DESIRE
La terra alter-nativa che ospita. Ximena Bedregal Sáez
di Lara Carbonara
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As a woman I have no country.
As a woman my country is the whole world.
Virginia Wolf
Fra la pelle e le ossa si stende a volte la distanza di un deserto.
Allora lo scorticato guarda lo scheletro e dice: e questo chi è?

Bernard Noel

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“Dominad la tierra y a todas las bestias que serpean en ella” fue el mandato que a nombre de un dios único se inventaron los hombres separándose del primordial cuerpo femenino, de la Madre Tierra, de la Pacha Mama, de la madre primigenia, y desde ahí, de todas las madres y del misterio de la vida. Pulsión patriarcal que hizo todo cuantificable, medible, conocible, controlable y dominable; especialmente todo lo que no pertenece al modelo del padre, del elegido por ese dios único, ese dios uno.
Todo lo que es “otro”: primero las mujeres, luego los indios, negros y un largo etcétera, pasaron a ser el símil concreto de esas bestias que serpean la tierra, los objetos a dominar y controlar.
Al misterio de la vida se le impuso la razón, la medición y el cálculo, todo se dividió para entenderlo y poseerlo: se dividió a los seres humanos y a la tierra, se hicieron patrias con sus fronteras y sus símbolos. Se crearon patrimonios con los valores monetarizados. Perdimos la tierra y la sustituyeron por un carnet de identidad y un pasaporte. Perdimos el fruto de la tierra y lo cambiaron por una mercancía; perdimos el espacio, al que cambiaron por un permiso para transitar; perdimos el libre tránsito al que reemplazaron por leyes de migración y consulados con poder de decidir quiénes entran a su patria y quiénes son parias.
Perdimos la tierra para peregrinar en ella como patriotas. Patria es el espacio del padre.
Por ello: como mujer no tengo patria, el mundo entero ed mi terra, mi matria.

Ximena Bedregal Sáez

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Il confine e la pelle. I suoi abbozzi di allontanamenti e avvicinamenti da sé. Ximena Bedregal è la cartografa del corpo, la traduzione di una terra deslenguada, lo spazio di riformulazione dei confini e di ricongiungimento di passi mutilati.
L’arte dell’America andina è un’arte politica, fortemente intrisa delle forme (e forze) della ribellione, della rivoluzione, del risarcimento. Dal muralismo alla tela, l’america ispanica si ispira alla terra, alla natura, alla contaminazione silenziosa, all’unione della lingua, alla resistenza degli spiriti. La prospettiva è lo sguardo del meticciato che si appropria degli spazi occupandoli e ri-scrivendoli. Profili di paesi spogliati dalle loro egemonie vengono impastati di nuove tracce. Nel caso della foto-grafa si tratta di una boliviana/chilena perseguitata politicamente ed esiliata in Messico, una “non-ritornata”che elabora il tema dell’assenza e della memoria come imposizioni violente di esclusione/integrità delle culture.
L’unica soluzione, in questo “abisso incolmabile” afferma Ximena Bedregal è “costruire dei ponti che ti permettano di attraversare da un lato all’altro con meno dolore”. La condizione dell’esilio colloca l’ostinazione delle proprie origini proprio quando viene imposta un’amnesia. Riuscire a ricostruire e rimappare il ricordo permette di metabolizzare una sopravvivenza alla brutalità dell’allontanamento, dopo che “persero il loro stato di innocenza non appena il loro paradiso in terra venne fatto a pezzi”1.
Dunque una sorta di esilio da se stessi, una sorta di riconoscimento della propria alterità, senza memoria, senza storia, senza una propria genealogia e geo-grafia, cercando di mettere insieme questi frammenti come una macchina da presa che crea e si autocrea.
Quando Rey Chow riprende la teoria di Laura Mulvay dell’intreccio/contrapposizione tra il guardare e l’essere guardato, applicandolo alla condizione Occidente (che guarda), il non Occidente (che è guardato) si potrebbe pensare all’arte ‘sociale’ e politica dell’America Latina. Un’arte attiva e attivista che rappresenta la voce identitaria di un popolo per svolgere un ruolo di guida e per essere guardata dal panopticon, lo sguardo del potere. L’arte ‘attivista’ diventa pertanto una pratica discorsiva, prodotta da una serie di discorsi di razza e genere che si intrecciano e si stratificano in relazione all’io/l’altro (osservatore/osservato) e alle loro  posizioni  mutevoli e conflittuali.
“La condizione dell’essere guardati non è solo costruita nel modo in cui le culture non occidentali sono visionate da quelle occidentali; più significativamente, essa è parte della maniera attiva in cui tali culture rappresentano – etnografizzano – se stesse”2.
Lo spazio dello sguardo è lo spazio della rappresentazione e della sua traduzione; lo spazio del visuale diventa quindi luogo del desiderio di costruzione e di proiezione dell’identità, un meccanismo “traduttivo e auto-traduttivo; la riproduzione delle immagini non avviene tra un originale di partenza ed una copia in cui tale originale di traduce ma lo stesso presunto originale già contiene in sé la condizione dell’essere tradotto in quanto essere guardato”3, un varco nell’identità verso l’alterità, una commistione tra il  “luogo dell’immagine” (il nativo) e il“territorio del desiderio”.  Una messa in scena intrisa di linguaggio e svuotata della lingua, in un territorio concettuale ibrido e fluttuante, che Homi Bhabha definisce il ‘terzo spazio’, uno spazio in-between che si colloca nel mezzo, tra colonizzato e colonizzatore, all’interno del quale la resistenza alla prepotenza diventa corpo che interpreta e negozia.
Qui, nell’estensione della ‘scrittura visuale’ il mondo si riduce al suo rispecchiamento, alla sua conflittualità rappresentata. Il mondo si tra-duce in una mappatura di spazi controllati, in cui tutto ciò che rimane fuori aspetta di essere riempito con i nostri rimandi inconsci, come in un gioco della traccia deriddiano.
Questa mappatura della ri-scrittura e della ri-scoperta crea in effetti una soggettività storica infestata da passati non nominati e concede la possibilità discorsiva della ri-nominazione. Le tracce della migrazione, dell’esilio, della marginalità sono accomunate da quella che Bhabha definisce l’ “estraneità del domestico”, ovvero quella attitudine a sradicarsi dalla propria identità originaria e ri-creare e ri-dislocare la propria storia personale,che diventa storia di un popolo. Il concetto di identità che ne deriva risulta non “un riflesso di tratti etnici e culturali già dati, ma una negoziazione complessa e continua che conferisce autorità a ibridi culturali nati in momenti di trasformazione storica e sociale”.
L’autrice Bedregal si immerge nella pratica della rappresentazione ed identificazione con la propria terra, partendo dal corpo femminile, intervenendo sui singoli dettagli, ma soprattutto su meccanismi visuali e narrativi che strutturano i modelli di identificazione, alla cui base si colloca il movimento e la spinta del desiderio. La ri-appropriazione del proprio spazio è, come direbbe Mona Baker, intessere un personale schema di intramazione, mettendo in primo piano alcuni desideri ed ignorandone altri4.

Le trame dell’artista boliviana sono sguardi di pura differenziazione. È lo sguardo che riveste di pelle, è lo sguardo del divenire corpo. È il perdere il passaporto e ri-diventare terra; abbandonare la merce e cogliere i frutti della natura; è il non chiedere permessi per viaggiare; è l’abbandonare lo spazio patriarcale, ma riconoscere il mondo intero come patria e matria.

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Traghettando per la Vena aperta dell’America Latina senza carta d’imbarco

Scoprire di non avere alcuna ragione per chiedere al fratello di combattere per lei in difesa della ‘nostra’ patria. La ‘nostra’ patria mi ha trattata da schiava, mi ha negato l’istruzione e qualunque partecipazione alle sue ricchezze.
La ‘nostra’ patria mi nega i mezzi per difendermi….
Perciò se tu insisti nel voler combattere per proteggere me o la ‘nostra patria’ mettiamo bene in chiaro,
…, che tu stai combattendo per gratificare un istinto sessuale che io non condivido;
per conquistare vantaggi che io non ho mai condiviso … Perché, dirà l’estranea, “io in quanto donna non ho patria.

In quanto donna, la mia patria è il mondo intero”. (Virginia Wolf)

Como mujer no tengo patria, 2009. Courtesy dell’artista

C’è una sensibilità particolare, una facultad, come la chiama Gloria Anzaldua, “che comunica attraverso immagini, e dietro cui i sentimenti risiedono/si celano”5. Questa disponibilità è propria degli artisti, di coloro che “in quanto vittime di soprusi – i rinnegati, i neri, i perseguitati, i clandestini, gli omosessuali – sviluppano questa sensitività in modo da proteggersi dal ‘prossimo colpo’. In una installazione di webarte, la  foto-grafa messicana boliviana cilena Ximena Bedregal si costruisce e si re-inventa extranjera, otra, alien.

Da una foto segnaletica Ximena, in bianco e nero, fora l’obiettivo e guarda nel vuoto. Con un clic la clandestina viene archiviata, resa numero, e rinominata; Ximena Bedregal, è la caucasica mestiza EXTRANJERA, un altro clic e in un’altra foto segnaletica l’artista diventa “Suspechosa de diferencia, OTRA”, ancora il rumore secco e lento della macchina da scrivere, quel ticchettio umido e vellutato della tastiera che scorre, un’altra foto, Questa volta per la Ximena Apàtrida e ALIEN. Archiviata.  C’è un gioco sottile che si viene a creare con l’osservatore/spettatore, che deve necessariamente cliccare per andare avanti, e deve co-stringere il soggetto nella foto in uno stato di altrità e di estraneità.

L’artista mette in scena la drammaturgia della traduzione, della condizione identitaria, di una voce e della sua sete di camminare. Le fotografie della serie Cuerpo Mapa, si inscrivono in una corporeità intensa e gravida, che si riempie di strade, occhi, pelle e degli antichi canti degli avi. Un corpo e le sue vibrazioni, adagiato ed incollato su monti e colline e sul fianco le parole liquide dell’attraversamento, “classificazione, somma, moltiplicazione, misura, divisione, appropriazione, ripartizione, allineamento, tracciato…terra sconosciuta..abbiamo un corpo? Che tu abbia un corpo!” con le rotte che diventano respiro, le navi che diventano racconti e scavano solchi di storie intorno che sono e sono state le storie di tutti. È il soggetto che si costruisce nel ‘vedere’, nell’ulteriorità dello sguardo che preserva le differenze, la mappa del desiderio, formata dalle ferite della storia che ci si cuce addosso.

In the spirit of a new people that is conscious not only of its proud historical heritage but also of the brutal “gringo” invasion of our territories, we, the Chicano inhabitants and civilizers of the northern land of Aztlan from whence came our forefathers, reclaiming the land of their birth and consecrating the determination of our people of the sun, declare that the call of our blood is our power, our responsibility, and our inevitable destiny6.

Nel Plan Espiritual de Aztlàn c’è una espressione che determina in maniera forte e pungente l’appartenenza alla terra che i Chicanos reclamano, “la terra del loro birth, la nascita”che identifica La Raza nella seconda serie, Identificaciones desidentificadoras.

Qui le foto segnaletiche dell’artista si uniscono a statuette precolombiane, a formare una circolarità che vuole ritrovare il proprio ventre materno. Le parole Padre, Patròn, patri-monio, patria, ne sottolineano il lato grottesco della nominazione. La terra sullo sfondo è sbrindellata, usata, percorsa da annotazioni, ricucita. L’infezione dell’esilio metabolizzato a colpi di dis-locazioni ri-collocate, costruite e narrate con accenti uprooted, che significa sradicato, ma che si rappresenta e si riproduce e con le radici ben piantate nel sole. Nel gioco visuale fra pelle e mappa si crea una illusione di prossimità e contatto, una certa spinta all’esperienza tattile evocata con il gioco di superfici e materia che si moltiplicano, si  impastano, si mescolano, si coagulano.

La sequenza Caminantes è il percorso degli instancabili viaggiatori di senso, di lingua, di sapere, di pensiero, che devono riposizionarsi in una nuova culla ed incorporare un nuovo confine, fino ad annullarlo. Cartine topografiche incorniciano lembi di terra verde, e i camminanti di spalle all’osservatore, si allontanano verso l’orizzonte. Secondo il pensiero Occidentale afferma Renato Rosaldo, il processo di migrazione strappa i cittadini dalle loro culture d’origine e li trasforma in cittadini “culturalmente trasparenti”; in realtà ci piace vedere questo attraversare come un arricchimento, come narrazioni di r-esistenza, di apertura di confini. Per dirla con le parole di Analouise Keating, “muoversi comporta attraversamento, ma è come se ancora non sappiamo precisamente come attraversare, come connettere tutti questi saperi, culture che le donne hanno intessuto in ogni dove, ma che ancora non hanno casa7. Rappresent-azioni, figur-azioni, immagin-azioni del cammino di un cruzado, che dicono la costruzione di cartografie mobili e fluide, costantemente ri-nominabili e ri-tracciabili.

Mudarse, – Mettersi in movimento –  irse, dejar, abandonar, superar, ausentar espacios..,Mudanzas, – trasloco – cambios, transitos, desplazamientos, rituales de paso, cruzados.

Più drammatica la rappresentazione dell’essere in continuo movimento nel trittico Ilegales. Le immagini apparentemente sembrano docili, è necessario guardare più a lungo e più in profondità per capire cosa stia succedendo realmente all’interno di quei treni in corsa.  Lo spostamento forzato viene identificato con il supporto di raggi infrarossi. La cartina presumibilmente è quella di un Messico disteso e visto dal basso. I treni sono porta merci provenienti dal Guatemala. L’amarezza di queste fotografie è la classificazione a raggi X, quindi oltre la superficie, del ‘diverso’ del clandestino, – clam-des-tinus – coloro che si nascondono durante il giorno – è più facile attribuire loro un’identità linguistica che culturale; Ximena abita quel sottile gioco del vagare che ha il valore di perdita e di desiderio di ritrovamento; i suoi passi e i suoi scatti si oppongono al continuo ridisegna mento dei confini pur non riuscendo a non ammetterne l’esistenza.

Las borradas è la lenta emorragia dell’oblio delle origini. Un ritratto di una madre boliviana, il volto scavato dal sole, la pelle solcata dalle rughe, gli occhi di mille e una madre insieme, in sequenza appare sempre più sbiadita, fino allo scolorimento, al suo posto delle impronte digitali, lo sfinimento della civiltà. Sullo sfondo, una terra verde e rigogliosa diventa strade, numeri, etichette, fumo, progresso.

È qui che le narrazioni delle radici prendono forma, in queste narrazioni, questi passaggi, questi movimenti, in questo spazio “dove i condor insegnano che sulle alture manca l’aria, e che arrivare al futuro richiede altri ritmi e tempi. Quella parte di mondo dove il futuro sta dietro e il passato davanti”8.

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1Rosaldo Renato, (2001), Cultura e Verità,  Meltemi, Roma, cit. pag. 218
2Chow Rey (1995) Primitive Passions, Columbia University press, cit. pag. 180
3Calefato Patrizia, (2009) La moda come traduzione culturale, saperi, costrizioni e trasgressioni sui/dei corpi femminili in Taronna Annarita (a cura di)  , Tranlationscapes, Progedit, Bari, cit. pag.44
4Baker Mona, Resistere al Terrorismo di Stato. Teorizzare comunità di traduttori ed interpreti attivisti, in Taronna Annarita (a cura di)  Translationscapes, il termine ‘intramazione’ deriva dall’inglese emplotment, il processo narrativo grazie al quale il soggetto inserisce se stesso in una narrazione significativa e produttiva.
5Zaccaria Paola, (2004) La lingua che ospita, Meltemi Roma, cit. pag. 59
6Nello spirito di un popolo conscio non solo del proprio fiero retaggio storico ma anche della brutale invasione ‘gringa’ dei nostri territori, noi, Chicanos, abitanti e civilizzatori della terra settentrionale di Aztlàn donde giunsero i nostri antenati riscattando quella che fu la loro terra natale, e consacrando la determinazione del popolo del sole, dichiariamo che la voce del nostro sangue è il nostro potere, la nostra responsabilità e il nostro inevitabile destino.
7Zaccaria Paola, (2004) La lingua che ospita, Meltemi Roma, cit. pag.. 46
8http://documentosautonomos.blogspot.com/, Documentos de la autonomia feminista, Carta de Ximena Bedregal a la CO del XI EFLAC

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Bibliografia

Calefato Patrizia, Caprettini G. Paolo, Colaizzi Giulia, (2001), (a cura di) Incontri di culture. La semiotica tra frontiere e traduzioni, Utet, Torino.
Chatwin Bruce, (1995) Le vie dei Canti, Adelphi, Milano.
Godayol Pilar, (2002) Spazi di frontiera: genere e traduzione, Palomar, Bari.
Quaderno di Comunicazione, Rivista di dialogo tra culture, Mimesis Edizioni, www.quadernodicomunicazione.com.
Rosaldo Renato, (2001), Cultura e Verità, Meltemi, Roma.
Taronna Annarita (2009) (a cura di) Translationscapes Progedit, Bari.
Zaccaria Paola, (2004) La lingua che ospita, Meltemi Roma.
Wolf Virginia, (2000) Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano.

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Lara Carbonara è dottoranda in Teoria del Linguaggio e Scienze dei Segni (Università degli Studi di Bari Aldo Moro). Si occupa di studi culturali, visuali e postcoloniali focalizzando la sua ricerca  in ambito letterario-artistico. E’ direttrice di una rivista on-liine, ArtSOB Magazine che indaga i campi dell’arte contemporanea;  è una curatrice free lance ed ha diverse collaborazioni.