ma0, Piazza Risorgimento, Bari, 2002-2005
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playscape: paesaggio generato dal play, parte performativa e d’improvvisazione del confronto tra un individuo ed un game, sistema di regole che stabilisce opportunità e interdetti, vieta e sanziona azioni contrarie alla logica del game stesso.
Nella città, playscape spontanei sono le bidonvilles e i terrains vaugues, scarti territoriali dove sono ammessi fenomeni di trasformazione spontanea dello spazio, attraverso una negoziazione continua delle regole con cui costruirlo.
Ma sono playscape anche i paesaggi immaginati da tutte quelle strategie di trasformazione ludica dello spazio che, con l’obiettivo di restituire all’individuo il potere di ri-creare continuamente il proprio ambiente, hanno superato la residualità del terrain vague per contaminare con il play i differenti “spazi eterogenei e interconnessi che gli uomini producono, trasformano e strutturano continuamente, spazi affettivi, estetici, sociali, storici: spazi di significato, in generale”, e trasformarli in playground commisurati alla complessità della vita vissuta, “un gioco il cui scopo è di scoprire le regole, regole che cambiano sempre e non si possono mai scoprire”.
Ne sono parte costituente, come i frammenti di un collage da raccogliere in una erranza attraverso esperienze anche distanti nel tempo come nello spazio:
– le pratiche per cambiare le geografie dei luoghi e liberarli alle pulsioni passionali e politiche dell’individuo come la dérive situazionista che estende alla scala territoriale il rovesciamento dell’oggetto già praticato da Dada ed esteso allo spazio dai surrealisti, attraverso un semplice ma radicale cambiamento del punto di vista;
– gli spazi labirintici, disorientanti e fluidi dove si allenta fino a divenire irriconoscibile il rapporto tra forma e funzione, e si crea un vuoto disponibile all’appropriazione creativa del suo abitante, dai labirinti della nuova babilonia di Constant, passando per gli spazi collettivi permeati dalla looseness che Alison e Peter Smithson proponevano in risposta alla rigidità dello zoning funzionalista, fino ad alcune più recenti architetture fluide prodotte dal digitale – ad esempio: il Terminal di Yokohama di Foreign Office Architects;
– i dispositivi di rovesciamento di ruoli e comportamenti prefissati all’interno dello spazio collettivo, come i giochi urbani utilizzati sopratutto dalle avanguardie negli anni ’60 e ’70;
– tutti gli spazi in continua possibile trasformazione, personalizzabili, nomadi, interattivi, dai gonfiabili fino alle più recenti installazioni ad alta tecnologia dove l’architettura evapora in puro strumento di comunicazione;
– gli sconfinati mondi dei massive multiplayer role playing games, dove milioni di persone si incontrano per costruire universi possibili.
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ma0, Yakari, Ginevra, 2013
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Ognuna di queste esperienze definisce un ambito di intervento e prefigura un’architettura come strumento sul limite tra traduzione conforme delle dinamiche economico-sociali dominanti e produzione di pratiche spaziali difformi: se le avanguardie affermavano radicalmente la necessità di un superamento del mito funzionalista della città, alla ricerca di uno spazio mentale, fisico e multisensoriale liberato da costrizioni, dagli anni ’90 in poi si reagisce al contrario all’autoreferenzialità della forma che si era consolidata negli anni dell’autonomia disciplinare e della circolazione dell’immagine, riportando l’architettura nella complessità del territorio, espandendone di nuovo i campi di azione, alla ricerca di un interstizio operativo dove liberare la naturale tendenza dell’uomo a costruire il proprio spazio privato e collettivo.
“Questo termine interstizio fu utilizzato da Karl Marx per qualificare delle comunità di scambio sfuggenti al quadro economico dell’economia capitalista, in quanto sottratti alle leggi del profitto: troc, ventes à pertes, produzioni autarchiche, etc. L’interstizio è uno spazio delle relazioni umane che, inserendosi più o meno armoniosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio che quelle che sono in vigore nel sistema”.
In altre parole: ciascuna di queste esperienze trasforma l’architettura in un playground capace di incidere sulle relazioni tra i suoi abitanti, di liberare lo spazio dalle catene topologiche che immobilizzano cose e uomini, e di sottrarre all’ordine stabilito dalla società una porzione di spazio, aprire un vuoto che “può comprendersi con l’aiuto del concetto di “buco positivo”, forgiato dalla fisica moderna” dove “materializzare la libertà, è innanzitutto sottrarre ad un pianeta addomesticato alcune particelle della sua superficie”.
Si può dunque dire con questa immagine tratta dalla meccanica quantistica, dove le particelle subatomiche riescono attraverso falle e smagliature nella struttura spazio-temporale a spostarsi istantaneamente da una posizione all’altra, e guadagnare uno spazio di libertà che è tutto nella loro instabilità, che ognuno di questi playground è un dispositivo per aprire ed allargare all’interno dello spazio sociale buchi positivi, zone più o meno temporaneamente autonome dove riacquistare una indeterminazione di forma e funzione che restituisce al suo abitante capacità appropriative e creative; è il paradosso di un progetto che si fa terrain vague, per andare oltre quelle contraddizioni irriducibili tra mobile e statico, tra fluido e solido, tra chiuso ed aperto, tra limitato ed illimitato, tra finito ed indefinito, tra ortogonale ed obliquo, tra materiale ed immateriale, tra attore e autore, tra etico ed estetico, che si riproducono ogni volta che si cristallizzano in una forma spaziale desideri e necessita di una popolazione; è un’architettura capace di coniugare quegli opposti, andando contro la sua connaturata stabilità, solidità, chiusura, finitezza, esteticità, ortogonalità, autorialità, verso un‘architettura molecolare che potremmo definire informale, in attesa di un abitante che le restituisca insieme all’utilità e il piacere di una funzione anche il senso di una forma.
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ma0, scuola Lombardi, Bari, 2004-2005
Playscape è dunque il paesaggio che nasce dal combinarsi di questi playgrounds in un sistema complesso, in un vero e proprio territorio dedicato al gioco come autodeterminazione creativa dell’individuo nello spazio, come la già citata New Babylon, le città istantanee di Archigram e quelle no-stop di Archizoom; playscape sconfinati si intravedono in una possibile ibridazione tra spazi del videogioco e quelli della rete che Pierre Lévy chiama spazi del sapere, dove trasformare la bidimensionalità inerte della pagina web o il contenitore neutro e anonimo di una chat room in luogo veramente interattivo, aperto ai livelli multipli della comunicazione e alla costruzione di situazioni in continuo mutamento.
In equilibrio instabile tra la celebrazione della spontaneità e la necessità di un progetto, tra il play incontrollato e residuale della città spontanea e il game autoritario e rassicurante del piano, i playscapes che appaiono all’orizzonte sono l’equivalente di un enorme terrain vague dei significati, degli usi, delle identità, dove si restituisce all’individuo il diritto di plasmare lo spazio in cui vive e l’architettura supera le stesse contraddizioni su cui si fonda, in una ricerca continua per annientare la distanza tra se stessa e la realtà della vita, dove in sostanza “fine ultimo dell’architettura è l’eliminazione dell’architettura stessa”.
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Alberto Iacovoni (1966) architetto, è membro fondatore di ma0/emmeazero (www.ma0.it), e dal 1999 al 2004 è parte di Stalker/Osservatorio Nomade (www.stalkerlab.it); libero docente in diverse università, è stato direttore della sede romana dell’Istituto Europeo di Design dal 2009 al 2012. Ha scritto di gioco e architettura in Game Zone, playground tra scenari virtuali e realtà (Birkhauser 2003; Edilstampa 2005), di Playscape, pubblicato nel 2010 per i tipi di Libria.