Tutte le immagini di cui si parla in questo articolo sono rintracciabili nell’archivio on line dell’Heritage Museum di Jersey (http://catalogue.jerseyheritage.org/).
Lo storico francese François Leperlier cura nel 2002 una filologica raccolta di testi di una scrittrice francese della quale in quel momento si era ancora sentito parlare davvero poco: Lucy Shwob, più nota come Claude Cahun (Cahun 2002). Quattro anni dopo, lo stesso studioso pubblica una biografia dettagliatissima della stessa artista (Leperlier 2006), dalla quale trapela un corpus di opere davvero notevole, che va dalla letteratura saggistica alla narrativa, fino alla fotografia. Ciò che appare subito sconcertante è che, nonostante Claude Cahun sia stata membro più che riconosciuto del movimento Surrealista, e nonostante la sua notevole notorietà pubblica almeno fino agli anni quaranta, dopo la sua morte avvenuta nel 1954, per oltre un trentennio viene completamente cancellata da qualsiasi saggio critico letterario o di storia dell’arte. Leperlier attribuisce la causa principale di questa “rimozione” al volontario isolamento che Lucy Schwob, e la sua inseparabile compagna Suzanne Malherbe (in arte Marcel Moore) si erano “concesse” nella loro casa sull’isola di Jersey, un’isola della Manica, situata davanti alla costa francese, ma in realtà sotto la Corona Inglese. Un luogo che sintetizzava perfettamente la storia di Lucy, vissuta e cresciuta tra le due culture: quella francese di origine e di formazione, e quella inglese che l’aveva accolta negli studi superiori, dopo la decisione di lasciare una Francia poco sicura per gli ebrei dopo il caso Dreyfus, che aveva marginalmente coinvolto anche Le Phare de la Loire, il giornale diretto da suo padre a Nantes. Lucy non era esattamente un’ebrea, lo era solo per parte di nonna paterna, per altro tanto amata da essere la fonte d’ispirazione per la scelta del suo nuovo cognome: Cahun (Leperlier 2006, 40). Senza dubbio la decisione di ritirarsi in un luogo volutamente al margine di qualsiasi vita culturale, ha contribuito fortemente alla temporanea “dimenticanza” del lavoro di quest’artista per molti decenni. Credo che si possa però aggiungere a questo un certo “imbarazzo” critico dovuto al fatto che Claude Cahun ha realizzato una mole davvero notevole di opere – anche di difficile identificazione data la pletora di nomi con cui le ha firmate – mettendo in atto una dinamica che in certo qual modo è passata come disseminata, polverizzata, tra le maglie della catalogazione dell’arte contemporanea e dell’arte moderna, a cui siamo abituati a riferirci.
Leggendo con estrema attenzione la sua letteratura, i suoi diari e le sue lettere private, ponendoli a confronto con le sue fotografie, traspare un labirinto di riferimenti incrociati che ci si presenta un articolato sistema metalinguistico.Riferendomi alle immagini fotografiche che sono l’oggetto del mio studio da diversi anni, credo sia centrale comprendere come tutto il suo lavoro, duchampianamente, compia un’intera e sola opera: la costruzione o la mostrazione di un sé che oggi, definiremmo una self-identity1, assemblato con un sistema di giustapposizione e di montaggio di elementi che vengono da tutta la sua cultura, anche di ascendenza familiare, e che lavorano esattamente come in un enorme e mai finito cadavre esquise. Vorrei partire da alcune interpretazioni che la inquadrano come una sorta di exemplum per i Gender Studies (Rice 1999), proponendone una lettura che a tratti svela punti essenziali del suo lavoro e, a tratti esattamente all’opposto, la incornicia in modo eccessivo che, decontestualizzandola (Chadwick, Latimer 2003, 127-143), la chiude in una visione direi anacronisticamente post-moderna che non rende giustizia dei suoi legami forti e carnali con il tempo nel quale è vissuta. Resta fuori di dubbio che la sua biografia non può essere fattore indifferente nella lettura dei suoi lavori: lesbica dichiarata, s’innamora della sua sorellastra, Suzanne Malerbe, figlia della seconda moglie di suo padre – sposata dopo la morte prematura della madre di Claude – con la quale inizia una vita comune che durerà fino alla morte di Lucy nel 1954, e che le vedrà unite anche nella terribile avventura della prigionia in periodo nazista a Jersey2. Una parte delle letteratura saggistica femminista (Caws 1990) ha individuato nella filosofia sottesa al Surrealismo una sorta di vena misogina, che avrebbe di fatto nascosto le potenzialità creative delle donne del movimento, della quale rende conto, solo per dissociarsene nettamente il saggio di Rosalind Krauss Le celibi (Krauss, 1999). Tale visione giustificherebbe quindi l’apparente assenza della Cahun all’interno della saggistica dedicata al Surrealismo, nonostante la sua intensa amicizia e frequentazione con André Breton e la sua presenza ufficiale e ampliamente documentata nel movimento.3 Senza addentrarmi qui nella polemica riguardo alla presunta misogina del Surrealismo che meriterebbe uno spazio più ampio di discussione, credo sia importante nello specifico della Cahun considerare cha la sua adesione al movimento è stata caratterizzata da un fortissimo coinvolgimento, denso di incontri e di conflitti, saldamente incentrato sull’idea di “rivoluzione surrealista”, che sarebbe ingiusto sconfessare a posteriori, relegando la sua posizione ad una catalogazione connessa solo al suo ruolo di donna e di lesbica in quel preciso contesto culturale. Lucy Schwob, è stata un’intellettuale, straordinaria conoscitrice del Simbolismo, membro riconosciuto del Surrealismo, in quella dimensione a mio parere più intimista e meno esposta, ma certo non meno impegnata, che lei stessa ha scelto di avere, costruendo un immaginario che proprio lavorando per lo più su se stessa ha rimesso in gioco un intero universo di significati. Mi è subito apparso poco filologico il tentativo continuo di leggere in lei, a posteriori, una sorta di “anticipatrice” di istanze post-moderne – ad esempio che la connettono forzatamente al lavoro di Cindy Sherman (Chadwick 1998, 66-81) – riuscendo così in qualche misura a restringere nuovamente il suo ambito di intervento e di influenza a un ben definito ma limitato contesto4.
Vorrei quindi analizzare alcuni autoritratti, attraversando cronologicamente solo un brevissimo periodo della sua produzione, per tentare una lettura trasversale che in questo saggio per problemi di spazio non può che essere appena enunciata. Potrei sintetizzare la mia posizione usando un post-scriptum di Claude Cahun stessa come incipit all’analisi del suo lavoro fotografico: “A present j’existe autrement” (Cahun 2002, 191).
Una degli autoritratti del 1920 (01), divenuto ormai una immagine-simbolo della Cahun, la ritrae di spalle, con una canottiera scura, la testa completamente rasata a zero, il volto girato verso sinistra e la bocca semiaperta con gli angoli rivolti verso il basso, mentre guarda indietro con la coda dell’occhio. La strana posizione delle spalle, fa quasi pensare a un busto maschile, o comunque senza seno, visto di fronte, e l’unione tra testa e spalle appare piuttosto disturbante. Claude non sembra essersi interessata dell’aspetto anamorfico o deformante della fotografia surrealista – a parte una sola immagine del 1929 di cui parlerò più avanti– però in questa foto una sottilissima ambiguità formale rende “strano” questo corpo, per la forma del cranio ben in vista data la rasatura, e per la posizione anomala che sembra invertire il corpo, alludendo chiaramente a una sorta di straniamento interno, di ambiguità delle membra. Dal profilo di Claude emerge la sporgenza del naso aquilino, elemento fortemente identificativo nelle catalogazioni “razziali”5 come caratteristica distintiva nella descrizione stereotipica del “tipo ebraico”. Nella serie di ritratti tracciati dalla Cahun nei testi raccolti sotto il titolo Éroïnes, nella descrizione dedicata a La sadique Judith, Giuditta, parlando in prima persona6 raffigura così il suo amato/odiato: “Ah! Sourtout, que me pleisent ces oreilles en éventeil, cette nuque au poil court_et la superbe verticale du crậne au cou, s’il penche la tête en arrière, brisée par les plis de reptile! Je les aime parce que j’y reconnais les caractéres distinctifs, de la race ennemi” (Cahun 2002, 131). La descrizione, evidentemente scritta alcuni anni dopo la fotografia, è incredibilmente vicina all’autoritratto in canottiera, persino nel dettaglio delle pieghe del collo, e si conclude con l’espressione “la razza nemica”, dove con un’abile gioco di identificazione/inversione l’artista ospita nel suo copro, l’immagine del male/maschile, Oloferne, amato ma anche sconfitto dall’eroina ebrea. Sia nel testo che nell’immagine, si intravede quell’intenso processo che caratterizza a mio parere il lavoro della Cahun: prendersi carico fisicamente, incarnare nelle sue stesse membra più condizioni, non per armonizzarle o alla ricerca di una mediazione risolutiva, ma per mantenerle in una costante condizione di negoziazione e contraddizione. Non c’è in quel corpo che appare come frontale e di spalle, come maschile e femminile, come fragile e monumentale, nessun tentativo di appagamento, ma solo un senso vitale e inquietante di indefinizione. In un altro testo, pressoché contemporaneo alla fotografia, contenuto in Aveux non avenus (Cahun 2002), la Cahun descrive un doppio ritratto che potrebbe apparire come una ulteriore lunga didascalia alla fotografia: “A l’Inévitable./O fillette gentile, dépose ta grâce de fleur séchée entre les feuillets de mes livres et de mes actes préferés, que je m’habitue à ton parfume dont la feduer m’ecœure un peu ancore, et dont l’ivresse amère_et que j’aime! – me soffoque d’abord malgré moi…/O mort camarde, ton immutabile moule s’impose atrocement aux visage à nez aquilin. Aussi les hommes de ce type te redoutent-ils davantage. Pourtant sois inflexible, masque implacable; reste rigide, que tu les veuilles ou non. Ne te lasser pas injurier par moi, petite doucer” (Cahun 2002, 191). Vorrei aprire una breve parentesi sulla questione della scelta del nome dell’artista, la quale dice nel 1951 a Charles Henri Barbier: “(…) Claude Cahun – qui représentait (représente à mes yeux) mon véritable nom plutôt qu’un pseudonyme” (Leperlier 2006, 41). Mi sembra questo un passaggio fondamentale per chiarire che per Lucy Schwob, Claude Cahun non è un alter ego, non è come lei stessa dichiara uno pseudonimo, ma prende l’aspetto di una vera e propria auto-nominazione, cioè è parte di un processo di ricostruzione di un sé che per compiersi davvero deve iniziare da un elemento basilare: la definizione delle proprie coordinate di appartenenza che, rielaborate, immettano e contengano elementi “congeniti” di una nuova autodeterminata personalità. Non è affatto casuale quindi, a mio parere, che tale nuova “nomimazione” di sé passi per l’acquisizione di un cognome che, ripreso da quello della nonna paterna, ha un’ascendenza ebraica molto riconoscibile e al tempo piuttosto “scomoda”. In Confidences au miroir (Cahun 2002) – una autobiografia poetica pubblicata per la prima volta da Leperlier – in una sorta di dolente invocazione Claude scrive: “Ô mal nommés, je vous renomme! Ô bien aimés, je vous surnomme, Ô discrédités…objet, sujet, ideé, mot, je vous fais confiance” (Cahun 2002, 585). La rappresentazione della propria soggettività, non è più imposta da nessuna linea familiare o dalla nascita, ma è una scelta a posteriori, con coscienza e determinazione, per trasformare se stessi e edificare per intero un proprio mondo. Ecco quindi la motivazione della scelta non solo del cognome, ma anche del nome Claude, che le consente di stare su quella soglia che dal nome non fa intendere il genere sessuale (in francese si scrive nella medesima maniera per il maschile e per il femminile). Dirà ancora lei stessa: “La gêne des mots, et sourtout de noms propres, est un obstacle à mes relations avec autrui, c’est-à-dire à ma vie même. Obstacle si ancient qu’il m’apparaît en quelque sorte un trait congénital” (Cahun 2002, 585). Dunque Claude ribadisce che il nuovo nome non appartiene alla “letteratura”, ma in assoluto alla sua vita e cita quel termine “congenito”, una parola molto discussa al momento in relazione alle “deviazioni” di tipo sessuale, come l’omosessualità – analizzate da Havelock Ellis, tradotto dall’inglese dalla stessa Cahun – nell’ambito dell’animato dibattito sull’origine “genetica” della allora cosiddetta “inversione”7 (Ellis 1966). Mi sembra quindi interessante vedere alcune volute accentuazioni “fisiognomiche” nei primi ritratti, come delle “rinominazioni” figurali: una maniera per mettere in scena la propria reale e rivendicata “appartenenza”, usando i segni stereotipici con i quali l’ufficialità normalmente la disegna. Dunque tornando agli elementi delle foto citate: la rasatura, chiaro segnale di rivolta dato il carattere fortemente distintivo di femminilità dei capelli lunghi per l’epoca (Gen Doy 2007, 15-35), l’ostentazione del naso “ebraico” e la posizione del busto che la androginizza fanno emergere una volontà forte di identificarsi con un “essere” anomalo, non solo nel senso dell’ambiguità sessuale “non ben identificabile” dal punto di vista del genere, ma vicina a un’estetica dell’anomalia che in questo periodo poneva sullo stesso piano la rappresentazione fotografica degli alienati, dei “deviati” e dell’“altro” più in generale. Propongo di vedere in questa figurazione che la Cahun dà di sé una sorta di “individuo da correggere”, nell’accezione che ne dà Michel Foucault (Foucault 1999) – nel testo Les anormaux realizzato per le lezioni al Collège de France tra il 1974-75 – come qualcuno che definibile proprio attraverso la sua “incorreggibilità”, conoscendo bene le regole volutamente le infrange, e si pone al limite di qualsiasi normalizzazione, partendo dal rifiuto dell’istituzione basilare della famiglia. Credo sia fondamentale per capire meglio il rapporto di Lucy Shwob con la “anormalità” riflettere sul fatto che la sua vita era stata sconvolta da un evento che lei stessa ha ridisegnato, traslandolo e concettualizzato a più riprese in tutto il suo lavoro: sua madre, quando è ancora una bambina, finisce in un clinica per malattie mentali, in preda a una fortissima crisi depressiva, dalla quale non farà mai più ritorno a casa, scomparendo completamente dalla vita della figlia. Prima di essere internata la mamma di Lucy, Marie Antoinette, ha un rifiuto drammatico di Lucy, non riesce nemmeno a toccarla e arriva fino ad atti violenti contro di lei. L’internamento della madre farà nascere in Lucy la costante paura, per altro condivisa ossessivamente dal padre, di finire nella stessa morsa terribile della malattia mentale. In questi suoi primi autoritratti mi sembra di poter trovare una precisa iconografia dell’alienazione, una sorta di immagine sospesa tra autorappresentazione e presagio di un futuro “malato”. Claude Cahun si propone come una figura volutamente e ostentatamente “imbarazzante” allo sguardo, per una dichiarata decostruzione del corpo: corpo femminile tramite il cranio rasato e la magrezza androgina, corpo “etnicizzato” per il naso “ebreo” e corpo umano in generale tramite la torsione “innaturale”. La follia di sua madre sarà solo il punto di partenza per una più generale, profonda e continua riflessione su questa condizione di alterazione, che ben presto troverà per lei un senso concettuale e intellettuale nell’avvicinamento al movimento Surrealista. Ancora in Aveux non avenues si legge: “Ah ça je deviens fou! Et la Folie-ô bouche malate à l’haleine contagieuse qui m’a déchiré l’oreille – d’une voix monstreuse me souffle son doute empoisonné: – L’aliénation mentale est-elle subite ou graduelle? Je répète docilment: Et la Folie me regarde de ses yeux fixes./ Docilement… d’une compréhension de plus en plus atténuée. Je me surprise à dire:/ – L’aliénation cosciente est elle subite ou graduelle?”. (Cahun 2002, 195). La follia non è solo una possibile condizione anagrafica da subire, ma può essere trasformata in una posizione “costruita” e volontaria in cui porsi con coscienza, stando così su un limite ricercato. Ecco quindi la scelta di autoritrarsi come “mostro”, folle, alienato, “altro”. Si potrebbe dire ancora con Lucy “La folie n’est moins vaniteuse que la raison” (Cahun 2002, 201). E ancora: “Je me fait raser les cheveux, arracher les dents, les seins – tout ce qui gêne ou impaziente mon regard – l’estomac, les ovaires, le cerveau conscient et enkysté. Quand je n’aurai plus qu’une carte en main, qu’un battement de coeur à noter, mais la perfection, bien sûre je gagnerai la partie” (Cahun 2002, 215).
Un altro autoritratto (02), conservato al Musée d’Art Moderne di Parigi, datato ancora 1920, avvalora a mio parere l’ipotesi che uno degli elementi chiave dall’iconografia della Cahun parte dalla costruzione di una self-identity connessa in senso molto ampio alla rappresentazione dell’“alterità”. La foto mostra Claude di profilo, con le braccia conserte visibili solo però in minima parte, una giacca di velluto oversize con un grosso collo sciallato che racchiude il corpo gracile che si intuisce sotto. La testa ha capelli molto corti, con taglio maschile, una luce diretta colpisce il volto e di nuovo il profilo “ostenta” ancora il naso aquilino con la medesima bocca semiaperta, con gli angoli rivolti al basso, lo sguardo è fisso in avanti, ma con le palpebre leggermente scese. Quest’immagine appare davvero il controcanto della prima: Lucy copre con la giacca quell’anomalo corpo non per celarlo, ma semmai per evidenziarlo ancora di più e celebrarlo, per esporre la sua ri-figurazione. Data la lunghezza diversa dei capelli, ma la datazione allo stesso anno, questo autoritratto deve essere posteriore di poco rispetto al primo citato. La forma del naso, dà forma a un preciso contrasto mai sanato in famiglia: una nonna paterna molto orgogliosa della propria discendenza ebrea8, e una famiglia materna cattolica abbastanza dichiaratamente anti-semita. “Maman me nommait «mon petit crochon»! Elle me retroussait le bout de nez. Elle s’attristait de constater que, malgré tout, je n’avais pas le nez grec. Mes oreilles un petit peu décollées la désolait. C’est comme pour le nez « Il est petit; il serait tou à fait joli si…Elles seront parfaites tes oreilles, mon petit crochon, si tu veux bien… » Je la laissais faire. Elle me faisait porter un béguin…qui disparut avec elle” (Cahun, 2002, 618). In questi autoritratti del primo periodo Lucy/Claude racchiude tutte le sue peggiori paure, ma anche le sue stelle polari familiari che ridisegna però trasformandole da elemento esistenziale in elemento poetico e formale. Il formato delle immagini – che specie nella seconda è chiaramente ricavato da un negativo ben più grande – fa riferimento alla foto-ritratto già vicina alla foto da documento. Mi sembra interessante sottolineare il sottile lavoro di semiotica della forma: l’uso di un formato che evoca l’identificazione – quindi una visione imposta, istituzionale e coatta – utilizzato per autorappresentarsi come un “corpo estraneo”, per di più girato di spalle, non ben identificabile e liminale. Procedendo a ritroso dobbiamo subito dire che Claude Cahun, data la sua adesione al Surrealismo9, ha senza dubbio avuto occasione di vedere – e io ipotizzo anche a suo modo di partecipare – alla costante ricerca sviluppata a partire già dalle pagine de La Révolution surréaliste, e poi in Documents e in Minotaure intorno alle immagini in formato tessera. Una tavola del 1924, pubblicata sul n.1 de La Révolution surréaliste mostra al centro la foto segnaletica della giovane anarchica Germaine Berton – nota per aver assassinato il neo-monarchico Marius Plateau fondatore de l’Actione Française – contornata da 28 foto-tessera di uomini “sospetti” di Surrealismo, tra cui figurano anche Freud e Picasso. L’ultimo numero della medesima pubblicazione, nello stesso anno riporta un’altra tavola con al centro la riproduzione del dipinto di Magritte che rappresenta un nudo femminile, in una posa che evoca quella della Nascita di Venere di Botticelli, o comunque più genericamente della venus pudica – con l’iscrizione sopra la testa “je ne vois pas” e sotto i piedi “cachée dans la forêt”, con la parola “femme” sostituita dall’immagine femminile – contornata da 16 foto-ritratto di surrealisti, tutti con gli occhi chiusi, chiaro omaggio al pensiero automatico bretoniano.10 Nei due fotomontaggi, con due declinazioni diverse, si affronta un tema caro al movimento surrealista: l’adesione incondizionata agli atti e alla biografia di chiunque rompa le regole, che siano criminali, folli o qualsiasi altra forma di “devianza” o “alienazione”. La scelta dell’immagine identificativa ha in ambedue i casi un valore fortemente eversivo proprio per la contraddizione formale nella quale getta lo stereotipo della categorizzazione, consolidata e resa “scientifica” dalla nascita della fotografia. Si fa qui allusione a quel fenomeno, esploso con le Cartes de Visite di Disdèri, poi sviluppatosi nella foto-tessera, come possibile strumento di autorapprentazione, che spinge spesso i borghesi apparentemente più tradizionalisti, a divenire esibizionisti nel chiuso dello studio fotografico, fino alla diffusione dell’en travesti fuori della scena. Nel contesto quindi della piccola foto-ritratto si annidano almeno due diverse istanze che ci riavvicinano al mondo di Claude Cahun: la foto scientifica di identificazione (manicomiale, criminale e razziale poste sullo stesso piano); la possibilità dell’autodefinizione e autorappresentazione attraverso la messa in scena di sé. Nel 1930 nel n.4 di Documents Bataille pubblica il saggio Figure humaine che introduce un’intensa riflessione sul rapporto interno/esterno nella rappresentazione della figura umana e, da qui, sulla relazione con il concetto di bellezza e di devianza. Partendo dalla lettura delle tavole anatomiche settecentesche di Nicolas-François Regnault, viste dai due alla Bibliothèque Nationale de France, che illustrano le anomalie e le deformazioni anatomiche umane, si sviluppa l’osservazione della necessità della messa in scena “umana” anche nella raffigurazione delle peggiori mostruosità: per cui i due gemelli uniti per la testa, ad esempio, si atteggiano in una posa come di presentazione al pubblico che invoca pietà verso loro stessi; o l’uomo con i quattro arti atrofici sguaina una scimitarra e porta un bel turbante. Ciò che attrae e interessa Bataille è l’urgenza della “mise en scène” della diversità. Sul n.3-4 della rivista Minotaure, alla fine del 1933, accanto al testo di Salvador Dalì Le phénomène de l’extase, compare una pagina che raffigura una sorta di mosaico fotografico con ritratti di donne con gli occhi chiusi e le labbra socchiuse, in una posa appunto estatica, accompagnate da foto ravvicinate di diverse orecchie, – un po’ come le foto dei dettagli del corpo nelle vetrine-catalogo di Bertillon, costruiti a fini tassonomici e identificativi – e ancora delle riproduzioni di dettagli di opere d’arte con figure in estasi. Le immagini fanno chiaro riferimento all’iconografia nata intorno al fenomeno dell’isteria, “scoperta” da Charcot e da questi resa una vera e propria “arte” nel suo laboratorio all’asilo per alienate alla Salpêtrière a Parigi a inizio Ottocento. Lo storico Georges Didi-Huberman, nel suo illuminante saggio L’invention de l’hysterie, fin dall’inizio enuncia il meraviglioso e insieme terribile punto focale della sua ricerca: “J’interroge ce paradoxe d’atrocité: l’hysterie fut, a tous moments de son histoire, une douleur mise en contrainte d’être inventée, comme spectacle et comme image; elle allais jusqu’à s’inventer elle même (sa contrainte était son essente) lorsque faiblissait le talent des fabricateurs patentés de l’Hysterie” (Didi-Huberman 1982, 9). Vorrei qui far intendere come l’idea di scoperta funzioni in realtà come sistema di invenzione e costruzione dell’alterità – concetto chiave per capire ad esempio molta letteratura coloniale fondata sulla definizione di “razza” – perché, come scrive l’antropologo Mondher Kilani: “è per questo che a sostegno del dire fu sistematicamente invocato il vedere, che venne investito del compito di dire il vero” (Kilani 1997, 79).
Tornando alla Cahun, la follia della madre segnerà tutta la sua vita fondamentalmente perché manterrà un velo di mistero nel suo manifestarsi concretamente, tanto che da adulta Claude andrà a cercarla a Parigi nella presunta clinica per poterla finalmente vedere con i suoi occhi, ma scoprirà che è deceduta da anni. Ancora nelle sue “confessioni” scriverà: “(…) l’obsédante absence de ma mère, traitée en «alienée», consideré par i siens – par sa mère et sa soeur – come une honte qu’il convient de cacher au «monde», le merveilleux et consternant mystère de ce que les adultes nommaient ses «crises», le déchirement de lui être arraché, rendu pour en être, separé de nouveau…” (Cahun 2002, 585).Il mistero e il dolore di quella malattia Claude, lo ritroverà rappresentato in maniera pubblica in molta letteratura e arte che dall’inizio del secolo si interessa alle cosiddette “alienate”, divenendo a mio parere un altro elemento centrale dell’iconografia almeno dei suoi primi autoritratti fotografici e di una cospicua parte della sua scrittura. La figura ingombrante della madre, cancellata totalmente come immagine, per essere sublimata va prima reimpersonata, rimessa in scena, concretizzata usando quell’iconografia stereotipica già incontrata da bambina nel rifiuto e nella vergogna del perbenismo familiare, ma poi reincontrata a livello intellettuale nella rappresentazione pubblica della “diversità”. Non ho finora trovato nei documenti relativi alla Cahun dell’archivio di Jersey nessun preciso riferimento, in questi prima anni della sua formazione allo studio di Charcot, ma Leperlier cita una visita compiuta da Claude e Suzanne alle presentazioni dei malati alla Salpêtrière, intorno alla metà degli anni trenta, in compagnia di un loro amico tunisino, Néoclès Coutouzis, compagno di lotte nel Groupe Brunet, che in una sua lettera dice testualmente che il loro interesse non era medico, ma si rivolgeva a tutto quello che rappresentava filosoficamente e poeticamente lo stato di “alienazione”, e allo stesso tempo per la loro innata opposizione alla istituzione psichiatrica in sé e per sé (Leperlier 2006, 222). Inoltre Claude, tra il 1934 e il 1935 in compagnia di Michaux, Breton e Crevel, assiste all’ospedale Saint’Anne di Parigi alle lezioni dello psichiatra Gastone Ferdière (Leperlier 2006, 223), con il quale resterà in stretto contatto epistolare a lungo, e che poi assisterà Antonin Artaud nell’ospedale di Rodez nel 1944 sottoponendolo elettroshock. Possiamo immaginare quindi che Claude si sia comunque potuta avvicinare a quella che Didi-Huberman definisce l’immaginatio plastica (Didi-Huberman 1982, 13), che spinge Charcot non a “documentare/descrivere” ma a mettere in scena l’isteria, fino alla vera e propria invenzione della sua rappresentazione – che, nelle sue istanze più estreme vede la partecipazione “volontaria” delle stesse malate – fino alla sua trasformazione in conservatore del Musée de la Salpêtrière, vero e proprio tempio della “figurazione” della malattia. Riguardando i due autoritratti fotografici della Cahun vi si possono riconoscere certi caratteri dell’iconografia classica inventata per gli alienati: lo stesso cranio rasato, la bocca semiaperta, l’atteggiamento racchiuso in sé stessa – nell’immagine con la giacca in particolare – e l’aspetto al limite del terrificante – nell’immagine girata di spalle con lo sguardo inquietante gettato da sopra la spalla -. La Cahun mette in scena il fantasma “privato” della follia di sua madre usando però gli stilemi della rappresentazione stereotipica dell’“alienato” e del “deviato” per costruire una sua immagine pubblica di “diversità”. In un brano molto significativo di Aveux non avenues, l’artista racconta una sorta di infanticidio/suicidio di una madre e del figlio/a, nella quale si riassumono diversi caratteri interessanti: “- Avis : il a été tué dans le comune de Guerlande un enfant agé de trente…rrr…trois ans: Yves Claudanec . Rapporter l’assassin, 26, rue Saint-Antoine. On promet une récompense./ Cependant, sur la peau du tambur, comme sur la toile tendue d’une lanterne magique, je voyais s’inscrire trait par trait, s’effacer, reparaître, tous le soupçons des spectateur: les voyous notoires du pays, un oncle de l’enfant, heritier éventuel, enfin la mère elle même. L’image de celle-ci persista, disparaissant un istant pour venir recostituer la scène d’un egorgement imaginaire. Cette femme, ardente, irréligeuse et peu bavarde, passait pour folle dans le pays. Elle fixa le regard, les préventions.. Faute de prouves suffisantes d’innocence, elle fut incriminée incarecérée, tandis qu’elle répétait d’un ton monotone – comme une vache rumine – la tête vraiment perdue cette fois: – Oui c’est moi qui l’ai envoyé à la mort! Cette parole fut comptéè pour un aveu. Et la fille Claudenac marcha vers la guillotine comme pour un départ vers la Terre Promise, riant à travers ses larmes… – On a bien fait de la condamner, dit quelqu’un. Elle simule la folie. Qu’importe à cette femme de vivre? Elle simulait, certes, la foule avait raison” (Cahun 2002, 198). Nel finale appare esplicitamente l’idea della “simulazione” della follia che potrebbe apparire come una nota autobiografica ma anche di poetica: e come in una tragedia greca, il coro “ha ragione” della donna infanticida e rea confessa che va volontariamente a morte.
In un’altra fotografia meno nota, ancora del 1920, si vede Claude Cahun ripresa di fronte, a mezzo busto, indossa una canottiera – forse la stessa dell’altra foto – e si tiene le mani sulle orecchie, come nel gesto di non voler sentire. Gli occhi sono spalancati, la testa ancora rasata a zero. La luce bianca che colpisce in maniera diretta il suo volto lo rende come bidimensionale, e gli conferisce una fissità straniante. Da un lato il gesto sembra appunto quello quasi disperato di chi non vuole sentire, e ancora una volta ci fa pensare all’iconografia tipica delle “alienate” con le mani tra i capelli, o nel gesto autistico di isolarsi dal mondo; dall’altra però, quella strana luce che stacca la testa dalle spalle sembra conferire al volto la valenza di una maschera, introducendo un tema che sarà fondamentale sia nella scrittura che in molte sue immagini posteriori. Il gesto è al limite dell’inquietante e fa pensare a una sorta di manichino umanizzato che si “cambia” la testa, ponendosene un’altra sulle spalle. Nel 1930 Claude Cahun pubblica sulla rivista surrealista Bifur un autoritratto (03) con il cranio ancora rasato e completamente deformato, allungato a dismisura11. La testa contiene uno sguardo quasi spaurito, immerso nel nero, fa subito pensare a una frase che Claude scrive nel IV capitolo di Aveux Avenues facendo il ritratto di Auriga : “Des seins superflues; les dents irrégulieres, inefficaces, les yeux et les cheveux du ton le plus banale; des main assez fines, mais tordues, deformées. La tête ovale de l’esclave; la front trop haut…ou trop bas; un nez bien reussi dans son genre – un berne effreux; (…)”(Cahun 2006, 241) Oltre all’ennesimo riferimento al naso “ben riuscito nel suo genere” ma in realtà osceno, compare un’inaspettata definizione “la tête ovale de l’esclave” che fa avvicinare l’immagine di nuovo a una catalogazione “razziale”, a un’identificazione verso il “basso”, verso una categoria “bestiale”, tanto più se si nota che nell’immagine fotografica Claude sembra come chiusa in una sorta di leggera costrizione, con le braccia come legate. Ancora una volta l’immagine isola solo il busto, lascia che tutta l’identificazione possibile/impossibile, sospesa tra maschile e femminile, ma anche quasi tra umano e animale, tra attuale e primordiale, passi attraverso la forma della testa e l’espressione del volto. Un ulteriore ambito che è ancora oggetto delle mie ricerche sono i legami di Claude Cahun con quello che possiamo definire con James Clifford il “Surrealismo etnografico”(Clifford, 1988 ). Di certo la sua stretta relazione con Bataille, il suo legame con Documents, e quindi la sua conoscenza delle opere di Michel Leiris, fanno immaginare una certa vicinanza agli sviluppi del nascente pensiero etnografico in ambito Surrealista. A ciò si aggiunga che tale contesto costruisce un ponte ideale tra la trattazione dell’alterità in ambito coloniale e razziale – da non dimenticare che Claude fu una ferventissima attivista anti-imperialista – e quella in ambito appunto manicomiale e criminale. A mio parere occorre quindi sviluppare un rilettura dell’utilizzo della maschera nelle immagini della Cahun, ponendola appunto in relazione al Surrealismo Etnografico, partendo da una fotografia molto particolare nella quale le due teste di Claude e Suzanne appaiono da dietro una vetrina museale nella quale sono esposte delle maschere presumibilmente africane, fino ad apparire loro stesse come “reperti” in mostra. A ciò si aggiungano i chiari interessi d’ascendenza esotista e orientalista del suo primo periodo simbolista, ereditate in parte anche dal profondo legame con lo zio Marchel Shwob, noto scrittore, mai incontrato ma considerato come una sorta di stella polare della sua formazione.
Nel 1928 un autoritratto dal titolo “Que me veux-tu?” (04) mostra due teste di Claude, una di tre quarti, come intimorita, che sembra essere attaccata all’altra girata di spalle: una sorta di torso unico bicefalo. Il titolo far riferimento a una sorta di questione sospesa tra le due, manifestando un forte senso di estraneità, fino alla repulsa e al timore dell’una verso l’altra. Uno degli aspetti più interessanti delle riflessioni, sia figurative che letterarie della Cahun, è l’irriducibilità degli opposti: cioè il rifiuto di pensare in maniera dicotomica, oppositiva, e il tentativo di considerare non solo la contaminazione, ma anche il conflitto continuo, come elementi vitali. Le due figure giocano due ruoli diversi, ma si contengono a vicenda, si affrontano ma si uniscono alla base. “Vie, mort, sœur sans âge. Et pourtant, la cadette, c’est toi: tu ne pouvais exister sans ta fausse jumelle. Vous avez parti liée. Tu ne peux pas l’exterminer sans t’abolir” (Cahun 2006, 192).I due “opposti” sono in realtà sorelle gemelle, l’una non esiste se non attraverso lo sterminio dell’altra che però, rappresenta un’alterità sempre invertibile, e quindi porterebbe ad una sorta di suicidio. Il volto perplesso di Lucy chiede al profilo uncinato di Claude “che vuoi?” o forse “come mi vuoi?”. Ancora in Eveux non avenues si legge: “Amour?…Les amant trop hereux forment un couple pareil au monstre haermaphrodite ou ancore aux fréres siamois. Si l’on ne peut dénouer, il faut couper cet enchevêtrement gordien, ce noeud de serpents…” (Cahun 2002, 213). Si è molto parlato del legame della Cahun con lo psichiatra e filosofo Jacques Lacan – confermato dall’agenda privata di Claude e Suzanne che ne riporta con dovizia indirizzo e telefono, come si fa in genere almeno di un buon conoscente – che, come documenta Leperlier, è andato diverse volte in visita nella casa delle due donne a Parigi. La teoria della “fase dello specchio” di Lacan (Lacan 1966), come forma di definizione del sé già nella prima infanzia, si avvicina di molto alla visione di Lucy Schwob di una personalità che sdoppiandosi nella visione dell’alterità costruisce la cosiddetta imago del sé. Vorrei qui però anche riconnettere questa immagine all’adesione entusiasta della Cahun all’idea di “Narcisismo”, a mio parere, almeno nei primi anni venti, tratto dalle teorie di Havelock Ellis (Ellis 1966) il quale, partendo da un’analisi dettagliata dell’invenzione del termine in psicanalisi, passando per le teorie di Freud, arriva ad associare in maniera forte e precisa questo concetto all’omosessualità. Inoltre nel suo testo dedicato esplicitamente al tema Ellis fa continui riferimenti all’immagine speculare anche da un punto di vista letterario, citando come esempio significativo Oscar Wilde, uno degli autori cardine della formazione di Claude Cahun – ancora per la stretta relazione con Marcel Schwob – che tenterà persino di tradurre e che difenderà in un suo articolo appassionato già nel 1918, apparso su Le Mercure de France (Cahun 2002, 451), quando verrà attaccato per la sua pièce Salomé addirittura vietata in Inghilterra. Sarebbe a questo punto interessante riconnettere l’immagine speculare e il narcisismo a una ulteriore serie di autoritratti e di ritratti di Marcel che Claude realizza davanti allo specchio che, ancora una volta a mio parere, non fanno solo riferimento alla condizione di ambiguità e sdoppiamento di genere, ma attraversano in maniera molto profonda un filone concettuale che analizza il rapporto tra materia e forma, tra “realtà” e immagine, tra materialismo e astrazione, investendo anche le sue ricerche mistiche e legandosi ad un certo esoterismo laico, non a caso poi sviluppato fortemente in ambito surrealista. Credo in conclusione che, in particolare il corpus delle immagini fotografiche prodotte da Calude Cahun, debba ancora essere studiato rivalutando la miriade di connessioni con la vasta rete di intellettuali che a suo tempo l’hanno incontrata e influenzata, e che hanno tratto dalla sua intelligenza polimorfa molta ispirazione.
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1 L’accezione che mi sembra pregnante al riguardo fa riferimento a una certa letteratura legata alla visione della nuova Antropologia emersa dopo il Seminario di Santa Fé del 1984, che ha tracciato una serie di percorsi inediti per la ricerca sociale, aprendo la strada ad un nuovo concetto di soggettività, ai concetti di autorappresentazione e di negoziazione identitaria, che hanno poi condotto all’idea di self-identity nell’accezione specifica a cui intendo far riferimento. Si vedano in proposito i due saggi : Clifford J., Marcus G.E. (1986) Writing culture : Poetics and Politics of Ethnography, Berkley: University of California Press ; Marcus G.E., Fischer M.F. (1986) Anthropology as cultural critique: An experimental moment in the human sciences, Chicago: University of Chicago Press.2 Jersey sarà invasa dai Nazisti in quanto dominio Inglese. Le due donne inizieranno una loro singolare azione di reistenza, vestendosi da uomo e infiltrandosi tra le truppe di occupazione nemiche, allo scopo di far arivare loro dei messaggi, scritti in tedesco, che li ivita a disertare e a non proseguire nelle loro terribile impresa. Saranno arrestate, la loro casa in parte depredata con perdita notevole di materiali di lavoro, e poi condannate a morte. Solo l’arrivo degli alleati impedirà loro di essere fucilate. Del periodo della pigionia resta un’ampia documentazione, e un preziosissimo diario, nel Jersey Archive, nel Fondo Claude Cahun.
3 La partecipazione di Claude Cahun al movimento Surrealista è tutt’altro che marginale e si colloca in un contesto fortemente politicizzato. Nel 1932 aderisce, insieme alla compagna Suzanne, alla Association des Écrivains et Artistes Révolutionnaires per poi avvicinarsi al Groupe Brunet, formazione trosckista fortemente critica, con l’intento di facilitare una possibile collaborazione tra questi e i surrealisti. Si legherà in particolare ad Henri Michaux, allo stesso Breton e a René Crevel. Nel 1933 firma le dichiarazioni dell’AEAR Protestez e Contre le fascisme mais aussi contre l’impérialisme français. Conosce così Tristan Tzara, Salvador Dali e Man Ray. Nel 1934 pubblica Les paris sont ouverts, che genererà un fortissimo dibattito all’interno del movimento sul ruolo politico della cultura. Infine nel 1935 partecipa alla fondazione di Contre-Attaque e incontra Roger Caillois e Georges Bataille.
4 Vorrei citare il recente saggio monografico di Gen Doy che mi sembra esca per la prima volta in maniera decisa dalla tendenza a leggere il lavoro della Chaun solo nell’ambito degli studi di genere. Vedi Doy Gen (2007), Claude Cahun a sensual politics of photography, London/New York: I.B.Tauris.
5 Il termine « razziale » viene qui utilizzato in maniera chiaramennte critica, per indicare tutte le forme di costruzione a sfondo razzista elle identità : da quelle derivate dai primi studi antropologici, fino a quelli legati alla definizione di qualsiasi diversità (malati, supposti criminali comuni, omosessuali, perseguitati politici). La fotografia ha giocato un ruolo fondamentale nel creare una sorta di legittimazione scientifica all’invenzione dell’altro inteso già in partenza come potenziale nemico. La lista degli stdiosi che hanno contribuito al consolidamento di questo modello inquisitorio è davvero lunga, ma citiamo solo a titolo di riferimento : le ricerche di Francis Galton, con il suo testo del 1883 Inquires into Human Faculty an dits Development ; il lavoro sistematico e museale di Cesare Lombroso e di Alphonse Bertillon e la notissima Iconographie photographique de la Salpêtrière di J. Martin Charcot. Cfr : Gilardi, Ando (2003) Wanted, Milano: Bruno Mondadori; Muzzarelli, Federica (2003) Formato tessera. Storia, arte e idee in photomatic, Milano: Bruno Mondadori.
6 Mi sembra davvero molto rilevante che tutte le eroine di Claude Cahun parlino in prima persona, alla maniera degli antichi monologhi delle grandi figure femminili delle tragedie greche, ma anche a mio avviso per segnalare la presa di coscienza, il coinvolgimento fortemenete soggettivo rapportabile alla ferma volontà politica che caratterizza tutta la sua vita e la sua poetica.
7 Ritengo si debba dare un’attenzione molto più rilevante al legame tra alcune posizioni della Cahun e i testi dello psicologo Havelock Ellis, che per primo affronta la questione del riconoscimento di una sorta di «terzo sess». L’importanza che la Cahun attribuisce a questo studioso mi sembra testimoniata dal fatto che nel 1928 traduce in francese il suo Étude de psychologie sociale. L’hygiène sociale – I – La femme dans la société pubblicato da Mercure de France nel 1929.
8 Sulla più o meno voluta e cercata adesione all’«origine» ebraica di Lucy Schwob occorerebbe soffermarsi. Nei suoi testi Dio e la mistica vengono rivisti a tratti in in una chiave che farebbe azzardare una conoscenza dell’artista di talune teorie messianiche all’interno dell’ebraismo del tempo. Si potrebbero indagare le conoscenze che avrebbe potuto avere di alcuni testi del filosofo Walter Benjamin, data la sua stretta frequentazione in quegli anni della libraia francese Adrienne Monnier, che aiuterà il filosofo tedesco a scappare dai nazisti. In appoggio a questo mio argomento, in via di approfondimento nelle mie ricerche, vorrei citare una sola frase tratta da Aveux non avenues : « Moi, juive au point d’utiliser mes péchés à mon salut, de mettre en œuvre mes sous-produits, de me sorprendre continuellement, l’œil en crochet, au bord de ma propre poubelle ! » (Cahun 2002, 211).
9 Qui occorre aprire una parentesi sulla possibile collocazione di Claude all’interno della polemica nata in seno al Surrealismo tra Breton e l’ala «eretica» diciamo rappesentata fondamentalmente da Bataille. Perchè se da un lato la Cahun è stata legata da una fortissima amicizia con Breton, dall’altro appare evidente il legame teorico tra il suo lavoro e tutti i membri di Documents.
10 In proposito si veda : Lahuerta Juan J. (2004) El fenómeno del éxtasis, Madrid : Siruela.
11 Questa immagine viene spesso confrontata con la serie delle Distorsions di André Kertezs, ma a mio parere, al di là della vicinanza estetica, il lavoro della Chaun non ha molto a che vedere con questa serie perchè sviluppa un concetto, anche formale, legato ad una logica tutta interna agli autoritrati del primo periodo dell’artista francese.
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