PortobelloRoad, Londra, 2014. Foto di Arianna Ioli
Le cose restano, si dice. Curate, coccolate, amate gelosamente oppure rinchiuse in scatoloni, abbandonate nelle cantine o nei solai, corrose dall’umido o sbiadite dal sole, le cose muoiono molto lentamente e il più delle volte ci sopravvivono. Non si dice però di come al tempo stesso le cose sfuggano e, girovagando tra molteplici vite affettive, si facciano beffa dei nostri tentativi di possederle una volta per tutte chiudendole in un cassetto o sigillandole in una definizione. Non basta il nome per dire la cosa. E spesso il nome è il primo a dileguarsi. Vorremmo dire “forchetta” o “coperta” o “cappotto”, ma l’unico termine che ci viene in mente è “cosa”: oltraggio alla definizione o evidenza della sua inadeguatezza a contenere la profonda stratificazione di significati che quella cosa ha per noi? La seconda ipotesi. Quando pensiamo a una cosa che ci riguarda e a cui siamo legati, non vediamo in essa l’oggetto indicato dal nome, ma un intreccio di emozioni e memorie: un nucleo affettivo in continuo movimento di cui non c’è traccia sul vocabolario in corrispondenza di quella stessa voce che cerchiamo di definire. Forse il nome delle cose dovrebbe essere diverso per ogni vita che ad esse si intreccia, forse in quel gomitolo senza nome di affetti e ricordi, nella confusione piacevole di essere unica e diversa per ognuno che l’ha amata, la cosa ritroverebbe se stessa. Una definizione delle cose dal di dentro non si può dare: la cosa è l’invisibile città di Irene in cui si reca Marco Polo che, «quale sia la città che quelli dell’altipiano chiamano Irene non è riuscito a saperlo; d’altronde poco importa: a vederla standoci in mezzo sarebbe un’altra città; Irene è un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia. La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s’arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso»1.
Un bel danno abbiamo fatto alle cose, definendole, scrive Remo Bodei ne La vita delle cose: «a scopo pedagogico, per identificarle, le abbiamo scarnificate, compresse nella loro polisemia e classificate. Isolandole dallo sfondo e dalla nostra attività, nel pensarle abbiamo tolto loro ogni riferimento a noi, riducendole a entità materiali che ci stanno semplicemente davanti»2.
Eppure posando lo sguardo sulla cosa abbiamo quella sensazione di entrare in intimità con chi l’ha posseduta: compagne di viaggio, pegni d’amore, ricordi di un’amicizia estiva tutte le cose «recano tracce umane, sono il nostro prolungamento. Gli oggetti che a lungo ci hanno fatto compagnia sono fedeli, nel loro modo modesto e leale, quanto gli animali o le piante che ci circondano. Ciascuno ha una storia e un significato mescolati a quelli delle persone che li hanno utilizzati e amati»3.
Restano le cose, se sfuggono alla solitudine, se continuano la loro esistenza affettiva nel passaggio di mano in mano, se rimangono aggrovigliate in matasse di ricordi che uniscono involontariamente generazioni lontane della stessa famiglia o sconosciuti a cui il caso ha dato appuntamento su una bancarella. Nel loro viaggio attraverso molteplici vite affettive, le cose smentiscono il loro statuto di oggetti materiali e condividono il destino profondamente umano di essere state scelte, preferite, amate o abbandonate e di restare a un certo punto, orfane. Ma non per sempre.
Ci sono dei momenti, in cui le cose ci ricordano con più insistenza questo loro essere trame complesse di memorie, significati e affetti. Un passaggio quasi obbligato della vita in cui dobbiamo rispondere a questa “chiamata” degli oggetti e decidere del loro destino è la morte dei genitori o in generale delle persone che abbiamo amato e con cui abbiamo condiviso una parte di vita o una parte di casa. Diventare orfani non significa soltanto lasciarsi attraversare da un vuoto a prima vista incolmabile, ma intraprendere un vero e proprio viaggio tra oggetti materiali diventati improvvisamente nostri assumendoci le responsabilità delle loro sorti. Elaborare il lutto è ridisegnare un equilibrio precario tra il vuoto che l’assenza di chi abbiamo amato lascia dietro di sé e il troppo pieno degli oggetti che gli sono sopravvissuti, certi giorni a riempire quello stesso vuoto, altri a materializzare la profondità dell’assenza. Eppure è difficile separarsene, abbiamo bisogno che tali oggetti restino come dispositivi solidi di una presenza ormai liquida; cerchiamo in essi consolazione, chiediamo loro di mentire, di dirci che il distacco non è ancora definitivo, che la separazione non è ancora avvenuta. Ma le cose non mentono a lungo, elaborare il lutto è pianificare il distacco dagli oggetti che non ci servono, svuotare gli armadi, dare aria alla casa, fare spazio. Il libro della psicanalista francese Lydia Flem, Come ho svuotato la casa dei miei genitori, racconta questo lavoro di fare il vuoto attraverso il pieno degli oggetti, ci parla di questo atto quasi sacrilego di svuotare la casa dei propri genitori (dove il verbo svuotare ha l’aggressività di uno “sventrare”4) facendo al tempo stesso spazio dentro se stessi. Il libro è un saggio limpido e sincero sull’elaborazione materiale del lutto, su come sopravvivere tra il desiderio di volere tenere tutto (o di doverlo tenere) perché ci è stato lasciato e la furia distruttrice e carica di sensi di colpa di sbarazzarsi di tutto per non essere soffocati dai ricordi di cui gli oggetti, come spugne, sono intrisi: «separarsi dai propri ricordi non è neppure gettare, è amputare. Il distacco si compie di rado in maniera istantanea. Richiede una lunga metamorfosi interiore»5.
Non si è lucidi in questo lavoro del vuoto, il dolore appena vissuto ha spigoli vivi, riempie ogni stanza, ogni oggetto ci ricorda altro da sé e quando non ci dice nulla, per l’affetto che ci lega al suo precedente proprietario vorremmo conoscerne la storia, sapere da dove viene e perché è sopravvissuto ai traslochi, al tempo, alla vita. Ci rendiamo conto forse per la prima volta di quanto le cose ci siano affettivamente vicine, come noi orfane di un amore, le cose restano e sopravvivono a chi le ha possedute, ma si ritrovano inesorabilmente sole. Partecipi fino in fondo del nostro destino di figli, di amanti, di amici fraterni, «anche gli oggetti diventano orfani. Hanno bisogno di genitori adottivi, di nuovi amici, di nuovi proprietari esclusivi e furiosamente gelosi che si prendano cura di loro. Gli oggetti soffrono di essere inutili, abbandonati, inoperosi. Come buttare via, per esempio, le chiavi non identificate? Non sapevo più quali serrature aprissero -di porte o di valigie- ma non mi decidevo a liberarmene senza un supplemento d’indagine: come se, in qualche punto dell’universo, una porta o una valigia attendessero di venire liberate dalla loro prigione grazie a una chiave dimenticata. Non volevo condannarle ad un’attesa infinita»6.
Restituire alle cose una vita è restituirle alla vita. Non significa quindi tenerle tutte, in nome di un’eredità che abbiamo ricevuto e da cui facciamo fatica a distaccarci, ma rimetterle in circolo, trovare per loro nuove strade, nuove destinazioni, far sì che tornino ad essere non soltanto oggetti ma compagne di un viaggio, simboli d’amore, nuclei in cui l’affetto di qualcuno si è concentrato per qualche tempo: «Gli oggetti vivono parecchie volte. Trasmessi a nuovi proprietari, conserveranno qualche traccia della loro esistenza anteriore? Immaginarli altrove, in altre mani, per usi che si sovrapporranno a quelli che hanno conosciuto in precedenza non ci lascia indifferenti. […] Per darli via senza rimpianti e senza senso di colpa, volevo pensare che si sarebbero consumati e sarebbero invecchiati circondati d’attenzione. Le cose non sono molto diverse dalle persone o dagli animali. Gli oggetti hanno un’anima e io mi sentivo in dovere di proteggerli da un destino troppo funesto»7.
Svuotare la casa di chi abbiamo amato è fare il vuoto nel pieno con la consapevolezza che districarsi tra oggetti è districarsi tra gli affetti, trovare il bandolo di una matassa non per avvolgerla intorno a se stessa ma per poterla sciogliere e sparpagliare.
Ogni cosa ha qualcuno che la aspetta lungo la strada, chi resta ha il compito di rendere questo incontro possibile. I mercatini delle pulci, i negozi dell’usato, le bancarelle di vestiti di seconda mano hanno il fascino di un appuntamento con il destino. Non ci rechiamo in questi luoghi per fare acquisti, come si potrebbe fare varcando la porta di un centro commerciale, ma assecondiamo quella sensazione un po’ infantile che qualcuno ci stia aspettando per essere riportato a “casa”. Con le cose spesso è amore a prima vista, come se in quella profondità che non tutti vedono, noi intuissimo qualcosa di familiare. Abbiamo la sensazione di averle già viste in un prima senza spazio né tempo, o di averle addirittura sfiorate, magari in metropolitana o in una casa in cui una volta, da piccoli, ci hanno offerto un quadretto di cioccolato. L’incontro con le cose è addirittura più bello quando un amico o un parente ci regala un oggetto appartenuto a una persona a lui cara pensando che il suo viaggio prosegua accanto a noi, perché in quel vestito ha visto il colore dei nostri capelli o dei nostri occhi, perché siamo gli unici a saper suonare un violino o perché abbiamo le dita abbastanza lunghe per un anello dalla forma strana. Le eredità pesano, si riceve qualcosa che si vorrebbe ci fosse stato donato, l’unico modo per alleggerirle è liberarle dallo stato di necessità che appartiene al legame di sangue e che rende un oggetto nostro perché apparteneva ai nostri genitori e non perché siamo le persone giuste per prendercene cura. Trasformare un’eredità in molteplici doni è un atto che rende il distacco dagli oggetti meno doloroso e più consapevole: «mi piaceva regalare e mi piaceva la piccola porzione di vuoto che si veniva a creare […], così un giorno avrei avuto il piacere di rivedere quegli oggetti familiari nella loro seconda o terza vita»8. Non si trattava di donare a nuovi improbabili proprietari semplicemente l’oggetto, ma «la gioia di poterne godere»9.
Ed ecco che, nel distacco che si compie, l’oggetto orfano come noi ritorna cosa, nel dono che lo riconsegna al mondo e a nuovi investimenti di pensiero e affetto, torna ad essere unico e speciale per chi lo adotta e ad avere un nuovo valore e un nuovo significato, che non coincide con quel nome che lo indica ma non lo racconta. La cosa cambia vita e cambia nome, è Irene ma anche Zaira che dell’«onda che rifluisce dai ricordi […] s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie…»10.
.
.
1 I. Calvino, Le città invisibili, (1993), Mondadori, Milano, 2009; p. 126.
2 R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari, 2009; p. 8.
3 L. Flem, Comment j’ai vidé la maison de mes parents, Edidions du Seuil, Collection La Librairie, 2004, tr. It di E. Melon, Come ho svuotato la casa dei miei genitori, Archinto, Milano, 2005; p. 42.
4 Ivi, p. 20.
5 Ivi, p. 99.
6 Ivi, pp. 105-106.
7 Ivi, p. 97.
8 Ivi, pp. 113-114.
9 Ibidem.
10 I. Calvino, op. cit., p. 11.
.
.
Arianna Ioli. Filosofia all’Università, poi la Scuola Holden, infine il Master in Curatore Museale e di Eventi IED con l’intento di fare incontrare il mondo del racconto e quello dell’arte in percorsi espositivi che abbiano il fascino di vere e proprie narrazioni.