1968. ASSALTO DELLE GOLE AL CIELO
DELLE GOLE
AL CIELO
Una moltitudine di sguardi che non ricomponessero un insieme. Così abbiamo immaginato questa prima uscita della rivista, per rimettere in moto il Sessantotto non come un già accaduto, ma come motore che ha agito e agisce su immaginari in corso. Provare a sentire come sta ancora modificando il presente, se ancora lo sta modificando. Domanda aperta. E poi. Desideravamo che artiste e artisti fossero presenti come soggetti anch’essi parlanti di un Sessantotto che li convoca, non solo come un oggetto di cui si parla, di cui si analizzano i lavori in testi altrui. Abbiamo pensato a raccogliere un blocchetto di cartoline, uno Schedario impossibile d’immagini. Abbiamo chiesto ad artiste e artiste della scena, ma anche della parola, dell’immagine o del suono purché implicati con la performance, di scegliere un’immagine per dire: una figura o opera o lavoro o gesto o accadimento dal lungo Sessantotto che ha costituito un punto di svolta per il loro lavoro artistico, accompagnata da un testo che la racconta. Abbiamo chiesto di compilare un semplice Modulo.
Sessantotto tempo lungo si è detto, non cronologico, che apre ai Settanta fino al ’77 e oltre, a partire da voce, vocalità, presa di parola e corpi performativi tra arte e politica. Una temperatura / di sperimentazione poetica, politica, utopica. Per aprire la materia con un taglio non celebrativo, ma esploso, grattato dai margini, a partire da qui, dal contemporaneo.
Raccolti i materiali, ci siamo chieste: che tipo di insieme costituiscono questi artisti qui radunati? Non sono una scena, non sono solo una generazione, non condividono necessariamente estetiche e poetiche, anche se a tratti o a sottoinsiemi sì. È un insieme esaustivo di qualcosa? No. Il criterio è stato puramente affettivo, di prossimità fisica e amorosa. Qui radunati ci sono alcuni e alcune con cui abbiamo sudato insieme, o condiviso la scena, o cospirato di notte, o distrutto un campo di lavande, o occupato illegalmente spazi, o discusso fino a perderla la voce, alcune e alcuni di cui abbiamo amato i corpi gli allestimenti i movimenti le invenzioni le sconvenienze i fallimenti. Una parzialità dunque, anche la nostra chiamata.
Le consegne sono state talvolta tradite. I titoli qua e là sono ingannevoli. Il tempo storico indicato è stato dilatato in avanti o indietro, o messo in discussione. Queste cartoline sono dunque da considerarsi delle piccole scritture, dei mondi ricreati. L’arte non è ubbidiente, si sa, è continua creazione di un comune che ci sposta.
Silvia Calderoni/Ilenia Caleo
Andy Warhol
1969
A phemminist radicale. Valerie S.
Shoooot a Andy W. Gravissime ferite riportate da W.
Apparizioni pubbliche di W. diminuirono.
W. rifiutò di testimoniare contro S.
Ze iron day passò in second'ordine per via dell'assassinio di Bob K.
L'assassinio di Bob K avvenne 2 giorni dopo.
OST:
Steve Reich, Come out
Se hai un problema parti da 0 3 e 6.Se non vuoi niente di speciale eccoti tutto questo.
(William S. Burroughs)
Un’immagine di un busto lucido scoperto bucato ancora vivo.
Un essere artista dell'epoca bomba68.
Scopato da 3 colpi.
La società occidentale, da 'antropofagica',
cioè che accoglie gli anormali al suo interno,
si è progressivamente trasformata in 'antropoemica',
in quanto li espelle confinandoli in luoghi specifici.
(Lévi-Strauss 1955)
Il mostro.
Non so che tipologia di mostro,
se cattivo buono uh uh her gommoso hot fuck naked
oppure
religioso o bear o senza filtri o anal-ddemmerda
oppure
compiaciuto o con la coda o con un bel culo.
Attraggomi e fuggomi dalle ferite.
Essere spastico,
W. stesso si definiva così, W. Stesso.
Brucio in contratti di buona condotta con la società.
1 IMAGINE così nudofrontale,
crash,
piccola e indipendente,
opposta alla grandiosità della grande mondiale rivolta.
MOONLIGHT ON VERMONT
Chiaro di luna nel Vermont
Datemi quella religione pagana dell'antichità
Datemi quella religione pagana dell'antichità
Non datemi afflizioni
Quella religione pagana dell'antichità è ciò che fa per me
È ciò che fa per te
Beh, vieni fuori e faglielo vedere (x5)
Captain Beefheart
disegnato da Robert Crumb
1964/1972
Robert Crumb iniziò a disegnare questo gatto sempre in calore in fumetti amatoriali quando era un bambino e divenne il suo personaggio più famoso su riviste della scena underground come Help! Head Comix e Robert Crumb's Comics and Stories, tra il 1964 e il 1972 fino a diventare una vera icona e guadagnarsi una striscia tutta per sè. Punti d'incontro e d'ispirazione tra Fritz e me: beh l'appetito sessuale, la capacità d'immaginare qualsiasi creatura senza distinzione d'età, razza, specie e forma fisica nell'atto di compiere imprese erotiche. Come Crumb fece morire Fritz nel 1972 per mano di una sua ex gelosa, per evitare che altri ne riprendessero le vicende, così io feci morire Igor di Young Frankenstein mentre lo interpretavo, per evitare che altri nel parco a tema dove lavoravo ne indossassero ancora i panni. Entrambi fallimmo: Fritz andò avanti diventando anche un divo del cinema anche senza Crumb fino al 1974 e altri indossarono la gobba del celebre servitore del Herr Doctor in quel parco sfigato dove lavoravo la domenica. Fu una grande emozione scoprire a posteriori l'autore di Fritz: fu quando iniziai a collaborare alle edizioni Malatempora con Angelo Quattrocchi, al quale devo molte scoperte rivelatrici su quegli anni e sulla vita tout court. La raccolta di Robert Crumb era il nostro best seller dell'underground. Sulla copertina rosa del volume da noi editato c'era una ragazza prominente a gambe aperte e dalla sua fica uscivano tutti i personaggi creati dalla mente psichedelica dell'autore. Peccato che non abbiamo derive omo di Fritz, un vero gatto quando ha fame non si fa problemi di genere.
Untitled #1, ca.1970–1971
gelatin silver print
Albino sword swallower at a carnival
Maryland 1970
Una doppia croce nel corpo e col corpo di una donna.
Il ’68 è stata (un po’ come il teatro) un’importante avventura collettiva, l’ultima forse ad oggi. Una rivoluzione delle coscienze e una profonda trasformazione dell’essere umano, una richiesta di riconoscimento culturale in cui l’immaginazione è passata al potere estendendo il campo del possibile (un po’ come il teatro...). Diverso era l’istinto per il reale, per la vita e la felicità (un po’ come nel teatro…). Il mondo non è più come prima e tutto questo risuona ancora oggi come la lotta di ognuno di noi.
Ecco, scelgo uno sguardo femminile per tirare un filo tra quegli anni in cui ero piccina ed oggi. Uno sguardo che quindi come tale (di donna), possiede margini di libertà ed è frammento dinamico, drammaticamente in evidenza nel suo simbolismo concentrato.
Come nel mio teatro mi immerge in una sorta di altrove dove l’unicità dell’esistenza si cala in profondità e genera all’interno.
Professione: Reporter (The Passenger), 01:17:'14'
1975
“Your questions are much more revealing about yourself than my answers would be about me”.
At that point the shaman grabs the camera and turns it on a very embarrassed Locke, whose only response is to reach forward and turn it off.
It is an epical moment. The perception of the observer changes completely and subverts any power relation. Furthermore it forces Locke to question his own way of watching. By doing so he is forced into a process of becoming conscious about himself and about the relativity of his own way of perceiving the world.
Something has changed. Lock is not anymore the same person. But he has not the power to look at himself.
I prefer to relate to the noun “revolution” in this way: to a process of gaining consciousness. Lock switched off the camera. But what would have happened if he would have repeated his question? Maybe he would have seen himself, his question, from a completely different point of view.
The big words, ideologies and ideas, seem to me far away from the human soul. Changing something inside us is the beginning of some possible change outside, in the relation with the others, with the world. In my opinion this work of gaining self-consciousness, this silent and constant activity, is the only possible way of deep change, which necessarily has to be followed by forming community, following this new ways of looking at oneself, the other and the world.
Roma, 1972
Lo spettacolo Isabelle Morra di Barrault mi fece capire che si poteva “osare in teatro”, Pierre entrava in scena in moto (per l’epoca era molto bizarre). Subito dopo Clèmenti mi portò a Roma a conoscere il Living Theatre. Lui aveva già lavorato e collaborato con loro negli anni Sessanta con film sperimentali e poi nel ’68 a Avignon con Paradise Now si creò un vero e proprio evento mondiale con il loro sodalizio artistico, di cui faceva parte anche Philippe Garrel. Alla fine degli anni Settanta Pierre mi portò a Roma a via Gaeta dove viveva il Living Theatre. Julian e Judith mi accolsero con delicatezza …e …io ne fui subito attratta e anche spaventata, mi sembravano molto bizarre. La scintilla e il mio destino si segna in quel momento, capisco attraverso lo spettacolo Sette meditazioni sul sadomasochismo politico visto alla Sala Borromini di Roma che… il teatro diventava arma politica-poetica per andare a svegliare coloro che dormono (Julian Beck). L’entusiasmo diventava esaltazione, l’esaltazione diventava amore-erotico per i corpi degli attori e tutto diventa improvvisamente sogno realizzato. Iniziano le tournèe con il Living e… anche la morte prematura di una madre amata, che - se non ci fosse stato il Living - anche la mia vita si sarebbe interrotta in quel momento. La prova del “fuoco” della mia prima Antigone in clandestinità a Praga alle 10 di mattina in un pub… dove la polizia poteva entrare da un momento all’altro… ma l’incoscienza sublime dei 20 anni ti fa mangiare a piena bocca ogni momento della paura. Tutto questo negli anni fino ad oggi è diventata la mia vita, il mio essere “attrice senza collare”, come un cane sciolto che ha preferito donare a chi è venuto in questi anni a sperimentare con me e altri un modo libero di fare teatro arte poesia… e tutta questa scelta di adolescente anni Settanta parte dall’incontro fortuito con un attore famoso che passeggiava sul boulevard… Bisogna sempre seguire i sogni… Sono un indomabile romantica… sorry.
Le città invisibili
1972*
Calvino viveva a Parigi da qualche mese quando il Maggio Francese gli esplose accanto.
Mi piace immaginare questo uomo di 45 anni mentre osserva una storia che non è la sua: lui è stato giovane ed è accaduto in un’altra guerra e in un altro Stato. Lo immagino al ciglio della strada con il suo ritmo diverso, il suo corpo già esploso che ora, forse, non può esplodere più. Lo vedo testimone di una storia che non è nata dalla sua carne ma che inevitabilmente lo penetra. Mi piace pensare che per anni l’eco di quei giorni sia stato un riverbero tra le sue ossa fino a diventare altro.
Nel 1972, Calvino pubblica con Einaudi Le città invisibili. Si tratta di un libricino piccolo, abitato da Marco Polo che ha visto il mondo e dall’imperatore dei tartari Kublai Khan che il mondo non lo conosce. Il primo racconta, il secondo interroga e ascolta. Poi ci sono le città e gli abitanti delle città narrate da Polo. Si tratta di squarci, niente di più. Perfetti momenti di dolorosa bellezza destinati a sparire un attimo prima di vederne la forma. In ogni città ci sono meravigliosi semi di ordinatissima anarchia perché per un attimo in quel Maggio di fioriture feroci, doveva averla vista la possibilità della sovversione. Forse fu solo un momento ma sufficiente a fargli accarezzare l’ipotesi che il tempo e lo spazio si stessero organizzando in nuove, imprevedibili, strutture.
Ne Le città invisibili c’è tutto ciò che riguarda la vita ed è perfettamente ordinato in una griglia rigida ma a maglie larghe così che il fruitore/viaggiatore possa essere autonomo nello scegliere un percorso. È un’opera che inizia e finisce in ogni punto e chi la affronta è chiamato ad assumersi la responsabilità della sua esperienza di lettore.
Sono lenta. Sono nata in provincia e sono lenta. Sono della generazione dei dimenticati, quelli a cui la crisi economica ha rubato i 30 anni. Il mondo, la storia, il semplice movimento dell’uomo che cammina in strada, sembrano non essere sincronizzati al mio respiro. E allora come posso pensare di creare opere che parlino del mondo?
Le città invisibili è per me un manifesto di metodo.
Davanti all’impossibilità della narrazione dell’incendio scelgo di partire da quella precisa sensazione provata dal corpo quando una fiamma, mentre il mondo bruciava, mi sfiorò la mano.
*Per la copertina della prima edizione de Le città invisibili Calvino scelse il dipinto di Magritte Il castello dei Pirenei
Photo snapped by Charles De Gaulle. Courtesy Allen Ginsberg,
Allen Ginsberg si spoglia, davanti a me, di nascosto.
Delle urla provengono di lontano, dalla strada. .
Ho le lacrime agli occhi, mi sento soffocare. .
Allen si slancia a chiudere le grandi finestre, quasi inciampa. Il suo corpo, in penombra. L’attesa. Per tornare da me è costretto scavalcare matasse di corpi avvinghiati, ansimanti, sparsi un po’ ovunque sul pavimento di questa casa, lussuosa, i cui proprietari hanno il collo fin troppo sottile (per la ghigliottina). Per strada le barricate, il lancio dei lacrimogeni ininterrotto. La notte. .
Sul tavolino un ritratto del Che, un campanelletto di bronzo, piccoli contenitori con acqua del Gange raccolta tra il latrare dei cani e il dolore. Una candela accesa. Una banconota straniera. Una collana blu. Alcune piccole scodelle di fango essiccato. Preghiere. Polvere di zafferano. Il profumo, dolce, del suo sesso. Il profumo, dolce, del mio sesso. .
Mentre cominciamo a sorriderci, gli occhi, accarezzarci, non so, mi domanda se la traduzione è bella, non la sussurra, la mostra su un pezzo di carta, la frase, il punto di domanda nel mezzo, le lettere e tutto. Come ragazzetti eccitati, ridiamo per niente. .
Non è facile, dico. Dal tedesco all’inglese. Ma è anche musica, no? .
Dopotutto ci hanno costretto nei libri da relativamente poco tempo, rispetto alla storia. .
Mi avvicino. .
Gli prendo il volto tra le mani, e mi bacia. .
All’alba il quartiere è devastato. Diciottenni come maschere di sangue. .
Automobili ribaltate, cartelli e cassonetti divelti e ammassati come lo scheletro di una resistenza. .
Sulla facciata giallastra del palazzo, enorme, dipinta, c'è una scritta. .
Who speaks of victory? To endure is all.
Quando mi risveglio mio padre sta guidando la sua macchina nuova, comprata usata. .
Sto sul sedile posteriore, i vetri abbassati dal caldo e prendo il vento con la mano. Ma non sono il bambino di allora, ho la mia età e mi ritrovo a guardare i miei genitori più giovani di me, in silenzio. Una domenica d’estate, tanti anni fa. .
Mia madre che appoggia il piede sul vetro, col suo dito rattrappito, mentre alla radio sta passando una canzone.
Stanno innaffiando le tue rose.
Mia madre nata nel settembre del ’49 che dei suoi diciotto anni mi ha raccontato nulla, all’infuori del provino che sostenne per il posto da commessa, ai grandi magazzini, nella piccola città del nord dove arrivò coi vestiti e le scorte nei cartoni, la famiglia spaccata, i tacchi più alti possibile e un’acconciatura che ne elevasse la statura. Non c’è il leone, chissà dov’è. .
Mia madre che comincia a cantare, e da cui ho comunque ereditato uno spirito di festa, nonostante il peso dell’oppressione. Quando nel maggio dei suoi diciotto anni uscì Azzurro, la canzone fu criticata perché controcorrente ai “ritmi” dell’epoca. .
Dall’inglese all’italiano, o direttamente dal tedesco? .
Mi lascio ispirare dal suono, come se il senso fosse già, del suono. Il sesso. .
Andare oltre? Non so. Sopravvivere? Posso scegliere diversamente. .
Così metto il corpo, nudo, sui tasti, e vedo il mio corpo scorrere, tra questo schermo e i tasti, tra me e le lettere, il punto di domanda, nel mezzo. Adesso. Avverto un richiamo a scardinare e mettere in discussione ciò che è dato. E con sacralità. .
Mi lascio andare. L’amore di Allen Ginsberg dentro me. .
Il canto di mia madre nell’auto, usata.
Come inventare spazi dove non esistono.
Per poi pagarne le conseguenze.
Chi parla di vittorie? Solo resistere è tutto
Emergency Solos
1974
Barbarella
film di Roger Vadim, 1968
DELLA COMPAGNIA TEATRALE MOTUS]
Peanutes
Era una eco continua.
Più una meta cui ambire che un trampolino da cui lanciarsi.
Era una parola contenitore, santificata, manipolata, fraintesa: Rivoluzione.
E la Rivoluzione questo fa: smaschera le consuetudini, svela i conformismi, rivela quanto si è addomesticati. Perché non è possibile incatenare la Rivoluzione a un concetto, a una idea. La Rivoluzione sarà sempre contro il Potere.
È una prospettiva.
E ha a che fare con l’intimità dell’essere umano.
Da piccittèddu trovai rivoluzionario un verso di Lucio Dalla, scritto nel periodo in cui si era creata, per omologazione culturale, la categoria del «cantautorato impegnato», come se fosse un obbligo aderire a determinati standard per essere artisti. Ma l’artista, le regole le sovverte, le sminchia, le delude, le tradisce. Così, mentre in giro volavano gli spari, esplodevano le bombe e si celebravano atti di fede in ideologie socioeconomiche, nel tempo in cui la religione era usata come arma e le rivolte di piazza erano l’unico mezzo per conquistare i diritti, ecco passare per radio Cara, uno di quei capolavori capaci di compiere, per la mia visione del mondo, il gesto più rivoluzionario di tutti: la nominazione del desiderio. Il grande rimosso, il grande censurato, il terzo incomodo nelle relazioni interpersonali veniva finalmente affrontato e sviscerato senza pudori. La grande poesia parla in fondo dell’esistenza stessa, con i suoi splendori e le sue miserie, i voli di farfalla e le cadute basse in pozzanghere ricolme di piscio e siringhe sporche di sangue. E con Cara Lucio Dalla raccontò la vita, il suo essere un fatto di muscoli e nervi, di diastole e sistole, di dolori che trapassano il costato e di gioie che scalciano lungo l’arco della schiena. Così, cantando di una situazione sentimentale complessa, ecco emergere il verso perfetto: «Almeno non ti avessi incontrato, io che qui sto morendo e tu che mangi il gelato». L’epica nasce nella polvere, laddove le radici della magnolia si immergono nel terreno, scavandolo così in profondità da attingere la linfa dal cuore stesso della terra. L’epica è intessuta di lacrime e gesti piccoli che, per contesto e situazione storica, diventano giganteschi. È fatta di erba tra i piedi e sorrisi rubati, dita che si sfiorano e storie che si schiantano mentre il tuo amore non se ne accoge e continua a mangiarsi il gelato. Ma è questo il senso più profondo della Rivoluzione. Spalancare le porte del desiderio, farci abbracciare da esso, metterci in ascolto con le nostre urgenze, senza avere più il timore di nominarle.
«De» è un suffisso, indica la privazione.
«Siderum» è la stella, l’astro che riluce nelle tenebre del mondo.
Il desiderio è la nostra distanza, incolmabile, dalle stelle e, al tempo stesso, il nostro tendere a esse, anche quando attorno è buio e non c’è nessuno con cui parlare. Allora, si mettono le mani in tasca, ci si incammina e si canta una canzone, perché anche se non lo sappiamo, in quel momento quella canzone ci sta proprio salvando la vita.
Io mescolo tutto
1976
PERFORMER]
Il tempo scandito da una pallina di ping-pong. Lei, che pensa di mescolare tutto. Un’incisione triangolare sull’avambraccio. La spettacolarizzazione della ferita e la condivisione della vulnerabilità. Il martirio? La santità? L’annunciazione e la cocaina. Fra’ Angelico e la messa in scena, minuziosa.
Il rigore metodologico delle sue azioni sono documentate in diretta da Françoise Masson, “collaboratrice assai acuta, quasi simbiotica”. Ma Françoise non documenta, constata tutto quel mescolarsi. È dentro la scena, ne è parte. Constatare: stabilire con certezza sulla base di prove o documenti, o anche mediante visione diretta; appurare, riscontrare.
No, purtroppo non ho constatato alcunché, perché il 30 ottobre del 1976 nemmeno esistevo.
Io mescolo tutto: un titolo perfetto, che sfiora la banalità. Una dichiarazione semplice, da caffè al bancone. Gina Pane, la Giovanna D’Arco di Biarritz. Donnafalco, che non ha bisogno di dimenarsi, di spogliarsi, di sottolineare il suo genere. Anzi.
Ritorno al 1998, a quella gita verso Reggio Emilia per vedere l’antologica curata Dehò, otto anni dopo la prematura scomparsa dell’artista. Le teche, le constatazioni perfettamente assemblate e incorniciate, i disegni dal tratto nervoso, quasi folle. Le sculture misurate da un romanticismo asciutto. Il rigore che contiene l’imperfezione delle ferite e i percorsi irregolari dei rivoletti di sangue. Quell’ossessione per santi e martiri che non mi ha mai del tutto convinto, ma su cui sono ritornato qualche giorno fa, riportando l’attenzione sulle immagini, i testi e le tracce che rimangono della sua opera. Non ricordavo molto di Gina Pane. Eppure. Quasi mi sorprendo se la memoria mi ha riportato a lei, nel riconoscere in quel suo mescolare (parola curiosa, che mi fa pensare al “pastrocchiare” piuttosto che alle sue precise composizioni) una fonte d’ispirazione che da studente ho osservato, e poi certamente assorbito nella mia pratica.
Ripercorrendo la sua opera, mi domando quali fossero i margini di spontaneità, se e quanto fosse considerata la possibilità di fallimento nelle sue azioni. Quando la osservo, attraverso i suoi ritratti, rilevo una distanza che implica mistero; avverto una potenza trattenuta. È proprio questa tensione ad agganciarmi, a farmi riscoprire la forza di quest’artista misurata e complessa, poco rumorosa e un po’ “dimenticata”; una figura esemplare, precorritrice di molti aspetti cruciali della live art odierna. Ecco, Gina Pane.
Velvet Underground & Nico
1967
A casa i sogni crollano nella notte, la scena è lì che mi aspetta. Prima di entrare in palcoscenico mi preparo sempre con quella musica. Da quando faccio il mio teatro. Li ascolto al buio. Chiudo la porta, non devo più sapere dove sono. Non m’importa se è del ’68 ’67 ’65, mi esalta. È ricordarmi di stare dentro fino all’ultimo granello, sfrenarmi nella ribellione totale. Ogni volta che spingo play I’m waiting for my man, Lou Reed la canta come se bevesse la strada, non c’è enfasi in quelle corde vocali. Nei seminari la faccio sentire ai giovani attori glielo dico che quella voce grezza ruvida è sua ed è solo da te stesso che puoi partire, la performance a cui dobbiamo ambire, la sublimazione dell’individuo. Sei un selvaggio, accendi il distorsore, nessuno ti può prendere.
Che ha Dio al suo interno
Disegniamo un presente altro dalla noia che sperimentiamo rincorrendoci.
Sia chiaro, non vivo nessuna nostalgia passatista, cerco di reinventarmi e reinventare… e gli strumenti lontani a volte sono i più efficaci. Questa forma geometrico-labirintica è un mistero da continuare a indagare, anche con il teatro: è un reticolo di possibilità, seppur spaventose… ma del resto… ahah… stiamo morendo dal giorno dopo la nostra nascita e quindi di cosa dobbiamo avere paura?
Nostra Signora dei Turchi
1968
Amami! È tanto sai, è tanto se abbiamo salvato gli occhi!
Capelli
1968-1969 circa
L'immagine senza mediazione è quella di giovani dell'università di Parigi che si mobilitano, tirano i sassi e corrono in mezzo ai fumi degli incendi dentro la città, ma qui, da dove io mi faccio la prima idea del '68, non ci sono università né fuochi di guerriglia né parigini e soprattutto non c'è la città.
E la cosa a cui penso in modo totalizzante sono i capelli, come espressione di un momento, i capelli senza mediazioni di stile. I capelli dei maschi soprattutto, attraverso cui passa una forma di ribellione sociale fortissima: i capelli sopra le orecchie, le basette nella faccia, capelli che coprono un po' il collo e la fronte. Con quei capelli lì sei un ribelle, uno sbandato, e un lavoro non lo trovi.
C'è un'inconciliabilità lampante tra l'irruenza veloce con cui si svolge una rivolta, e la lentezza indolente con cui crescono i capelli vero? Eppure quella moviola del mutamento era l'eredità esteriore che compariva anche nelle province in Italia, non troppo tempo dopo il Maggio francese.
I capelli del 1968 come rivoluzione delicata, un segno lieve e lento che nelle province dell'epoca forse precisava un po' da che parte stavi, specificava pure che cosa c'era dentro quella testa che supportava quei capelli e quelle basette. Quell'attimo lì, prima dell'accettazione del totale della moda, in cui i padri prendevano a ceffoni i figli e li portavano dal barbiere del paese. Un lento mutamento del corpo dentro le voraci vicessitudini delle cose, una scelta individuale educata che vuol farsi bandiera, magari appartenere a qualcosa di grande di lontano di più consapevole e colto. C'è qualcosa di questo tipo specifico nel mio modo di fare le cose.
Barbara Kruger e Delphine Seyrig
Jeanne Dielman,23,quai du commerce, 1080 Bruxelles (Chantal Akerman)
Past/Present/Future
Circus
Belief+Doubt
cantante degli area
La poesia non è un lusso
1977
Se quello che abbiamo bisogno di sognare, perchè i nostri spiriti si accostino più profondamente e direttamente a ciò che ci è promesso, viene sminuito come un lusso, allora stiamo rinunciando al cuore - alla sorgente - del nostro potere..; rinunciamo al futuro dei nostri mondi. Perchè non ci sono nuove idee. Ci sono solo nuovi modi di farle sentire - di esaminare come ci si sente a vivere quelle idee la domenica alle 7 del mattino, dopo pranzo, mentre si fa l'amore selvaggiamente, si fa la guerra, si dà la vita, si piangono i nostri morti - mentre noi soffriamo i vecchi desideri, combattiamo i vecchi avvertimenti e le vecchie paure di stare in silenzio e essere impotenti e sole, mentre assaporiamo nuove possibilità e forze.
Nome d’arte di Waltraud Lehner
Genital Panic
Vienna ,1968
GERARDO LAMATTINA
Il lavoro della TBC ha sempre scavato nella superficie estetica ed etica della pelle. Una delle mie citazioni preferite per spiegare in breve quale era l’oggetto della nostra ricerca è Le plus profond, c’est la peau, infatti il corpo esibito, mostrato, avvilito, svilito, vilipeso e magnificato è sempre stato al centro di tutto il nostro lavoro. Performance come il Peep Show (“Teatri 90”, Milano 1997) o come Vile Body (Atelier Krizia, Milano 1998) e Le mosche in testa (Riccione 2001) fino alla stessa Panico da genitali scomposta e riadattata, nella nostra Personale alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (“Art Live 3”, Torino 2003), indagavano il territorio di confine e la liminarità della rappresentazione del corpo. Infine quando ho partecipato come interprete (nella parte del cane portato a spasso per Bologna) alla riproposizione di una performance di VALIE EXPORT che aveva portato a spasso come fosse un cane il suo gallerista, il cerchio si è chiuso... In definitiva anche se non credo che il lavoro di VALIE EXPORT abbia costituito per me un vero punto di svolta, è stato molto importante e sono certo che sia stato necessario, che sia ancora attualissimo e rappresenti un urgenza che riverbera ancora nella nostra società contemporanea e mi piacerebbe molto che qualcuno/a raccogliesse il testimone e con forme e modalità ancora da inventare, squarciasse il velo e la patina che la superficie opaca, liquida, fasulla e sordidamente melliflua della nostra bene amata società dei consumi ci propina ogni giorno.
A Men
Le songe d’une nuit d’été
Cirque de Mont Martre, 47000 spettatori
1968
“Quello che voglio dire è che l’attore/l’attrice è in pericolo di perdersi.
Quando si esplora qualche cosa si corre il rischio di perdersi. Il pericolo è di perdersi non di trovarsi. È un enorme pericolo. C’è ugualmente il pericolo del sacrilegio, ma nel lavoro non esiste. Infatti nel lavoro si ha il diritto di commettere i peggiori orrori. Questo pericolo esiste tuttavia quando il pubblico è presente: il rischio di menzogna, impostura, glaciazione.
Come il regista l’attore deve sempre chiedersi: “sto facendo del teatro in questo momento?”
Ci sono un’infinità di persone che ripetono parole in piedi in costume. E poi ci sono quelle che recitano. Le ultime si mettono realmente in pericolo. Ecco la differenza tra un attore e gli altri”.
Ariane Mnouchkine
Panico di Arrabal Jodorowsky Topor
edizione italiana 1978
edizione originale francese 1973
Vedere quella parola usata non più in accezione negativa ma così vibrante e generativa mi rallegrò e aprì nuovi scenari di comprensione e di espressione.
Il background da cui venivo era un po’ così: ad esempio quando studiavo per l’esame di psichiatria era luglio e sudavo e in particolare somatizzavo tutta la classificazione diagnostica di capitolo in capitolo. Qualcuno mi disse che era normale e accadeva anche agli studenti di Medicina quindi iniziai a respirare meglio, l’estate si schiuse davanti ai miei occhi. Un prof. di psichiatria che seguivo si portava un ex paziente schizofrenico a lezione, forse come segno di convivenza possibile tra il di qua e il di là della mente. Tempo dopo qualcuno mi raccontò che quell’omone vestito di giallo aveva ammazzato qualcuno con l’accetta, non so se fosse vero o meno ma spesso mi torna alla mente questo episodio. Con il Panico di Jodorowsky e co. trovai il primo collegamento diretto tra la mia vita di allora e il Teatro e la performance. E la cosa interessante, che fa parte del mio gran repertorio personale, è la possibilità di capire il Panico in entrambi i casi. Non mi hanno tanto influenzato le immagini di questo libro, in qualche modo provavo non appartenenza e distanza da quell’abbondanza di corpo e da quel bianco e nero ma mi piaceva la tattica delirante e un certo eroismo. E il casino che combinavano, gli animali, la distruzione, non so perché mi davano pace interiore, forse perché qualcuno l’aveva già fatto al posto mio.
Restando in un minimalismo solitario, ho tenuto quella parola in mente e l’ho spinta dove volevo io. “Ce l’hai la dròga???” nella performance Lido Azzurro è una domanda ossessiva rivolta al pubblico. Sul fondo una ragazza si muove e si agita indossando un gilet di cozze creando un rumore antico. Surrogate Proliferation inizia dicendo “È tutto così vecchio, vecchio, ma fortunatamente le cose cambiano, finiscono, le persone muoiono, e noi siamo molto contenti di tutto questo”. In Splendor Solis l’ultimo Dodo rimasto sulla terra corre inseguito dai Portoghesi, il suo piumaggio è fatto di biglietti del teatro, urla buffo facendo un verso generico “quaaaa” avvicinandosi così alla sua fine inevitabile. Mi piace creare atmosfere misteriose, ermetiche, ironiche, effimere, genuine, lontane dall’interpretazione. E poi c’è la distanza, quella distanza dall’abbondanza di corpi e dall’agitazione forsennata ma non vado via, sono lì sulla scena del crimine. “L’hanno fatto già loro, e io?” Io esisto nel distacco, raccolgo dati su cosa c’è attorno al delirio protagonista. Metto in scena questa qualità di presenza proponendo un sovvertimento del senso senza delirio, e anche questo è eroico.
Legarsi alla montagna
1981
Sono anni particolari per Maria Lai quelli che coprono il tempo del “lungo Sessantotto”. Sono anni di silenzio in qualche modo, poche le esposizioni, vive a Roma, si dedica a lavori che trattano il tema della difficoltà a “dire”, a prendere parola, affondano nella dimensione dell’insondabile tradotto nella scrittura di libri ricamati con una lingua incomprensibile fatta di densità e rarefazioni, di ritmo più che di senso. È un tempo in cui l’artista cerca nuove direzioni, continuando a scavare intorno alla sua radice. Mentre il mondo fuori occupa le strade, cristallizza parole d’ordine, prende parte e afferma con nettezza un punto di vista, si organizza e collettivamente prende parola, l’artista, la donna, l’isolana trapiantata in continente - tutte caratteristiche che configurano quella dimensione di “letteratura minore” delineata da Deleuze e Guattari e che la Lai incarna - sembra essere a parte, ritirata, dentro un silenzio appunto. È un silenzio politico, artistico e biografico allo stesso tempo. Scrive Emanuela De Cecco forse una delle più appassionate e profonde studiose del lavoro di Lai:
“Il silenzio è un riferimento costante nel lavoro di Maria Lai. Esiste un silenzio creativo inteso come luogo della concentrazione […] un silenzio della comunicazione che consiste nel ritirarsi dalla comunicazione verbale […] ancora esiste un silenzio che Maria Lai ha agito in prima persona, come avversione alla costruzione dell’artista personaggio che accentra l’attenzione su di sé invece che sul lavoro […] E infine c’è un’ulteriore accezione di un silenzio che è tracciabile in modo non letterale nei continui riferimenti al buio, all’ombra, al mistero, alla paura, ma anche alla possibilità di trasformazione che può accadere se si è disponibili ad attraversarlo”.
(E. De Cecco, Maria Lai da vicino, vicinissimo, da lontano, in assenza, Postmedia 2015)
È come se la Lai in quegli anni avesse deciso di presidiare il buio. Quest’abitazione del lato, sicuramente anche travagliato e doloroso, questo contrappunto di bassa intensità a fronte dell’effervescenza del tempo, mi sembra essere importante dentro l’affresco del “lungo Sessantotto”. Uso, forse forzando un po’ la mano, questo spazio in penombra nel quale la Lai si trova in quegli anni per fare emergere la complessità e la pluralità di sguardi su quel momento storico, di difficoltà a coincidere, di un posizionamento di lato rispetto al centro.
Inoltre, e questo è l’altro aspetto importante dei suoi silenzi, questi anni sono il tempo d’incubazione di quelle opere che la renderanno centrale nel panorama artistico e che, a partire da Legarsi alla montagna, avranno luogo nel suo paese natale. Ecco che il silenzio, la non coincidenza, innestano un processo generativo e un’azione, Legarsi alla montagna, in grado di affrontare il tema della trasformazione, in questo caso la trasformazione di un lutto, in un dispositivo di tempo, di cura, di relazione, di collaborazione, gravido di valori, di simboli, riti, d’indicazioni per il futuro. Lai apre le porte a quello che vent’anni dopo sarà chiamata arte relazionale. E lo fa a bassa voce, senza annunci, ma con lavoro quotidiano, sottraendosi per lasciare spazio all’attivazione della comunità. Nel 1979 il Comune di Ulassai commissiona alla Lai la realizzazione di un monumento ai caduti in guerra. La Lai si rifiuterà di erigere un monumento proponendo un lavoro in cui coinvolgere la comunità a riflettere sul tema del legame, della relazione, un lavoro per i vivi e non per i morti. Ci vorranno due anni perché l’amministrazione di Ulassai decida di dare seguito alla proposta. Nel 1981 inizia cosìi quel lavoro di presenza e dialogo con la comunità che porterà a dispiegare 27 km di nastro jeans azzurro, legando le porte e le finestre delle varie famiglie che, a seconda del grado di relazione, metteranno un cesto di pani quando intercorre un rapporto di amore e riconoscenza, un nodo a sottolineare la presenza di un legame, solo il filo nel caso non intercorra buon sangue tra le famiglie, a segnare così la dimensione del confine e del limite. Il processo si completa quando tutto il paese verrà infine legato alla montagna che sovrasta Ulassai sancendo così il legame della comunità con i suoi miti fondativi e con la dimensione naturale e spirituale, l’8 settembre 1981.
Mi sembra che questo pezzo della sua vita e l’opera che ne consegue siano un’angolatura da cui guardare il “lungo Sessantotto”, che aggiunge ombra e densità, parla di conflitto e rifiuto, di valori, di pratiche artistiche, di minoranze, di rapporti di potere, di spazio pubblico e spazio privato, di solitudini e di comunità. Svela una via del tutto personale - eppure in grado di risuonare negli anni a venire - di elaborazione dei temi portanti di quel periodo storico, dentro uno scarto talmente personale da diventare assoluto e che solo la sensibilità di una artista come Maria Lai poteva regalare.
“...L’arte nasce dalla tragedia e dall’insicurezza del mondo, ma non chiude, anzi, apre e dilata la coscienza di ogni possibile lettore…”M.Lai
Comme à la radio
Saravah 1970
CAMPO MEDIO: Estate 1993: Musica e poesia verso cui provo gratitudine, riconoscenza, amore. Sento fuori per la prima volta quello che sento dentro.
CLOSE UP: Malachi Favors, contrabbasso, chiave di volta della connessione formale tra le musiche. La performance di Brigitte, le sue verità inesorabili e la sua incantevole immaginazione. La sua femminilità non compromessa, feroce e vulnerabile.
durante i preparativi per la partenza
1957
I Like America and America Likes me
performance, 1974
Più polvere in casa
foto di rivista di Lotta Continua
attivista culturale]
Poi questa: "Più polvere in casa e meno polvere nel cervello". Scritta a più mani, stampata in ciclostile, pubblicata su una rivista dove alcune frasi sembrano ripetersi all'infinito. Invece questa brilla sulla carta, cerca una scomoda collocazione tra le colonne dell'impaginato e racconta di un gruppo di donne che ha preteso l'accesso alle "150 ore" di cui, per certo, aveva sentito dire da figli e mariti tra le mura di casa. Loro sono le casalinghe di Affori e quello che vogliono è partecipare al “luogo più bizzarro e più interessante che la sinistra abbia mai creato”, scriveva Lea Melandri nel '77 su Lotta Continua.
Alcuni anni prima, Lea e altre donne – del Movimento non Autoritario della Scuola e del Movimento Femminista –, avevano accolto questa richiesta dando inizio nel '74 all'esperienza della Scuola di via Gabbro, definita come "la scuola senza fine" (Adriana Monti, 1979), forse proprio perché sarà la vita stessa ad essere la materia dei corsi, quella che difficilmente trova spazio di parola fra i denti, figurarsi sulle riviste dei compagni.
Pina, Ada, Amalia, Teresa, Wanda, Antonia, e tutte le altre allieve, cominciano un percorso da cui è impossibile tornare indietro; un incontro fatto di parole che mancano, di parole ri-trovate, condivise e poi scritte; un intenso viaggio, che si chiuderà nel '82, su ciò di cui un gruppo di donne, esausto dal lavoro di cura forzato e sfruttato, può prendere coscienza. Tra il 1974 e il 1982, emergono e irrompono nella scena politica concetti che normalmente sono repressi: la corporalità, l'emotività, l'affettività, le relazioni con gli uomini, quelle con le altre donne, la maternità, la violenza visibile e la violenza invisibile sfondano i confini di ciò che fino a quel momento è definito privato.
Sono parole che eccedono, sono parole fatte di felicità, libere e aderenti alle cose come tutto ciò che scappa per disegnare forme nuove; le parole scritte in quegli anni ad Affori brillano, accarezzano e pungono insieme, aprono squarciando, possono essere lette e rilette senza noia.
Attraverso questa storia, ho scritto di ciò su cui il mio occhio si appassiona credo da sempre. Purtroppo ora non mi viene in mente qualcosa di più personale, sarà che ricordando le “150 ore” mi è balenata in testa l'Alternanza Scuola-Lavoro, troncandomi come quando lo streaming di un film si blocca poco prima dalla fine.
dal volume, Staring Back MIT Press
Ateismo nel Cristianesimo
1968
Rain Forest
1968
La danza, il linguaggio primordiale da dove è iniziato tutto, la forma effimera per eccellenza, soggettiva e inafferrabile, eppure concreta con il suo sudore. È attraverso l'interesse per la danza e la sua disciplina che la mia vita ha preso la sua piega.
RainForest è una coreografia di Merce Cunningham, con le scene di Andy Warhol, i costumi di Jasper Johns e la musica di David Tudor.
La vidi per la prima volta, in video, nel 1990 alla Public Library for Performing Arts, al Lincoln Center a New York, dove andavo per documentarmi dopo le lezioni che seguivo come borsista al Merce Cunningham Studio al 55 di Bethune Street. In scena, con lo stesso Cunningham, c'erano Carolyn Brown, Barbara Lloyd, Sandra Neels, Albert Reid e Gus Solomons, alcuni dei danzatori erano anche i miei insegnanti, fu un colpo al cuore, una rivelazione. Quello che maggiormente mi colpì fu la modalità dello stare in scena, del muoversi nello spazio, del relazionarsi ai Silver Clouds di Andy Warhol che fluttuavano sul palco. Mi si aprì un mondo e capì cosa avrei volevo fare.
Da allora questo progetto è rimasto cristallino nella mia testa, credo sia l'essenza di tutte le cose che negli anni ho sviluppato, artisticamente parlando; un connubio di pensieri e linguaggi che miracolosamente si fondono in un’unica cosmologia contemporanea. Realizzato nel 1968, non immune allo spirito del suo tempo, questo progetto, fra le pieghe, riassume tutta la ribellione nelle arti della scena di cui Cunningham è stato precursore. Le sue coreografie anarchico/organizzate ruotano intorno ad una scena in continuo divenire e mai controllata fino in fondo; una foresta di cuscini color argento riempiti ad elio, disseminati a mezz'aria, liberi e fuori controllo. È questo l'ambiente dove si muove il corpo del danzatore, in bilico tra soggettività e forma, ed è questo lo spazio dove si fondono movimenti, gesti quotidiani e forme più strutturate.
Un lavoro inventivo e lungimirante che mette in relazione cose apparentemente distanti, le foreste pluviali – che danno il titolo alla performance – e i cuscini argentati di Warhol – che sembrano provenire dallo spazio più lontano. Accostamenti potenti e arditi, forme diverse che s'incontrano in una sorta di ridefinizione della funzionalità stessa delle cose. Il cuscino non è più il posto dove appoggiare la testa, ma una sofisticata nuvola specchiante che si libra a mezz'aria dove è possibile intravedere il riflesso delle proprie utopie. E poi le calzamaglie color carne dei danzatori realizzate da Jasper Johns, con buchi disseminati ovunque, una seconda pelle piena di cicatrici, segni che evocano una battaglia appena avvenuta. Tutto questo immerso nel suono senza tempo di David Tudor, ricco di trame sonore e delicate, emesse dalla vibrazione di oggetti sospesi che offrono allo spettatore un'infinita varietà di densità uditive ed effetti spaziali. Un capolavoro compositivo, vivo e illimitato. È così che la semplicità di certi segni si trasforma in una lucida complessità; coreografia, scene, costumi e musica, come per miracolo, si fondono in un ambiente senza tempo dove oggi come allora intravedo tutta la bellezza utopica del mondo.
Trio A
coreografia 1966
film 1978, prodotto da Sally Banes
Taci, anzi parla
2017
Veduta dell’installazione Ca’ Rezzonico
Museo del settecento Veneziano, Venezia.
Foto di Renato Ghiazza. Courtesy: dell’artista
Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Il titolo dell’opera: Taci, anzi parla, cita l’omonimo libro di Carla Lonzi del 1978 e nasce per una provocazione, che non ho potuto fare a meno di cogliere. L’opera è una maschera di garza gessata, modellata sul calco della mia faccia, mi piaceva la contraddizione tra la mia professione di artista con piena libertà di pensiero e parola e la costrizione al silenzio.
L’opera vuole svelare quello che nei dipinti della collezione di Cà Rezzonico non si può vedere: cosa stringevano tra i denti alcune dame mascherate ritratte sia nel Il ridotto, di Francesco Guardi, sia in Il Rinoceronte di Pietro Longhi?
La Moréta o Serveta, è una maschera settecentesca che ha un carattere fortemente gerarchizzato di genere, essendo a uso esclusivamente femminile; non è neanche definibile come democratica, la democratizzazione dovrebbe rispondere anche alla libertà di parola, che nell’indossare questa maschera certo non è agevolata. La Moréta è una maschera costituita da un ovale nero con i buchi solamente in corrispondenza degli occhi. Si teneva su senza fettucce, bisognava stringere tra i denti una mordacchia, rientrante all’altezza della bocca. In questo modo le donne che la indossavano erano costrette a tacere. La Moréta viene estratta dai due capolavori in collezione e mostrata in modo da poterne osservare anche il retro: essa viene rivelata nell’azione di uno spostamento. Ho scelto di installare l’opera nel boudoir del museo, sollecitata della parola francese boudoir che deriva dalla parola bouder, letteralmente: mettere il broncio.
guardano il Giro d'Italia alla televisione
Manimal
1979
Mia madre quattordicenne (riquadro alto a destra)
Disegno che ritrae una guerrigliera del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (riquadro piccolo basso a destra), 1970 ca.
happening di Tadeusz Kantor
foto di Eustachy Kossakowski
Kantor indossava un accappatoio a strisce mentre dirigeva una scena assurda camminando avanti e indietro su una spiaggia: Edward Krasiński, importante esponente dell’arte polacca degli anni Sessanta e Settanta, interpretava un direttore d’orchestra su un piedistallo collocato sul bagnasciuga, con le spalle al pubblico mentre “dirigeva” le onde. Questa “sinfonia di onde” era affiancata da “motociclette in fuga”: cinque motociclisti facevano una gara sulla spiaggia, in riva al mare, mentre una fila di persone metteva in moto un trattore sgangherato. Quindi, il direttore d’orchestra sparava un razzo in aria quando all’orizzonte appariva una barca con sirene ululanti. Alla fine, il direttore svuotava un secchiello di pesci morti gettandoli verso gli spettatori e spogliandosi del suo frac. The Sea Concert fa parte della serie di happening al mare, divisa in quattro parti, dal titolo Panoramic Sea. Gli happening sono stati documentati dal fotografo Eustachy Kossakowski e preservati per i posteri.
scatto privato, 1968
Quell'immagine, quella visione ha segnato in me un passaggio, una svolta nella visione del mondo. Quella massa di persone urlanti, la violenza che reprime, quel suono simile a un boato infinito e le parole di mia madre a spiegarci la sua visione, inattesa, sono ancora impressi nei miei occhi, sono fissati nella mia memoria.
Crescendo mi sono ritrovata tra quella massa, diversa per composizione, più prossima alla mia età di adolescente ribelle, ma comunque immersa nel boato di voci, di corpi esposti, con le gambe pronte alla fuga quando era necessario lasciare ai compagni più grandi lo scontro diretto con le camionette, con le fiamme su cappello. Il mondo infantile di certezze e protezione si sgretolava e contemporaneamente la mia danza, il mio stare di fronte a sguardi sconosciuti iniziava a prendere piede.
Didascalia foto:
La foto è di mio fratello Marco. La figura affacciata al balcone è mia madre.
1970
La sua tag era l’abbreviativo di Dimitraki, dal nome originale greco Dimitris.
Il numero 183 era il civico del suo indirizzo: 183esima Strada in Washington Height.
Inizia a firmare TAKI183 nella sua zona e presto molti giovani si appropriano di questo segno e lo riproducono per le strade.
Dice TAKI in un’intervista al New York Daily News nel 1989: "As soon as I got into something more productive in my life, I stopped. Eventually I got into business, got married, bought a house, had a kid. Didn't buy a station wagon, but I grew up, you could say that.”
La scoperta e l’incontro con l’esperienza del writing è stato un mio primissimo e fortissimo stimolo nel generare, trasformare e determinare alcune linee guida rispetto al mio immaginario artistico e al mio modo di fare arte.
Di cosa mi parla l’esperienza del writing e come si traduce nel mio percorso artistico? Scrivo qui di seguito delle parole chiave in risposta a questa domanda.
A volte il processo di scrittura fa sì che una ne generi un’altra. In alcuni casi queste parole sono più legate all’operazione del writer, in altre al mio modo di intuire il processo artistico e i desideri che ne derivano.
In ogni caso, considero le parole/frasi di questo elenco presenti in entrambe le esperienze: forse a volte nella mia solo in termini di suggestione, desiderio, tensione verso.
- È immediato
- È accessibile
- È pubblico
- È legato a un bisogno
- La necessità della visibilità
- La necessità di esistere
- Qualcuno riconosce che esisto anche se non sa chi sono
- È facile da riprodurre
- Può diffondersi con estrema velocità
- Può farsi portavoce di una condizione
- Racconta con immediatezza il momento storico in cui si inscrive
- Resta nel tempo
- Si ricorda facilmente
- È un segno riconoscibile e replicabile
- Parla di una moltitudine
- È minimo ma raggiunge molti
- Non gli serve tecnica
- Il contesto in cui si inscrive è lo spazio urbano e si serve di quello
- La sua efficacia di comunicazione e diffusione dipende dallo spazio scelto
- La città ha già tutto il potenziale che serve
- Applicare le leggi della comunicazione allo spazio urbano
- Sottrarre
- Ridurre
- Diminuire
- Essere rapidi
- Essere invisibili
- Sparire
- Assecondare le sue leggi per infrangerle
- Essere molto aderenti a quello che esiste
- Non produrre niente di nuovo
- Imitazione
- Plagio
- Passaggio di informazioni senza niente in cambio
- Aprire una tensione verso l’impossibile
- Mettere in comunicazione i contesti
- Mettere in comunicazione le persone
- Mettere in comunicazione il desiderio
- Riconoscersi
- Disperdersi
- Prima c’eri poi non c’eri più poi ci sei ancora
1968
La prima volta che ho visto una sua fotografia quel sorriso morbido e infantile mi ha inoculato una nuova speranza sul passato.
Il ’68 per la mia generazione è il luogo di una nostalgia dell’impossibile, sembra raccontare un’altra antropologia: «Non può riaccadere». Oggi non abbiamo più ragione di urlare le nostre catene, siamo stanchi della libertà e i nostri nemici si nascondono così bene che è meglio carezzare in segreto le armi e poi sparare sulla folla piuttosto che scegliere una tattica di sovversione. Ieri bisognava urlare per fare la rivoluzione, soprattutto quella domestica, per dire a tuo padre e tua madre che non avevano capito niente della felicità, per dire agli uomini «Adesso basta, adesso mi prendo il piacere di dire di no e anche di sì», bisognava arrabbiarsi e urlare e, tra le voci che urlavano, la più graffiante era quella di Janis Joplin.
Quando ci si arrabbia si diventa più potenti e più brutti. Il viso si contrae in smorfie sgradevoli, i muscoli diventano tesi, si altera l’equilibrio del sistema nervoso, ormonale e cardiovascolare, la pressione arteriosa aumenta, come la frequenza cardiaca e il testosterone, si altera l’attività celebrale e si produce bile in eccesso. Ma non per Janis Joplin. Con lei la rivoluzione aveva sorriso di bambina. E graffiava fino nel profondo.
Fare arte significa per me sempre rinegoziare quel processo inarrestabile che vede le cose oscillare tra ciò che sono e come ci appaiono. È, secondo Louise Bourgeois, «a work of love. It is a coming to terms with things». Dal ’68 di Janis Joplin e Carla Lonzi ho imparato la libertà al di fuori di quella dialettica brutale che, secondo la più tradizionale eredità patriarcale, ha come presupposto l’alienazione e la prevaricazione. Nel mio lavoro mi trovo a toccare con mano i confini tra le cose e la loro permeabilità, a guardare dove non si vuol guardare e a vedere ciò che si è diventati mentre non si voleva guardare. Ché la violenza si urla per non ascoltare sussurri ben più radicali, per coprire voci più lievi e più potenti. Ché ci vuole un grande coraggio per non confondersi col proprio nemico, una grande forza per urlare la propria rabbia, rivoluzionare la propria vita e mantenere un sorriso di bambina.
Mia zia aveva pressappoco 42 anni, la mia età adesso, quando comincio a ricordarmela. Era bionda, alta, con gli occhi azzurri come mia nonna. Già questo sarebbe stato abbastanza per far di lei un personaggio mitico ai miei occhi di dodicenne bruna e pelosetta. Ma la zia non era solo teutonica nel suo aspetto, emanava un'aura di libertà europea in tempi in cui il continente era a dodici ore di Tirrenia. La vedevo poco, perché lei la domenica, invece che ingollare pasticcini al pranzo familiare post messa, partiva alla conquista del West Sardo alla guida della sua Renault4 rossa, in compagnia degli “amici” - parola questa sempre pronunciata con un'enfasi strana - del coro - parola questa a cui io attribuivo un'enfasi strana. Coi jeans e una fascia colorata sui capelli corti, me la immaginavo baciata dal sole della nostra terra a bere birrette, ridere, cantare. A fare, insomma, qualcosa di divertente, parola guardata con sospetto nella mia famiglia proto-calvinista, tanto più se associata al ruolo di insegnante e al genere femminile.
La zia aveva all'attivo: eccitanti escursioni in una Sardegna mitica che all'epoca ritenevo mi venisse tenuta nascosta di proposito; innumerevoli fidanzati di cui si faticava a ricordarsi i nomi e la successione; un ritratto fatto da un esotico artista romano - che poi avrei capito venire da Piazza Navona - una casa in cui viveva da sola! - ragione prima del mio tentativo di trasferimento nella capanna del giardino condominiale.
Ma ancora più leggendario era il suo passato: il suo viaggio - non organizzato! - in Messico, in compagnia dell'altra mia zia “single” era assurto a simbolo di emancipazione femminile, anche se non l'avrei saputo chiamare in questi termini, all'epoca. Quel viaggio lontano, avvenuto prima della mia nascita, avrebbe popolato i sogni miei e di mia cugina per gli anni a venire: non solo un altro mondo era possibile, un altro mondo esisteva, al di fuori dell'isola.
Negli anni ho dovuto lottare per riconciliare quell'impressione di libertà con l'immagine che i miei pian piano le hanno cucito addosso, costruita ingiustamente a partire da quello che nella vita, questa zia, non aveva ottenuto, e che è diventato all'improvviso la necessaria conseguenza di un peccato d'orgoglio, dell'aver voluto troppo, dell'aver ascoltato i propri desideri.
Ed è a questa immagine di libertà che torno ogni volta che vacillo, per le mie scelte, nella mia vita, ricordandomi come dietro il giudizio che chiama una scelta “fallimento”, c'è sempre qualcuno che ha bisogno di sentirsi ripagato del proprio essere stato ligio ai valori insegnati.
1990
Quattordici anni dopo, nel 1990, la Voyager 1 si trova a 6 miliardi di chilometri dal pianeta Terra, praticamente ai confini del sistema solare. In quell'occasione l'astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan chiede alla NASA di far girare la sonda di 180 gradi così da farle scattare una foto del nostro pianeta da quella distanza mai raggiunta prima.
Il risultato è questa immagine: il pale blue dot, il pallido puntino blu, dove la Terra è più piccola di un pixel, al centro di un fascio di luce dorato, circondata dalla vasta oscurità dell'universo. Quando Sagan la presentò per la prima volta al pubblico durante una lecture alla Cornell University, lesse questo testo.
«Da questo distante punto di osservazione, la Terra può non sembrare di particolare interesse. Ma per noi, è diverso. Guardate ancora quel puntino. È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la propria vita. L'insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni "superstar", ogni "comandante supremo", ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole.
La Terra è un piccolissimo palco in una vasta arena cosmica.
La Terra è l'unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Non c'è altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare. Visitare, sì. Colonizzare, non ancora.
Che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l'astronomia è un'esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c'è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l'uno dell'altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l'unica casa che abbiamo mai conosciuto».
Nel 2012 la Voyager 1 è uscita definitivamente dal nostro sistema solare, diventando il primo oggetto costruito dall'uomo ad entrare nello spazio interstellare. Oggi la sonda continua a mandare i suoi segnali, 40 anni e 3 mesi dopo la sua partenza.