Discomfort
Il potere tra affetti e passioni tristi
di Elettra Stimilli

Gli affetti e le passioni sono da sempre connessi alla dimensione del potere. Facendo eco al felice titolo del libro di Judith Butler, potremmo dire che da sempre esiste una «vita psichica del potere». Ma oggi, in particolare, l’intima interconnessione tra la dimensione psichica individuale e quella politica e sociale è una questione su cui si dibatte molto. Il dibattito sul tema fa spesso riferimento a un testo di Freud degli inizi degli anni Trenta del secolo scorso, che costituisce un po’ il punto di partenza su questo argomento. Mi riferisco al Disagio della civiltà, in cui Freud in qualche modo sintetizza e porta alle estreme conseguenze il paradigma moderno del rapporto tra la dimensione psichica individuale e quella politica e sociale. In epoca moderna, quella a cui fa riferimento Freud in questo testo, la civiltà poneva come condizione il sacrificio delle pulsioni in cambio del quale mirava a fornire sicurezza, in particolare attraverso l’istituzione di norme legittimate dallo Stato. Il programma generale della civilizzazione messo in atto nella modernità implicava un controllo progressivo delle pulsioni e una loro crescente sottomissione a istanze volte a un controllo dominante che imponeva un «sacrificio» pulsionale, origine di stabilità e regolamentazione, ma spesso anche causa di infelicità e disagio.
È possibile individuare un analogo di questa situazione nel quadro freudiano classico dell’identità psichica. Per Freud, infatti, la psiche individuale è definita da una scissione tra l’ambito unitario e normativo dell’Io e quello delle pulsioni (Es). A questa struttura corrisponde un’analoga configurazione sociale, fondamentalmente costituita, da un lato, dall’istituzione giuridica dello Stato e, dall’altro, dalle spinte divergenti dei singoli. La stabilità, per Freud, è il risultato di un esercizio di tipo normativo in grado di mobilitare, allo tempo stesso, il campo psichico e quello sociale. Il dispositivo alla base di entrambi gli ambiti è quello della «colpa», una passione triste, potremmo dire utilizzando un’espressione di Spinoza, che in questo contesto viene utilizzata, insieme, come concetto psichico e giuridico.
Nelle riflessioni contenute in Totem e tabù sul passato arcaico della specie umana Freud aveva ipotizzato un’attitudine violenta delle pulsioni umane estranea ad altre specie, da cui deriverebbe l’atto fondativo del parricidio originario e il conseguente senso di colpa. Nel Disagio della civiltà egli riprende questo percorso dal punto di vista del processo di civilizzazione e si chiede «che mezzi usa la civiltà per frenare la spinta aggressiva che le si oppone, per renderla innocua, magari per abolirla» (Freud, 1978: 258).

L’aggressività – scrive Freud in risposta alla sua stessa domanda – viene introiettata, interiorizzata, propriamente viene rimandata là donde è venuta, ossia è volta contro il proprio Io. Qui viene assunta da una parte dell’Io, che si contrappone come Super-io rimanente, ed ora come “coscienza” è pronta a dimostrare contro l’Io la stessa inesorabile aggressività che l’Io avrebbe volentieri soddisfatto contro altri individui estranei. Chiamiamo senso di colpa la tensione tra il rigido Super-io e l’Io ad esso soggetto; tale senso si manifesta come bisogno di punizione. La civiltà domina dovunque il pericoloso senso di aggressione dell’individuo infiacchendolo e facendolo sorvegliare da un’istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata (259).

In questo contesto Freud, sulla base del modello statuale moderno, individua il ruolo delle istituzioni politiche, come lo Stato, nel vantaggio che esse rappresentano sul piano della vita collettiva, nonostante il prezzo che per esse viene pagato. «L’ordine» scrive Freud «è una sorta di coazione a ripetere, che decide, mediante una norma stabilita una volta per tutte, quando, dove, e come, una cosa debba essere fatta, in modo da evitare esitazione e indugio in tutti i casi simili tra loro. I benefici dell’ordine sono incontestabili» (229). «Il risultato finale» del processo di incivilimento dovrebbe dunque essere «lo stabilirsi di un diritto al quale tutti […] hanno contribuito col loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno […] alla mercé della forza bruta» (231).
E tuttavia non mancano i segni di una disfunzione interna a questo sviluppo. Il senso di colpa all’origine del meccanismo della nevrosi, a cui Freud ha dedicato tanta attenzione nei suoi studi, è la dimostrazione di ciò che minaccia dall’interno «quel po’ di felicità concessa all’uomo civile» (223).
Sulla base di questa premessa, vale la pena chiedersi se, come sembra ad un primo sguardo, sia possibile inscrivere il nesso tra debito e colpa, emerso recentemente a proposito dell’indebitamento pubblico di alcuni Stati dell’unione Europea, in una dimensione del potere in cui l’istituzione della norma sia esclusivamente fondata sulla disciplina, sulla repressione e sul conseguente senso di colpa che ha segnato, in passato, la coscienza di infinite generazioni manifestandosi nella forma patologica della nevrosi o dell’isteria, secondo la versione femminile studiata da Freud. Il fatto che vengano prospettati «sacrifici» in grado di ripagare il debito contratto, che viene presentato come una «colpa», indurrebbe a collocare l’ambivalenza semantica tra i due nell’ambito di una forma univocamente punitiva, repressiva del potere, che prende la forma di istituzioni in grado di arginare l’attitudine caotica e aggressiva che caratterizzerebbe le pulsioni umane. In questo caso, anche il mercato si inscriverebbe in quel genere di istituzioni simili allo stato, le cui regole tiranneggiano le vite individuali e quelle della collettività, inducendo a modalità esclusivamente coercitive di disciplina. Che una forma di repressione sia in atto non è in dubbio. Questo, però, non deve indurre a semplificare la complessità del fenomeno a cui stiamo assistendo. L’enorme trasformazione avvenuta negli ultimi trenta-trentacinque anni nei modi capitalistici di produzione richiede, infatti, una riflessione più ampia, che tenga conto dei mutamenti a cui sono state sottoposte le forme di potere nel momento in cui la politica ha cominciato ad adeguarsi ai cambiamenti avvenuti nel mondo economico.
Nelle società contemporanee dominate dal mercato globale l’istituzione della norma è un fenomeno complesso, non più semplicemente fondato, come era per lo più accaduto in passato, sull’esperienza della repressione e sul senso di colpa causato da regole infrante. La norma, piuttosto, è oggi concomitante alle capacità d’iniziativa, all’autonomia nelle decisioni e nell’azione, alle pratiche di amministrazione, di investimento, di cura e di relazione finalizzate alla soddisfazione di desideri e non solo alla loro repressione. Non è un caso che il discorso neoliberista si sia sviluppato dall’idea che il «libero mercato» implichi di per sé la creazione di un’istituzione che, al tempo stesso, si presenta come un dominio pubblico e una sfera pratica di autonomia dei singoli.
In questo contesto anche le forme di disagio sono mutate. In uno degli studi più lungimiranti sul tema degli ultimi anni, Alain Ehrenberg motiva il predominio della depressione sulla nevrosi, che si è verificato dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, come l’effetto di un mutato rapporto con le norme e le istituzioni e come una reazione all’emergenza della figura dell’imprenditore come «modello di portata collettiva».

La depressione – scrive Ehrenberg ne La fatica di essere se stessi – si assicura il “successo” nel momento in cui il modello disciplinare di gestione dei comportamenti, ossia le regole di autorità e di conformità ai divieti che finora hanno orientato la storia delle classi sociali così come quelle dei due sessi, devono far posto a norme che stimolano ciascuno all’iniziativa individuale, sollecitandolo a diventare se stesso. In virtù di questa nuova normatività, l’intera responsabilità delle nostre vite non solo compete al singolo-che-è-in-noi ma coinvolge in egual misura il tra-noi-collettivo (Ehrenberg, 1999: 4).
La depressione si rivela così il «laboratorio delle ambivalenze» che caratterizzano una società improntata da un nuovo tipo di sovranità, da un nuovo tipo di istituzione normativa. «La depressione» secondo Ehrenberg «ci illumina sulla nostra attuale esperienza della persona, poiché essa è la patologia di una società in cui la norma non è più fondata sulla colpa e la disciplina […]. L’individuo è messo a confronto più con una patologia dell’insufficienza che con una malattia della colpa, più con l’universo della disfunzione che con quello della legge» (10). Le categorie alla base di questo «spostamento d’accento» non sono più «il permesso e il vietato» ma «il possibile e l’impossibile» (10). Ciò implica un’erosione del «riferimento al conflitto» (12), su cui si è modellato il paradigma moderno, a cui si rifà Freud.
Dalla sfera politica alla sfera individuale la conflittualità come dispositivo di inclusione escludente è «il nucleo normativo» (12) della modernità. La depressione è allora, per Ehrenberg, il sintomo di una «transizione storica dall’uomo conflittuale, preda della nevrosi, all’uomo fusionale, a caccia di continue sensazioni che gli facciano dimenticare la sua perenne inquietudine» (284). Ma, come egli aggiunge, «col vangelo dell’espansione di sé in una mano e del culto della performance nell’altra, il conflitto non scompare, se mai è meno evidente» (285).

Il punto allora sta nel comprendere dove si situa oggi il conflitto e quale può essere il suo ruolo. Per comprendere questo va innanzi tutto tenuto conto del fatto che il neoliberismo è una forma di governo che si pratica con l’autogoverno, implica strutture istituzionali di tipo amministrativo e una razionalità politica dotata di meccanismi diversi rispetto a quelli in atto nelle società moderne.

Per affrontare questo nuovo intreccio tra ambito psichico e ambito sociale in gioco nelle politiche neoliberiste ancora dominanti sul piano mondiale può essere utile, credo, tornare all’analisi di Butler che citavo all’inizio del mio discorso.

Sentirci dominati da un potere esterno a noi è forse una delle esperienze più dolorose, ma anche più comuni. Meno comune, invece, è prendere atto del fatto che ciò che noi stessi siamo – ossia che il nostro costituirci come soggetti – intrattiene una relazione molto stretta proprio con quel potere. Siamo soliti, infatti, concettualizzare il potere come ciò che si impone a noi dall’esterno, come qualcosa che ci sovrasta […]. Tuttavia, seguendo Michel Foucault, è possibile comprendere che il potere costituisce il soggetto, determinando le condizioni stesse della sua esistenza e le traiettorie del suo desiderio: ne consegue dunque che il potere non è più, o non solo, ciò a cui ci contrapponiamo, ma anche, in senso forte, ciò da cui dipende il nostro esistere e ciò che accogliamo e custodiamo nel nostro essere (Butler, 2013: 41).

L’intento di Butler è quello di mettere in discussione il presupposto dualismo di un soggetto assolutamente attivo e di uno assoggettato e passivo nell’esercizio del potere. Il soggetto e il potere piuttosto sono implicati in quanto frutto di una relazione che li comprende e li produce entrambi, come del resto anche gli studi sulla biopolitica successivi a Foucault hanno sostenuto. In questo senso, però, risulta chiaro come il soggetto non sia solo il prodotto del potere, ma dipenda anche da esso in maniera persino involontaria. Tanto che si può dire che un’obbedienza preventiva sia all’origine della stessa libertà o che, comunque, le due esperienze risultino originariamente non contrapposte, bensì connesse. Ciò implica delle conseguenze importanti per il presente.

Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a nuovo implicito accordo fra i singoli e le istituzioni: gli individui hanno accettato di partecipare agli apparati produttivi e finanziari come «risorse umane» e «capitale umano» sulla base del fatto che potevano disporre di una libertà virtualmente illimitata. Il capitalismo ha così sempre più mirato a inscriversi nelle relazioni sociali e nei desideri soggettivi attraverso un’esaltazione della libertà, che di fatto ha trovato la sua maggiore forma di espressione nella pratica del consumo. La continua autoriproduzione di desideri, appiattiti su forme inquietanti di godimento per ciò che sembrava si potesse ottenere facilmente, ha finito per confinare il piacere in modalità autolesionistiche di consumo. Penso alle nuove forme di disagio delle società contemporanee, come le anoressie, le bulimie, le tossicodipendenze; ma penso anche ai numerosi esempi di dipendenze da consumo, di recente definite con l’espressione – forse non troppo elegante, ma in qualche modo efficace – «gadgettizzazione dell’esistenza».

Per analizzare questo fenomeno è stato spesso utilizzato, di recente, il testo di una conferenza che Jacques Lacan ha tenuto presso l’Università Statale di Milano nel 1972 e in cui ha elaborato il cosiddetto «discorso del capitalista». In questo discorso Lacan espone la nuova configurazione che il regime capitalista assume nella sua fase ipermoderna, diverso rispetto a quello della sua affermazione storica. Da un lato, il discorso del capitalista è il discorso del «consumatore» per antonomasia, dell’homo felix, di chi si sente padrone di godere di ciò che può liberamente acquistare. Dall’altro, però, è anche il discorso di una soggettività smarrita. La condizione prodotta è infatti quella di una ebbrezza perversa, che disorienta, perché proviene da modalità in cui piacere e dolore sono coimplicati.
Nelle recenti analisi delle forme di disagio della civiltà ipermoderna si è spesso teso a dare maggior risalto alla componente sadico-narcisistica che le caratterizza, fondamentalmente connessa al godimento autistico da cui appaiono dominate (Recalcati, 2010: 33-35; e Recalcati in Borrelli, De Carolis, Napolitano e Recalcati, 2013: 11-13). La causa principale di questo fenomeno viene individuata nel cedimento della funzione orientativa della «Legge del Padre» (Recalcati, 2010), di cui, a tratti, si avverte persino la nostalgia sul piano etico e politico in forme anche inquietanti (Godani, 2014), non essendo in grado di elaborare i suoi risvolti patriarcali. In esse, tuttavia, è presente anche una componente masochistica che, a mio modo di vedere, dovrebbe essere maggiormente approfondita, indipendentemente dal suo impasto con elementi sadici o narcisistici.
La libertà virtualmente illimitata alla base del nuovo implicito patto istituito tra i singoli e le istituzioni, nelle società contemporanee, si costituisce prima ancora che come libertà di godimento, «che si vuole priva di debito» (Recalcati in Borrelli, De Carolis, Napolitano e Recalcati, 2013: 13), come tentativo ripetuto di confrontarsi con la frustrazione di non sentirsi mai all’altezza della situazione. Una costante autocritica è così all’origine di un senso di colpa, che non proviene dall’infrazione di norme castranti, ma da una mancanza che appare incolmabile e, quindi, indebitante, visto che induce a forme ossessive di consumo volte a compensare la convinzione di non essere adeguati a quanto richiesto.
Ma se il potere, come sostiene Butler, ha una sua vita psichica e se, d’altra parte, ogni vita umana non può che prendere forma attraverso la complessa dinamica dei rapporti di forza da cui sorge, nuove modalità di potere possono ancora essere praticate proprio a partire da differenti modi in grado di trarre alimento dalla stessa materialità delle singole vite.

Acconsentire a condizioni di potere che non sono frutto di un accordo esplicito, ma rispetto alle quali si è vulnerabili e alle quali si è indissolubilmente legati per la propria esistenza, somiglia a una mediocre operazione d’assoggettamento alla base della formazione del soggetto. Il processo di “acquisizione” del potere, tuttavia, non è così semplice poiché esso non è riprodotto in maniera meccanica quando viene acquisito. Al contrario, in quell’istante il potere può anche tranquillamente assumere una forma diversa, o imboccare una diversa direzione (Butler, 2013: 58).

Credo che i tempi siano maturi perché si possa scommettere seriamente su questa «possibilità», anche nella consapevolezza che l’assoggettamento attuato dal potere economico non è solo un potere coercitivo, ma ha una sua specifica «vita psichica» che forse è quella più pericolosa, perché più difficilmente individuabile nei suoi risvolti conflittuali, ma potenzialmente più esplosiva, se colta in tutta la sua potenzialità liberatoria.

L’attività psichica della norma – secondo Butler – concede al potere regolatore un cammino più tortuoso della coercizione esplicita, cammino la cui fama consente la tacita attività del potere nella vita sociale. In quanto psichica, inoltre, la norma non ristabilisce soltanto il potere sociale, ma diviene essa stessa formativa e vulnerabile in una maniera molto specifica (Butler, 2013: 59).
Se il potere non è solo ciò che reprime il soggetto, che lo domina e a cui questo si oppone, ma è anche ciò che gli dà vita e lo porta all’esistenza, oggi più che mai modalità non esclusivamente repressive vengono in primo piano attraverso il diffuso utilizzo sul piano economico e sociale di capacità creative, la cui valorizzazione si fonda su un’autocritica costante che le impoverisce neutralizzandone le potenzialità. Ma che il soggetto sia, ad un tempo, condizione e strumento dell’agire, implica anche la possibilità di una vulnerabilità implicita dello stesso processo di normazione, di una critica costante, in grado di sperimentare differenti forme di potere, nuove pratiche di cooperazione sociale e un nuovo rapporto con il mondo e con le cose. Implica cioè, ad esempio, la possibilità di riconoscere, persino con una certa spregiudicatezza (Coccia, 2014), che oltre al fenomeno pervasivo e onnipresente dell’economia del consumo e dell’economia del debito, esistono fatti sorretti dalla possibilità di una serena ricerca di beni, specifici e comuni. Si tratta allora di trovare nuove energie per ciò che ci è già dato, nel tentativo di produrre un rivolgimento in grado di azionare inedite forme di assunzione del potere. Vale la pena misurarsi con questa che appare come una sfida, anche se il cammino in questa direzione sembra lungo, tortuoso e particolarmente complesso, vista la stessa opacità dei meccanismi che si potrebbe aspirare ad azionare in maniera differente.

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Questo testo è tratto dall’intervento nell’ambito di Sensibile Comune, le opere vive 14-22 gennaio 2017, Galleria Nazionale d’ Arte Moderna e Contemporanea – Roma, a cura di Ilaria Bussoni, Nicolas Martino, Cesare Pietroiusti.

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Immagine in homepage di ©Carolina Farina

 

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Bibliografia

Borrelli F., De Carolis M., Napolitano F. e Recalcati M., Nuovi disagi nella civiltà. Un dialogo a quattro voci, Einaudi, Torino 2013.
Butler J., La vita psichica del potere. Teorie del soggetto, a cura di F. Zappino, Meltemi, Milano 2013.
Ehrenberg A., La fatica di essere se stessi, Einaudi, Torino 1999.
Freud S., Il disagio della civiltà, in Opere, vol. 10, Boringhieri, Torino 1978.
Godani P., Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo, DeriveApprodi, Roma 2014.
Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.

Elettra Stimilli insegna Filosofia Teoretica alla Sapienza Università di Roma. Tra i suoi libri: The Debt of the Living. Ascesis and Capitalism (Suny Press, 2017); Debito e colpa (Ediesse, 2015); Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet, 2011); Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico, Morcelliana, Brescia 2004. Di questo autore ha tradotto e curato l’edizione della maggior parte di opere pubblicate in italiano. Tra queste: Il prezzo del messianesimo. Una revisione critica delle tesi di Gershom Scholem (Quodlibet, 2017), di cui ha curato anche l’edizione tedesca (K&N, Würzburg 2006). Con Dario Gentili e Mauro Ponzi ha curato Il culto del capitale (Quodlibet, 2014) e insieme a Dario Gentili, Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti (DeriveAppprodi 2015).