Italianità
2011: riflettendo sull’italianità (dentro, ma soprattutto fuori, della videoarte nazionale)
di Raffaele Gavarro

Sarei qui per parlarvi di videoarte e in particolare di quella italiana e dell’italianità che la caratterizza sin dagli esordi, quelli dei pionieri Luciano Giaccari e Alberto Grifi, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, e poi di Lola Bonora con il suo primo centro di documentazione sulla videoarte fondato a Ferrara nel 1972; per arrivare all’oggi e all’italianità attuale, cercando di individuarne i caratteri nel lavoro ad esempio di Studio Azzurro, o in quello di Francesco Vezzoli, o ancora di Zimmerfrei, Marinella Senatore e via così. A parte la difficoltà dell’impresa, la verità è che non resisto alla tentazione di parlarvi soprattutto dell’argomento che come si dice fa da sfondo, che è appunto quello dell’italianità e dell’identità che ci caratterizza. Del resto siamo ancora nell’anno della commemorazione della nostra Unità, e allo spirito di questo evento cercherò di dare un piccolo contributo di senso. Ovviamente non sono che l’ultimo, e certo non solo in senso cronologico, di una lunga, lunghissima schiera d’illustrissimi intellettuali, artisti, scrittori e poeti che alla penisola e al suo popolo hanno dedicato parole e riflessioni che spesso e volentieri sono diventate definizioni tout court del belpaese. Sono certo, ad esempio che tutti ricorderete perfettamente la terzina: ‹‹Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave senza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello››. Siamo nel canto VI del Purgatorio e il poeta è folgorante e come i grandi poeti senza dubbio e purtroppo un preveggente. Vista la forza emblematica della citazione, possiamo lasciarla come unica perla di un repertorio per la verità molto ampio e che, se avete desiderio, potete trovare senza alcuna difficoltà in rete. Certo la terzina di Dante non dice molto del nostro carattere italico. Parla certo di uno stato politico e di una condizione storica, anche se volendo e insistendo se ne ricava anche un aspetto tipologico della nostra identità. Ma a questo proposito, e cioè della necessità di definire il carattere di un popolo, vorrei sfatare la falsa idea che siamo gli unici, intendo noi italiani, a ragionarne. Lo fanno e lo hanno fatto ad esempio i tedeschi, gli inglesi e i francesi, intendo di se stessi, quanto se non più di noi. Forse la differenza è che loro sono arrivati più facilmente a definizioni comuni, basate su una condivisione culturale e sociale, resa possibile da un evidentemente diverso sviluppo storico. Come per molte cose arrivare ad una soluzione, in questo caso una definizione condivisa, è invece per noi quasi impossibile. Parliamo ad esempio dell’ironia e della comicità. Non è raro sentire accordare a quest’aspetto buona parte, secondo alcuni la migliore, dell’identità italiana. In letteratura, arti visive, cinema e ultimamente anche in politica, questa condizione viene spesso citata come l’aspetto tipico del nostro essere e non a caso il risultato migliore della nostra produzione culturale. Le citazioni a questo proposito vanno dalla commedia dell’arte alla commedia all’italiana, dagli spaghetti western a Dario Fo, da Flaiano a Cattelan, per non parlare della naturale comicità che è patrimonio dell’intera popolazione del Sud. Non nascondo che c’è molto di vero in questa individuazione, com’è però altrettanto evidente la sua parzialità. È proprio questo che non funziona di certe considerazioni. Nel senso che pur ammettendo una storia sociale, politica, culturale, antica e recente, fatta soprattutto di differenze e di localismi, non si capisce perché una volta che s’individua un aspetto che in effetti aggancia delle condizioni esistenti, queste devono diventare universali e raccogliere sotto il suo ombrello tutto un popolo che raccolto non lo è stato mai a causa delle citate specificità. Ultimamente quando il nostro ex primo ministro si distingueva diciamo per un certo spirito guascone e un comportamento sopra le righe dentro e fuori il nostro paese, alcuni italiani hanno detto che in effetti quello era proprio il nostro spirito e che nel Cavaliere gli italiani avevano trovato il proprio campione. Sono stati gli stranieri, che straniti, hanno detto che no, in effetti loro gli italiani li vedevano ben diversi o comunque che ce n’erano di vario genere e che se pensavano ad altre figure pubbliche del nostro paese, i conti non tornavano. Forse dovremmo far fare a loro anche questa cosa del dire come siamo.

Tanto per tornare solo un attimo sull’argomento videoarte, personalmente se dovessi citare video di artisti italiani che si caratterizzano per ironia e comicità, mi troverei in una certa difficoltà. Il primo che mi viene in mente è un altoatesino, Michael Fliri, che appunto già dal nome non è italianissimo, e che ha fatto qualche video, come Nice and Nicely done, piuttosto ironico e divertente. C’è anche Lorenzo Scotto di Luzio e forse qualcun altro che adesso mi sfugge, ma insomma questi dell’ironia e della comicità non appaiono certo come i caratteri forti del video italiano. Può anche darsi che la videoarte non abbia assunto aspetti specifici del carattere nazionale. Anche se è più probabile che quelli appunto siano solo una parte degli aspetti del nostro carattere e non la tipicità generale. Ma se è così difficile trovare una formula generale sotto la quale incasellare la nostra natura, non sarebbe meglio lasciar stare? In fondo che cosa ce ne viene in più nel riuscire a raccogliere sotto un’unica etichetta gli specifici milanesi, romani, toscani, ecc., per non parlare a questo punto dei nuovi italiani, immigrati di seconda e terza generazione, asiatici e africani che parlano i nostri dialetti meglio di noi, e che per molti versi si sentono più italiani di molti italiani? Sinceramente non saprei, e mi sono fatto l’idea che riflessioni di questo tipo sono veri e propri retaggi novecenteschi. Ma poi penso che potrebbero essere anche prodromi di un ritorno a un’idea di nazione che per la verità appariva superata, ma forse non lo è del tutto. Mai fidarsi totalmente delle promesse sul futuro che ogni tanto ci fa la storia. Spesso sono viziate da un eccesso di sicurezza. In ogni caso, tanto per contraddirmi il giusto, anch’io ho una mia idea sul nostro carattere me la sono fatta. Anche se in effetti non è proprio corretto dire che sia sul nostro carattere. Piuttosto dovrei dire che è sui modi con cui abbiamo gioco forza vissuto la nostra storia e dato vita al nostro presente e certo anche al nostro futuro. Lascio poi a voi valutare se questa è una connotazione identitaria. Dunque, per farla breve, la mia idea è che noi italiani, soprattutto prima di essere finiti tutti sotto la stessa bandiera, abbiamo incarnato lo spirito ante litteram di una modernità successiva, come si dice più neo che post. Quella che abbiamo in altri termini vissuto proprio in questi ultimi trent’anni. Una condizione che naturalmente ci siamo portati dietro anche lungo i centocinquanta anni della nostra storia insieme e che in questa fase ci ha creato più di qualche problema. Se guardiamo alla nostra storia appare chiaro che gli abitanti della penisola prima dell’Unità erano già del tutto liquidi, fortemente individualistici, glocalizzati e perfettamente connessi tra loro e con il mondo conosciuto grazie ad una lingua in continuo slittamento, sovrapposizione e plastica mutabilità, disponibile all’assunzione di fonemi e modalità espressive importate o imposte. La nostra lingua era un perfetto connecting mode che ci ha consentito di relazionarci con il mondo e di averne tutti i vantaggi del caso. Una condizione di liquidità, esattamente nel senso espresso da Zygmunt Bauman, che ci ha permesso sempre di prendere la forma del contenitore in cui finivamo e che non secondariamente ha prodotto una serie di formidabili contraddizioni. Se solo si riflette su quella stridente tra la vocazione esplorativa e commerciale e quella della chiusura nelle mura cittadine, se ne capisce la misura. Ma sono queste stesse vocazioni, la liquidità e la necessità di essere glocali, oltre che ad un individualismo alle volte selvaggio, che paradossalmente sono diventati i nostri stessi limiti. La destrutturazione che hanno indotto, ha infatti rappresentato un problema quando la storia ha corrisposto ad altre necessità. La forma e le regole di uno stato che andasse oltre le mura della propria città, ad esempio, non è stata cosa semplice da accettare. Non lo è ancora oggi. E se la modernità è passata per quella via, la nostra liquidità neomoderna ci ha impedito di solidificarci in quel nuovo status, creando dei ritardi clamorosi. Per aggiungere poi, che quando è arrivata l’epoca della liquidità vera e propria, noi che ne detenevamo la tradizione non ne abbiamo avuto alcun giovamento. Questo perché i ritardi che andavamo accumulando ci hanno impedito di dare forma ad un contenitore in cui versare la nostra stessa liquidità, così come di fatto è accaduto nel resto d’Europa, tanto per restare nella nostra area di competenza. Come dicevo, da tutto ciò non saprei dire se possono essere desunti caratteri nazionali. Direi che sono stati e sono una condizione all’interno della quale ci siamo formati. Forse in questo senso più che un carattere, questi sono gli elementi che hanno fecondato e alimentato la nostra diversità, intendo quella tra noi stessi, che forse rimane l’elemento più evidente della nostra realtà nazionale. Soprattutto non saprei dire se tutto ciò induce ad una specificità italiana dell’arte attuale. Dipende naturalmente da quale punto di vista interroghiamo l’arte e soprattutto di quale aspettativa abbiamo nei suoi riguardi. Ma questo è un altro discorso, buono per un’altra occasione.

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L’articolo è stato pubblicato nel seguente volume: Singolarità mobili che abitano uno spazio nomade. Identità italiane in video a cura di Collettivo Curatoriale Gruntumolano, Master per Curatore Museale e di Eventi Performativi. Editoria & Spettacolo (2012), Spoleto (PG), in occasione della mostra Singolarità mobili che abitai uno spazio nomade. Identità italiane in video, Casa dei Teatri, Roma, 1 febbraio – 11 marzo 2012.

 

 

Raffaele Gavarro è critico, scrittore d’arte e curatore. È stato direttore artistico di fiere d’arte a Roma (2009) e a Venezia (2006-2007) e del Festival Internazionale del Videominuto al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato (2008-2010). È stato capo curatore all’Isola di San Servolo di Venezia (2005-2011), curatore indipendente al Museo Macro di Roma (2006) e direttore del Premio Maretti (2011-2013). Ha curato il Padiglione Italia della 11th Bienal de La Habana (2012). Dalla metà degli anni Novanta ha curato numerose mostre in musei, spazi pubblici e gallerie private in Italia e in Europa. È autore di numerosi testi su artisti italiani e internazionali, e di saggi teorici sulle ricerche artistiche attuali. È docente di Storia e Teoria dei Nuovi Media all’Accademia di Belle Arti di Roma.

 

Imagine in home:  ©Sandro Mele, Palloni (2007). Cassetto in ferro, cuoio.