“The shadow archive”: il corpo razzializzato e la traccia fotografica
(Walter Benjamin, I «Passages» di Parigi).
(James Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 252)
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In questo senso non solo i musei, ma tutti quei dispositivi attraverso i quali, tra XIX e XX secolo, oggetti e corpi altri venivano tradotti, definiti, classificati, mostrati e posseduti (fatti propri) dall’Europa coloniale, funzionavano costruendo
“l’illusione della rappresentazione adeguata di un mondo, dapprima separando gli oggetti dai loro contesti specifici e facendoli stare «in luogo di» totalità astratte (…). Successivamente si elabora uno schema di classificazione per immagazzinare o esporre l’oggetto, in maniera tale che la realtà della collezione stessa, la coerenza del suo ordine, si sovrappongano alle storie specifiche di produzione e di appropriazione dell’oggetto. (…) Il mondo oggettivo è dato, non prodotto, e così i rapporti storici di potere insiti nel processo di acquisizione risultano occultati. La costruzione del significato nelle classificazioni e nelle esposizioni viene mistificata come rappresentazione adeguata. Il tempo e l’ordine della collezione cancellano il concreto lavoro sociale del suo farsi”4.
La terza dinamica ha a che fare con la relazione fra il mezzo fotografico e la borghesia industriale, che lo userà anche come strumento per la sperimentazione e la rappresentazione della propria identità. Il dispositivo fotografico consentì alla borghesia europea di rivolgere un nuovo sguardo verso se stessa, di sperimentare la propria identità e di appropriarsi del mondo attraverso le immagini fotografiche e il potere di rappresentare. Grazie alla semplificazione tecnologica e economica introdotta dalla carte de visite di Disdéri, e alla conseguente massificazione nell’uso del dispositivo fotografico, le fotografie diventarono collezionabili, uscirono dalla cornice e penetrarono lo spazio domestico del salotto borghese, dove iniziarono ad essere ordinate e conservate all’interno di album e di collezioni private, approfondendo così l’uso “affettivo” delle immagini fotografate inaugurato con i dagherrotipi. Inoltre, con lo svilupparsi massivo della ritrattistica in studio, la fotografia si configurò come un potente laboratorio di sperimentazione e moltiplicazione identitaria per una borghesia sempre più padrona di sé e del mondo, come racconta con acuta ironia Walter Benjamin nella sua Piccola storia della fotografia (1966):
“Era l’epoca in cui gli album fotografici cominciavano a riempirsi. Si trovavano particolarmente nei punti più squallidi delle abitazioni, sulle consolle e sui tavolini dei salotti: rilegature di cuoio con orrendi ornamenti in metallo, i fogli con un bordo d’oro largo un dito, su cui si esibivano personaggi buffamente drappeggiati o inguainati – lo zio Giuseppe e la zia Peppa, la Giuseppina quand’era piccola, il papà quando faceva il primo semestre universitario – e finalmente, a compir l’opera, noi in carne ed ossa: travestiti da tirolesi, intenti a vociare jodel, ad agitare il cappello verso ghiacciai dipinti, oppure vestiti alla marinara”9.
Il ritratto fotografico costruisce un campo di forze il quale genera a sua volta nel soggetto che si fa fotografare un atteggiamento di “posa”, di “autentica-inautenticità”, una disposizione a fabbricarsi un altro corpo, a trasformarsi anticipatamente in immagine. In questo senso il soggetto che si autorappresenta davanti all’obbiettivo fotografico non è “né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto”10. Non a caso Barthes, per indicare l’oggetto o il soggetto fotografato, usa il termine spectrum, intendendo sottolineare il forte legame della fotografia con una sorta di microesperienza della morte. Il termine spectrum condivide la sua radice latina con il termine speculum, che rimanda all’ambiguo statuto della fotografia come specchio della realtà ma anche come esperienza straniante del vedersi e del riconoscersi come altro da sé, come doppio11, ma ha anche la stessa radice di spectaculum, ed è proprio in questa condizione riflessiva e attiva di messa in mostra di sé, di alterazione di sé (cioè di scoperta e di sperimentazione di sé come alterità) che sta il senso del ritratto fotografico per il borghese del XIX secolo:
“la fotografia è l’avvento di me stesso come altro: un’astuta dissociazione della coscienza d’identità”12
La borghesia iniziò a rappresentarsi e, nella riflessività di questo atto, ad alterarsi, a sperimentare e interpretare la propria identità e il proprio corpo, a produrre una cosciente alter-azione del proprio sé incorporato (“noi in carne ed ossa”). L’impersonamento di molteplici identità diventò una modalità estremamente diffusa di costruzione della propria rappresentazione per la borghesia tra XIX e XX secolo, e non è un caso se, tra le performance messe in scena negli studi fotografici, una delle più diffuse era il travestitismo razziale, attraverso il quale la borghesia imperialista poteva esprimere i propri repressi “primitivi interiori”. Come non è un caso se negli stessi salotti, accanto alle raccolte di ritratti fotografici intimi e affettivi, iniziano a trovare posto collezioni di postcards e di cabinet cards che riproducevano per il pubblico di massa immagini souvenir dei figuranti nelle Esposizioni Universali o ritratti dei colonizzati realizzati nei territori di recente acquisizione. La produzione di massa di immagini di tipi etnografici attraverso questi più agili formati iniziò a circolare molto oltre l’ambito propriamente scientifico, risemantizzando lo sguardo medico/antropologico/criminale sulla differenza in una sorta di spettacolo di intrattenimento, che permetteva alla borghesia metropolitana di sperimentare la possibilità di avere accesso all’esperienza della differenza in modo rassicurante all’interno del proprio spazio domestico:
“postcards and stereoscopic photographs titillated them [white audiences] with intimations of sexual attraction between white woman and black or Native American men; images of costumed microcephalics, masquerading as examples of “backward” races, were grotesque parodies of positivist reasoning”13.
“Mal d’archivio”: l’arte contemporanea, il corpo, l’archivio
(Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 2005: p. 121).
La riflessione intorno al dispositivo archiviale portata avanti dall’artista statunitense Zoe Leonard nell’opera The Fae Richards Photo Archive (1993-96) si dispiega da un processo metodologico completamente differente, a partire cioè da una rilettura critica del dispositivo archiviale stesso, ottenuta attraverso la ripetizione estremamente realistica e sottilmente ironica dei suoi meccanismi e delle sue pratiche. L’artista, in collaborazione con il filmaker Cheryl Dunye, mette in scena lo stratagemma dell’archivio intorno a un personaggio finzionale, Fae Richards, una immaginaria attrice afroamericana di Hollywood, il cui straordinario talento pare essere stato dimenticato nel vortice oscuro dell’amnesia culturale americana, senza dubbio per il suo essere nera. Zoe Leonard costruisce una intera sceneggiatura e una messa in scena credibile della sua vita, attraverso 78 scatti fotografici che “documentano” la sua storia, dall’adolescenza a Philadelphia nei primi anni ’20 fino all’apice del suo successo negli anni ‘30 e ’40 in ruoli cinematografici stereotipati (come mamy, domestica, cantante e ballerina alla Josephine Baker, e infine nel ruolo che la portò al successo come “watermelon woman” nel film “Plantation Memory”), poi all’epoca dei diritti civili degli anni ’60, fino alle immagini più familiari di lei anziana nel 1973. Le immagini fotografiche sono costruite e trattate in modo tale da sembrare parte dell’archivio privato dei ricordi intimi di Fae: in molte fotografie sono con lei fratelli, amanti, amici; gli abiti e le ambientazioni sono progettati per corrispondere al periodo a cui si riferiscono, sottolineando il carattere etnografico di ogni dispositivo archiviale che, attraverso le modalità della sua costruzione, parla molto innanzitutto del periodo storico e culturale che lo ha prodotto. A ogni immagine corrisponde inoltre una didascalia stampata con caratteri vintage, spesso piena di errori ortografici e correzioni a penna. Notazioni scritte a mano a margine di alcune foto con gli angoli rovinati o stropicciate, o strappate e poi riattaccate, aggiungono ancor più autenticità a questo archivio dimenticato. Zoe Leonard chiede dunque all’osservatore di ricostruire, attraverso le immagini e le didascalie, la storia di Fae Richards, costringendolo a chiedersi perché Hollywood ha rimosso questa stella indiscussa dal suo firmamento (ci sono le fotografie a “testimoniare” il suo talento e il suo successo), ma soprattutto a fare i conti con i propri sensi di colpa per averla dimenticata, con le proprie intime motivazioni per questa rimozione. L’osservatore ricostruisce la storia privata e la carriera di una donna “fuori dagli schemi” (anche per via della sua omosessualità, alla quale si fa velatamente più volte riferimento nelle didascalie di alcune fotografie) che tuttavia non è mai riuscita a uscire da quegli schemi che la rinchiudevano nell’immagine stereotipata della “donna cocomero”, ricostruendo così anche lo scenario razzializzato dell’industria cinematografica hollywoodiana intorno agli anni ’30 e ’40 del Novecento, che fa parte del suo stesso bagaglio identitario. L’effetto di realtà, la ricerca e la ricostruzione accurata di una autenticità nell’archivio di Fae Richards, non sono altro che strategie tese a sostenere la credibilità della storia che viene raccontata, a patto di arrivare a leggere i credits finali, nei quali Zoe Leonard mostra all’osservatore l’elenco dei personaggi che hanno lavorato alla messa in scena, svelandone infine la natura finzionale. L’archivio ne emerge dunque come un dispositivo narrativo, inventivo, attivo non nella riproduzione di una storia o di una identità, bensì nella sua costruzione, attivo nel selezionare cosa ricordare (e come ricordarlo) tanto quanto nel mettere fuori scena, nello scartare ciò che non può o non deve essere ricordato, e che tuttavia resta presente nell’archivio stesso, invisibile rilievo del visibile, come traccia di un’assenza. L’archivio mostra, mette in scena porzioni di una storia, e nello stesso momento ne rimuove attivamente delle altre, svelandone tuttavia l’esistenza proprio nell’atto di nasconderle15.
In entrambi i lavori adotta il ritratto fotografico come luogo cruciale a partire dal quale costruire la propria contro-narrazione delle pratiche archiviali e affermare la contiguità tra gli immaginari legati alla fotografia tipologica del XIX e XX secolo e quelli legati agli archivi cinematografici, letterari, artistici e della cultura di massa. In Untitled l’artista ordina all’interno di una griglia 43 ritratti, alternando cornici rettangolari a ovali (ancorandosi alle due pratiche legate al ritratto fotografico, una strettamente identificativa, l’altra affettiva) e sovrapponendo una lastra di plexiglass trasparente che, oltre a rendere il gioco identificativo al quale le immagini invitano uno scivoloso tranello, porta incisi su di sé i titoli di alcuni film dell’industria culturale americana prodotti tra l’inizio del XX secolo e i tardi anni ’60. La visione stereotipata legata al corpo nero, quel processo di epidermizzazione di cui parla Fanon17, per il quale la “razza” è letteralmente incisa sulla pelle del soggetto nero, rimbalza così dagli immaginari della fotografia tipologica del XIX secolo a quelli dei primi film hollywoodiani, fino a quelli legati alla blaxploitation, che nel tentativo di criticare lo stereotipo (negativo) sul corpo nero non fanno altro che riprodurne un altro, seppure di segno opposto. In Study l’artista mette in campo una strategia simile, citando questa volta gli archivi della storia dell’arte, i titoli di famosi quadri che possono essere trovati nelle collezioni dei musei americani, che ritraggono il corpo maschile nero in modo stereotipato o feticizzato (Study of a Black Man, A Negro Prince, African Youth). Questo approccio punta così a rovesciare lo sguardo etnografico su se stesso, allo scopo di penetrare l’archivio dell’immaginazione americana sul corpo razzializzato (tanto riguardo la blackness quanto la whiteness), svelandone il radicamento nella fantasia e nel desiderio, facendo letteralmente bruciare il dispositivo archiviale nel suo stesso fuoco. Portando alla luce cioè quella passione che sta prima e alla radice di ogni archivio, quel mal d’archivio che rivela “l’impazienza assoluta di un desiderio di memoria”18.
*Immagine in home: Lorna Simpson, Untitled (Carmen Jones), 2001 (particolare). Gelatin silver prints under semitransparent Plexiglas with vinyl lettering. Diptych, 18.5 x 40 inches overall.
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