L’appuntamento è all’Aula Columbus dell’Università di Roma Tre quartiere Garbatella, un venerdì pomeriggio di fine gennaio anche piuttosto uggioso che in questa città significa traffico in tilt e imprecazioni che volano sopra la testa, soprattutto se per spostarci ci si serve del mezzo pubblico. La pioggia cade e dalla fermata – benché i passi da farsi siano sostanzialmente pochi – impieghiamo un bel po’ di tempo, io e una giovane diretta anche lei allo stesso posto, diplomata in scenografia all’Accademia delle Belle Arti di Roma conosciuta così, come a volte accade quando ci si riconosce in quanto animali appartenenti allo stesso clan, con lo scarto del dato anagrafico che però fa la differenza fra me e lei. Ha visto uno spettacolo di Silvia Rampelli e un paio di quelli di Romeo Castellucci, ma il teatro – tiene a dire – lo frequenta poco, anzi sembra voler proprio rimarcare una sua estraneità a quel teatro che perde peso rispetto alla capacità di leggere il proprio tempo, preferendo “note” che i due artisti in questione sembrerebbero in grado di far risuonare in lei. Ecco, mi dico, forse riusciremo a intenderci, ma come fa con così pochi spettacoli visti a orientare un gusto, cogliere un senso nell’opera che le permetta di parlarle? Ma poi, di fatto, Habillé d’eau e la Socìetas Raffaello Sanzio sono due compagini della scena di questo presente, direbbe Paolo Virno, in cui l’esistente «è posto realmente in modo immediato, in muta ubbidienza» e ti permette di appartenervi almeno empaticamente. Un approccio, il loro, dentro e attraverso la ipostasi del teatro deragliato verso forme e attese che si lasciano trapassare dalla meraviglia delle immagini del linguaggio, sebbene questa loro indagine della meraviglia abbia a che fare col concetto del sublime iconoclasta, cioè una prassi che «interdice o svalorizza ogni mediazione figurale»1. Lo spazio della Columbus è accogliente, uno spazio votato alle azioni, un luogo praticato, come scrive Michel De Certeau, grazie all’effetto «prodotto dalle operazioni che lo orientano, lo circostanziano, lo temporalizzano»2, un piccolo “teatro” ricavato all’interno di una grande sala apparecchiata con sedie spartane, come del resto tutto è all’essenziale nella natura di una superficie adatta alla pratica, alla didattica del laboratorio, e il numero dei convenuti per essere una “dimostrazione” in un giorno di pioggia è anche considerevole. Certo, riconosco facce, qualche addetto ai lavori, studiosi del DAMS che l’hanno ideato questo incontro e ovviamente studenti e giovani attori o registi che nella maestria della Rampelli o di Castellucci scoprono una propria appendice esistenziale, una propria filiazione umorale. Siamo qui per assistere a un esperimento, una prova d’autore penso, forse a un gancio a futura memoria con uno spettacolo che mai si farà e che vede la collaborazione inusuale, una comune – appunto – sperimentazione (termine più volte espresso nell’indicare la fragilità di questo evento), fra la coreografa e regista Silvia Rampelli, che di Habillé d’eau ne è l’anima, il regista Romeo Castellucci, uno dei perni della Socìetas Raffaello Sanzio e Alessandra Cristiani, danzatrice e autrice di personali percorsi d’arte ma allo stesso tempo alter ego della stessa Rampelli, con la quale collabora da sempre. Questa occasione ha la sua origine più o meno un anno fa, quando si ventilò l’ipotesi di “montare” un esercizio che incrociasse i due sguardi intorno al corpo della Cristiani, un esercizio “a cuore aperto” come lo ha chiamato Stefano Geraci, una messa a disposizione degli astanti di un processo artistico mai provato prima e tutto giocato sulla vulnerabilità della mancanza della struttura spettacolo. Ma quella ipotesi di un anno fa era comunque già figlia di un incontro a suo modo speciale fra i due, quando nel 2005 l’allora direttore della Biennale Teatro di Venezia Romeo Castellucci immaginò un cartellone di spettacoli per il festival lanciando un appello a compagnie sconosciute, scelte poi sulla base del progetto. Siedono i registi di lato a un tavolo, lui attento a muovere sul PC i vari passaggi sonori che vanno a costituire una partitura di accenti rumorali e ritorni sonori, mentre lei segue quasi cronometrandone il tempo il disegno gestuale della Cristiani, che è sola in scena. In piena luce l’aula. Inizia Strutture elementari dell’azione – dialogo in azione tra Romeo Castellucci e Silvia Rampelli con la collaborazione artistica di Alessandra Cristiani, un esperimento, dunque, del corso di laurea del DAMS. Il “teatro” ha fondali neri, c’è una sedia sul lato sinistro, entra la Cristiani e si siede ma subito dopo come a smentire la propria attitudine si alza e va verso il fondo, dando le spalle a noi spettatori. Resta così qualche frazione di secondo che sembrano interminabili secondi. Ma torna a sedersi. Per rialzarsi e ripetere l’azione dilatandone il tempo e in questo modo amplificando il riverbero del movimento, che sembra configurare un’eco di ombre all’interno della scatola nera del piccolo palcoscenico. È ancora con le spalle a noi, prova a girare la testa come per avvertire la nostra presenza che altrimenti sfuggirebbe. Il tempo insiste in questo frazionamento reiterato che ripete ossessivamente gli stessi gesti, ogni volta addizionati di ulteriori frammenti, micropartiture nel corpo e nelle mani, attraverso gli occhi o di sghembo la bocca azzarda una smorfia. Ma scompare dietro le quinte. Torna completamente nuda in scena. Ora l’azione diviene più complessa perché ogni sua componente espone una sezione che sembrerebbe autonoma, ma è forse solo questione di percezione, di deviazione della percezione, parafrasando Henri Bergson direi trattasi di percezione di un’azione tutta impregnata di ricordi-immagine che la completano interpretandola. L’apparente fissità di alcune forme ci ricorda la sostanza di quella incompiutezza, puramente evanescente, incandescente nella sua immediatezza e paesaggio occasionale nel tornare a ripetersi come per registrarne il movimento, sondarne le potenzialità. L’ambiente sonoro muta a questo punto, ormai il suono-rumore appena percepito diviene disturbo di sintonizzazione, fruscio sintetico, mentre quel corpo tenta una fuga in avanti sempre rimandata, sul ciglio del piccolo proscenio o scomparendo al di là delle quinte. Si modifica il disegno, le parti del corpo assumono in soggettiva uno spessore che indica un’altra scrittura, un nuovo vocabolario. Scende dal piccolo proscenio, attraversa lo spazio degli spettatori e va a posizionarsi dalla parte opposta dove quella nudità cambia di intensità nel biancore delle pareti, persino disturbante dopo l’enclave scuro del palcoscenico che ha abituato l’occhio a occuparsi di accorgimenti infinitesimali. Si ripetono in successione le azioni, un codice che rinnova l’appuntamento sino al deflagrare del corpo a terra, quel corpo novecentesco arreso, residuale, così neoclassico e scultoreo plasmato dalle nervature androgine della Cristiani che ricorda un eroe morente, lei drammatica in sé è il corpo della danza contemporanea che ha rigettato le parole, assorto nel suo mutismo. A questo punto sale la tensione musicale che ha cambiato registro ormai, innervando nello spazio una deviazione romantica che tenta di colmare il vuoto in questo non-lavoro scenico di straordinaria bellezza, questa indagine dicevo che pone l’accento prima del racconto, prima dell’immagine, prima del significato, cercando le domande che lo annidi in una struttura finanche aperta, «spaziata e spaziante (cassa di risonanza, spazio acustico, scarto di un rinvio), e al tempo stesso come incrocio, mescolanza, effetto di copertura nel rinvio dal sensibile al sensato, e agli altri sensi»3.
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1 Paolo Virno, Mondanità, manifestolibri, Roma 1994, pp. 19, 20
2 Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioi Lavoro, Roma 2001, p. 176
3 Jean-Luc Nancy, All’ascolto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p.15
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Paolo Ruffini, operatore culturale esperto della scena contemporanea si è occupato di teatro e danza per magazine e quotidiani; è autore di alcuni libri ed è curatore della collana “Spaesamenti” per Editoria & Spettacolo. Nel biennio 2006-2007 è stato condirettore artistico di Santarcangelo – International festival of the Arts, successivamente nelle stagioni 2008 e 2009 è stato assistente del direttore del Teatro di Roma. Dal 2006 è docente al Master di Alta Formazione per Curatore Museale e di Eventi Performativi presso lo IED di Roma.