Mi domandi:”Dove sei?” “Che cosa ne so, io?”
Rumi, Divan
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Favola del pesciolino nero (di Samad Behrangi)
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Ci sono dei luoghi, delle città, delle culture che s’indossano con più agio di altre. È quello che è successo fin dal primo contatto dell’artista Prisca Groh con l’Iran; è ciò che l’ha indotta a spostarsi fisicamente dal proprio luogo di origine a questo, provando a lasciare le abituali prospettive e trovare un nuovo punto di vista, srotolando il tappeto delle proprie mappe mentali, simboliche, culturali in corrispondenza dei luoghi del territorio che andava attraversando.
Prisca Groh: “Quando non parli una lingua, spesso senti oltre le parole… La cosa meravigliosa era che durante ogni soggiorno mi si offriva qualcosa di nuovo; non ero io a voler entrare ‘nell’essenza del posto’, ma era il posto stesso che mi si avvicinava”.
Il proposito era tutt’altro che facile; il rischio di cadere nella trappola di quell’Orientalismo tanto discusso da Said, per cui portarsi con sé significa colonizzare con la nostra presenza e cultura ogni passo del nostro viaggio, e per il quale conoscere posti nuovi corrisponde sempre più a negarne la differenza, è alto. Spesso questi posti vengono divorati dall’ordine che ci si porta dietro e ad essi non viene concesso di essere luoghi con cui interagire. È qui che l’artista Prisca Groh ha fatto la differenza, con la sua acuta sensibilità nei confronti delle persone e dei materiali che le si presentavano durante il suo percorso, e poi con un continuo autoesame metodologico e pratico, un instancabile sforzo perché le sue opere non prendessero forma da preconcetti dottrinali. “Ho dovuto combattere contro la paura. La paura di partire per l’Iran era quella di affrontare ciò che qui ci veniva presentato: un mondo definito incomprensibilmente fanatico e pericoloso. Sai, quando manchi per del tempo da una realtà, ti lasci ingannare facilmente dai media. Ma una volta superato questo ostacolo ho percorso il mio tragitto ascoltando timidamente la situazione”, ci dice l’artista. Questo è il valore aggiunto della sua pratica artistica: per Lévinas è l’arte magia del contemporaneo che sta nella capacità di vedere l’interiorità dall’esterno.
C’è, in tutto questo, un desiderio di conoscenza, scambio e condivisione con l’altro, un impulso ad avvicinarsi verso qualcosa ed a lasciare che questo qualcosa si avvicini a noi. Qualcosa da cui inizialmente ci lasciamo sedurre, qualcosa che improvvisamente, o con il tempo, ci viene addosso. È difficile inizialmente capire di cosa si tratta, riusciamo solo ad avvertire la sua forza dirompente, il vortice che ci attira a sé, coinvolgendoci o sconvolgendoci. In noi sentiamo uno stimolo che cresce, che prende il via e si mette in moto partendo da un suono, una voce, un odore, un’immagine.
Prisca Groh: “…sono nella seduzione del viaggio / nel desiderio di qualcosa / nel desiderio di qualcosa che sta davanti a me ma che non posso percepire ancora chiaramente”.
Silvia Calvarese: C’è un suono che arriva alle mie orecchie, sembra venir da lontano, arrivare incomprensibile da un angolo remoto. Eppure, che strano, sembra allo stesso tempo così vicino a me, quasi sia io ad emetterlo, ho la sensazione che provenga dalla mia anima e esca dalla mia bocca.
Provo a concentrarmi… Nel mio viaggio sono forse già arrivata a quel punto in cui non riesco più a distinguere il fuori dal dentro? Forse il fuori e il dentro non esistono più. Ho mescolato i confini, ho lasciato che differenti identità mi attraversassero, condividendo con loro me stessa.
Ascolto, gli altri, le altre, me stessa e… Guardo.
.Al suono si aggiunge un’immagine, anzi due immagini. Chi è la donna che appare? Sta occupando uno spazio ben preciso, anche la sua posa lo è. E lo spazio vuoto all’angolo opposto? Ti invita ad avvicinarti? Presuppone una presenza che per ora è assente? Ti rende desiderosa di cosa? Di capire le sue parole, di vedere il suo volto, di conoscere le sue paure, di arrivare al suo messaggio? Arriverai a capirne l’essenza, ciò che veramente è importante? O il desiderio più grande è nel viaggio, nell’avvicinamento, nel percorso che ti porta al suono, all’immagine, alla parola, allo spazio?
C’è solo un modo per farlo, ed è prendere il suo posto. Bisogna mettersi ‘nei panni dell’altro’, senza lasciare il proprio corpo. Solo in questo modo i confini si sovrappongono, si indossano e si sfaldano. Sento la voce, la mia voce, la sua, la nostra. Sento e sono. Chi? Le identità si mescolano, entrando l’una nel corpo dell’altra, mescolando voci e sensazioni. La donna sei tu? Hai occupato lo spazio abitabile, cercando la tua posizione di fronte al muro? Allora il tuo desiderio di essere è uno spazio vivibile, di condivisione, di comunicazione, di relazione, di conflitto, di storie da ascoltare e raccontare.
Ed ecco che alcune tracce si presentano, segni di qualcosa che c’è stato, forse c’è ancora o forse ci potrà essere. Segni di vita, di persone.
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Tracce / oggetti / luoghi / persone. Le scarpe lasciate a testimonianza di una vita vissuta, di una storia che c’è; strade deserte che portano verso qualcosa, che hanno visto passare milioni di persone durante lunghi secoli; gli sguardi da dietro la tenda, da dietro una porta, sul proprio paese; l’intimità degli interni, dei pasti sul tavolo, della stanza da letto, degli abiti lasciati all’interno. Immagini sparse in un itinerario frammentario che si compone attraverso le coincidenze fra le sue esigenze interiori, diventate parte del bagaglio culturale dell’artista, e gli imprevisti e il confronto o conflitto con il mondo incontrato. C’è un bisogno forte di entrare e sconfinare, sconfinarsi. Scarpe, veli, finestre, nodi. Ci raccontano molto di più di quello che ci mostrano, ci suggeriscono un percorso da condividere, da fare insieme.
C’è un tempo per l’immaginazione e un tempo per la concretezza. Non che l’immaginazione non sia concreta ma, a volte, quando si entra in contatto diretto con le esperienze di vita di qualcuno, cambia improvvisamente il punto di vista che avevi sul suo paese d’origine: quello che ti si era sedimentato nella mente non combacia più con quello che ti trovi di fronte, anche se ne riconosci dei fili o degli atteggiamenti emotivi. Allora capisci che c’è un luogo ideato, e c’è uno spazio del quotidiano. […] Improvvisamente quei pensieri, come degli areostati scoppiati, si rompono e cadono a terra. Tra i loro brandelli, tra il vento e la polvere dispersa, riconosci nuovi mondi, vedi altre possibilità di racconti e si ridisegnano altre trame riconoscitive1.
Memoires, le cui immagini, tra le altre, scorrono nella galleria sopra, è un progetto che raccoglie questi brandelli, tra la polvere dispersa, e fotografandoli, l’artista li rende protagonisti di una storia nuova. Prisca Groh: Ho percorso tutto l’Iran avendo in mano delle vecchie immagini fotografiche scattate da Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach, 70 anni fa. Durante questo viaggio ho cercato con l’aiuto di gente trovata per strada, gli stessi punti di vista e ri-fotografato le immagini.
Ma è qui la vera traduzione. Prisca ha davanti lo stesso paese, gli stessi luoghi e poi ha il punto di vista delle due donne su questi luoghi, testimoniato dalle fotografie. Ma il paese non è più lo stesso, quei luoghi immortalati dalle fotografie hanno visto anni di trasformazioni, hanno ora altre storie da raccontare; sono passati settant’anni, e gli occhi sono gli occhi di un’altra donna svizzera, con un’altra cultura. Ecco quindi immagini e storie nuove, tu guardi per loro, guardi con loro, guardi per te, (S)guardi. Si tratta di avvicinarsi ad una cultura differente, scoprire le tracce di differenti discorsi culturali, traducendoli e dando vita a nuove forme di significato, dove non si tratta più di parlare “per l’altro”, ma di impegnarsi continuamente in un gioco di posizioni che interessano me, l’altro e l’oggetto del discorso, incidendo reciprocamente e aprendo nuove finestre tra diversi saperi e linguaggi.
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