apparentemente vive di un prima e un dopo, nel movimento del senso visivo vive la dimensione temporale dell’ulteriorità. Isolare e rievocare un tratto essenziale in uno spazio e in un tempo che, certo, seguono un qualcosa che l’ha preceduto, ma lo fanno con il valore di un’aggiunta, di un ultra senso10.
Se lo stereotipo vive la forma della citazione, nel senso di discorso, immagine aperta all’alterità e alla ripetizione, come immagine può trovare nella ripetizione della citazione la possibilità di nuove interpretazioni? Può, cioè, la citazione mostrare il reverse dello stereotipo? La stessa ripetizione, a questo punto, intesa come modalità comune sia alla citazione che allo stereotipo può portare ad un senso ulteriore?
Per far ciò però è necessario partire dai corpi: quei segni visivi che lo stereotipo cita, richiama nell’immagine e che ripete.
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I corpi “replicanti”
Si può studiare la fenomenologia della citazione, studiarne cioè la forma, conoscere i soggetti coinvolti nell’atto di discorso, si può studiarla come fatto di linguaggio semiologico, come segno e lavoro simbolico del linguaggio umano sia esso verbale che non verbale, la si può studiare nella sua genealogia, studiarne i valori formali, il suo far parte della retorica del linguaggio, ma spesso si dimentica che la citazione non ha solo funzioni di discorso bensì piega il suo significato ai soggetti, ai corpi coinvolti nel suo dire, a coloro che parlano e soprattutto a coloro che sono. Non si è mai tentata, invece, un’antropologia visiva della citazione che considerasse i corpi come portatori di sapere e non solo capaci di dire. Proviamo allora a studiare l’antropologia della citazione visiva per vedere se quest’ultima mostra i segni dei corpi che vivono nel suo discorso, nella ripetizione, e a partire da questi sfida lo stereotipo fino alla sua distruzione.
Lo stereotipo visivo, infatti, non è un semplice legame simbolico ad un’identità supposta e decisa da altri ma può diventare anche una forma di citazione costruttiva che attraverso la riproduzione di discorsi altrui su un corpo “x” può costruire una nuova enunciazione collettiva, combattere cioè la fissità dello stereotipo e recuperando il suo originale, ossia il corpo, svelare i meccanismi che lo hanno incrostato.
L’aspetto sociale dello stereotipo non può, infatti, esimersi dal considerare che la prima forma di manifestazione del sé nel mondo è data dal corpo inteso non solo nella sua singolarità. Il corpo, infatti, va inteso come cifra sia di un’identità sia del suo valore, che ora è possibile chiamare citazionale, nel senso di un continuo rimando ad una forma primordiale, indistinta, oggettiva che esula inizialmente dalla particolarità. E’ la ricezione, il contesto, l’istituzione che attribuiscono al singolo corpo percorsi di senso diversi. Il corpo anatomico in fondo è la nostra familiarità, il nostro primo involucro di senso e il suo “essere esposto” cita i topoi del nostro vedere e pensare, attraversando diversi corpi.
Ad essere citato nello stereotipo è il corpo insostituibile non perché originale ma perché sempre identico a se stesso, così come insostituibile e fisso è lo stereotipo, in quanto entrambi vengono decifrati all’interno di un codice di rappresentazione collettiva, che non dà possibilità di sostituzione. Il corpo dello stereotipo è corpo denotato e connotato, pietrificato nel suo fascino della differenza, nei suoi tratti distintivi e insostituibili. E’ proprio questa sua unicità, irripetibilità del corpo ad esempio di una donna, l’insostituibilità delle caratteristiche anatomiche-fisiche, dei tratti distintivi del corpo anatomico a fare diventare il corpo luogo privilegiato dello stereotipo ma anche possibile causa della sua distruzione. Nessun corpo di donna per quanto anatomicamente uguale, dopo il suo primo riconoscimento visivo sarà ritenuto sostituibile. Lo inscriviamo in categorie: corpo bianco, uguale, diverso dal mio, bello, brutto, e lo faremo diventare immagine non di un’unicità, che resta ormai vincolata all’atto dello scatto della macchina fotografica, ma di una simbologia schematizzante. Dopo lo scatto, il corpo che aveva il nome, quello della modella, diventa immagine fissa collettiva, già nota perché il corpo, a meno che non si parli di corpi alieni, ha sempre le stesse caratteristiche, ma con lo sguardo si arricchisce del concetto della differenza.
Il corpo diventa immagine che parla, che modella la rappresentazione su un “già visto”, un “già conosciuto”. Lo stereotipo, quindi, non può prescindere dal corpo nell’immagine, così come il corpo nell’immagine si può sclerotizzare nella fissità dello stereotipo.
I corpi dello stereotipo sono, infatti, quei corpi su cui la storia ha espresso un giudizio inferiore, non necessariamente negativo, ma di diversità, affinché si creino processi di identificazione ed esclusione sociali e culturali. Il termine stereotipo, infatti, ha nella comunicazione visiva più un significato descrittivo che derogatorio. Esso, infatti, può essere valutato in maniera positiva o negativa ma la sua essenza è nell’aspetto descrittivo di un determinato gruppo rispetto ad un altro, che diventa particolarmente funzionale al discorso pubblicitario, dal momento che con l’uso degli stereotipi aiuta la pubblicità a veicolare idee e immagini in maniera più veloce e chiara.
Lo stereotipo all’interno di una pubblicità agisce, infatti, per la formazione di una personalità culturale che a sua volta è l’immagine di un’altra personalità presunta e allusa. Lo stereotipo è in primis un valore sociale, ma soprattutto è una struttura conoscitiva, una modalità di pensiero, un meccanismo di difesa umano nel difficile compito della conoscenza, e come tale non potrà esser completamente debellato, ma la sua destabilizzazione non è impossibile.
Penso, infatti, alla destabilizzazione e non alla sua distruzione, accettando il punto di partenza di queste divagazioni sul tema: l’individuazione delle forme di riciclaggio del sociale nel visivo pubblicitario e di conseguenza l’inevitabile movimento segnico in entrata e in uscita degli stereotipi dall’universo pubblicitario. Ciò non significa non riconoscere la sua durevolezza, bensì considerarne la sua continua evoluzione, passando da un testo all’altro con significati nuovi. Destabilizzare lo stereotipo significa, in fondo, non condannarlo, così facendo si rischierebbe un contro stereotipo ma ingannarlo con le sue stesse caratteristiche, parodiando se stesso, autocitandosi in una nuova combinazione semantica, raccontando del suo continuo movimento, del suo poter essere sempre altro da sé. Tra i diversi modi di destabilizzare uno stereotipo c’è proprio la citazione.
Accetto che il testo visivo, di cui si sta parlando, reagisce al mondo ed è reagito da questo, nel senso della possibilità che di esso si verifichino citazioni inter-testuali, riporti cioè di un testo che dichiarino implicitamente o meno la loro dipendenza da una presunta fonte e che di questa diano altre interpretazioni, attraverso la creazione di altri testi. Non si tratta né di falsificazione né di plagio, bensì di un rilievo interpretativo che in questo caso avrà l’obiettivo della destabilizzazione di una forma cristallizzata di pensiero.
Basti pensare all’operazione svolta dal progetto Love your body11 in area anglosassone. Si tratta di un sito web nato con la finalità di attaccare gli stereotipi di genere, in particolare quelli rivolti alla rappresentazione dei corpi delle donne che si presentano offensivi e fortemente stereotipati. I corpi delle donne vengono cioè sottoposti a delle metamorfosi creative contro la rappresentazione stereotipata degli stessi. Si creano cioè contest e competizioni amatoriali per poster che rappresentino il corpo in maniera reale e non come feticcio. Un esercizio grafico di intervento sulle immagini dei corpi che invita in particolare le donne ma anche altri “generi” di corpi ad amare il proprio corpo oltre lo stereotipo pubblicitario. La strategia adottata e finalizzata all’educazione nelle scuole è quella della ripetizione, della citazione di modelli pubblicitari, questa volta deturpati, ri-scritti individualmente che ritraggono pelli reali e non trattate chirurgicamente o frammenti di corpi che non siano necessariamente quelli delle donne. Lo stereotipo allora auto citando l’origine di se stesso, quei corpi che lo vivono, si sottopone ad una metamorfosi e in un gioco di mascheramenti e corpi grotteschi si ri-genera autocitandosi.
Attraverso la citazione di corpi nello stereotipo, allora, si può indagare l’aspetto di riscrittura, di ri-generazione dello stereotipo, in questo caso quello di genere, perché più connotato dall’uso e abuso del corpo di donna, e attraverso la riproduzione di corpi umani visibili, dimostrare come lo stereotipo non sia solo senso “incrostato” ma citando i corpi che lo abitano esprima un diritto di “replica” degli stessi.
Quest’ ultima possibilità si attua proprio attraverso un’operazione citazionale, di re-interpretazione del testo, di citazione di uno stereotipo e del corpo che in esso vive come ha tentato di fare l’azienda tedesca Hakle produttrice di carta igienica le cui immagini sul sito aziendale ritraggono questa volta un fondoschiena maschile baciato da una donna. Il frammento di corpo citato è quello femminile a lungo protagonista di spot e immagini pubblicitarie non solo per prodotti di igiene intima. Questa volta però la citazione torna sullo stereotipo visivo, sul frammento di corpo femminile su cui si crea lo stereotipo e con un rimando evidente dimostra che giocare sui corpi dello stereotipo destabilizza lo stereotipo stesso. Non si tratta di un felice esempio di parità corporea nell’immagine, (le immagini si indirizzano anche a coppie omosessuali) quanto, piuttosto, di una citazione del corpo femminile che riscrive il suo senso partendo da un altro corpo, quello maschile, in particolare dallo stesso frammento più volte ripetuto in varie inquadrature pubblicitarie che lo hanno reso oggetto di rappresentazione stereotipata: le natiche. L’immagine stereotipata, quindi, attraverso la citazione dei corpi rende possibile il superamento dell’ottusità dello stereotipo per un diritto di “replica” sui corpi.
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1 Mi riferisco ai numerosi studi fatti sul discorso riportato come modalità di rappresentazione della parola altrui ad opera di Voloŝinov- Bachtin in Il Linguaggio come pratica sociale, 1926-30, trad.it. 1980, Bari, Dedalo.
2 Cfr. Dagostino M.R., “L’appeal del classico in pubblicità: retorica della citazione visiva” in Classico Manifesto. Temi della Tradizione classica nella Pubblicità Italiana (XV-XXI secolo), a cura di Centanni Monica, Catalogo per la Mostra “Classico Manifesto” presso la Triennale di Milano, Casa editrice Valore-Italia, Roma, 2008, pp.87-102.
3 Cfr. Compagnon A, La seconde main ou le travail de la citation, Paris, Seuil, 1979.
4 Dagostino M.R., Cito dunque creo, Meltemi, Roma, 2006, pag. 28.
5 Alcune di queste riflessioni sono contenute in “Stereotipi, frammenti di un discorso citazionale”, in Dagostino M.R., op. cit., pp.133-179.
6 Lo stereotipo così come sarà inteso in questa analisi, perde il suo carattere semplicemente di parola etichetta come affermava Schaff A. in Gli stereotipi e l’agire umano, Bari, Adriatica, 1980 mentre sarà inteso come immagine che generalizza e semplifica la realtà oggettiva attraverso un processo attribuzionale.
7 L’accostamento tra lo stereotipo e la tematica del simulacro è giustificata dal fatto che entrambi riguardano, modificano e vivono nella dimensione dell’alterità. Non esiste simulacro che non abbia un’alterità di riferimento a prescindere dal suo essere reale e fittizia. Lo stesso accade per lo stereotipo che non è tale se non in rapporto ad un altro, di cui o del quale si vuole gestire la conoscenza. Entrambi, inoltre, sono intesi per un interlocutore, non bastano a se stessi ma vivono per essere visti, intesi, al punto che è chi usa il simulacro e lo stereotipo, così come chi ne è abusato a legittimarne l’esistenza.
8 Cfr. Perniola M., La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1980.
9 Cfr. Amossy R., Les idées reçues. Sémiologie du stéréotype, Paris, Nathan, 1991.
10 Dagostino M.R., op. cit., pag. 29.
11 Si veda per un approfondimento sul progetto il saggio di Laura Fantone, “Dis-connettere i generi, connettere i saperi tra pari”, in Gamberi C., Maio M.A., Selmi G., Educare al genere, Carocci, Roma, 2010, pp. 83-97.