Assalto Delle Gole Al Cielo
La voce del sacro in un corpo di donna
La possessione benigna del Glorioso Alberto in Giuseppina Gonnella
di Rosalba Nodari e Luisa Corona

Nell’introduzione a Donne e Fede, Lucetta Scaraffia e Gabriella Zarri sostengono che la richiesta di accesso al sacerdozio possa essere considerata, in un certo senso, l’ultima battaglia per la totale eguaglianza nei ruoli tra uomo e donna nelle società occidentali. Ricordando Dumezil e la sua teoria delle tre funzioni – secondo la quale la società indoeuropea sarebbe stata organizzata in tre classi adibite a tre particolari funzioni: guerra, sacerdozio e riproduzione – dopo l’accesso femminile alle attività belliche, il sacerdozio maschile sarebbe l’ultimo baluardo da espugnare per far sì che la donna non sia relegata alla sola funzione riproduttiva.

Molti sono in realtà i casi in cui le donne sembrano essersi ritagliate ruoli non convenzionali, mettendo in discussione gli accessi a loro permessi e rinegoziando il loro potere simbolico, senza per forza rivoluzionare l’intero assetto patriarcale della società in cui sono vissute e hanno agito. In questo lavoro ci occupiamo di uno di questi interstizi eretici, provando a reinterpretare un caso di possessione registrato nel pieno degli anni ’60 – più precisamente fra il 1956 e il 1972 – in un piccolo centro della Campania, Serradarce (SA). Il fenomeno, a lungo studiato in chiave etno-antropologica, non è stato ancora indagato riguardo a un aspetto che ci sembra saliente: l’efficacia di voce e corpo nella costruzione dell’identità di un «essere che è insieme vivo e morto, uomo e donna, zia e nipote» (Rossi, Scianna, 1971).

Parleremo di Giuseppina Gonnella, predicatrice e maga, principale interprete di un codificato rituale di possessione benigna in cui l’assenza simbolica del corpo di un uomo permette a una donna di avere voce in un Tempio, in veste di sacerdotessa. Tutto inizia con la morte di un giovane ex seminarista, Alberto Gonnella, che – in seguito a un incidente che «gli chiude l’esistenza» (Apolito, 2006) – torna a parlare attraverso il corpo di sua zia Giuseppina. Nasce così un vero e proprio culto, che permette a una donna fino a quel momento subalterna e marginale di guadagnarsi un ruolo simbolico e sociale di spicco.

1. Nel ‘Santuario’ del sacro camion: l’inizio del culto

Siamo a Serradarce, frazione del comune di Campagna (SA). Il 26 ottobre 1956 il poco più che ventenne Alberto Gonnella, ex seminarista, muore accidentalmente, ucciso dallo zio paterno che lo investe con una manovra maldestra del suo camion.

La morte di Alberto scuote molto l’intera comunità a cui il giovane appartiene. Gli abitanti di Serradarce e delle frazioni limitrofe partecipano con grande empatia e trasporto al lutto della famiglia Gonnella: molti conoscevano il giovane, lo consideravano un’“anima buona”, probabilmente in virtù del suo passato da seminarista. Si diffonde anche la notizia che, già in vita, il ragazzo aveva dato prova di virtù soprannaturali: pochi giorni prima della morte, secondo la testimonianza di uno dei suoi fratelli, Alberto era stato più volte visitato dalla Madonna.

Estratto dall’intervista di Michele Risso a Giuseppina Gonnella.
fonte: Archivio sonoro della Campania

L’incidente che ha causato la morte del ragazzo, inoltre, scatena una vera e propria faida familiare: il padre di Alberto considera suo fratello, alla guida del camion, diretto responsabile della morte; minaccia, quindi, di regolare i conti.

Lo scenario cambia improvvisamente durante i funerali del giovane: Giuseppina, sorella sia del padre di Alberto che del suo assassino, probabilmente per risanare la lite scaturita fra i suoi fratelli, forte della grossa partecipazione emotiva che sente fra i paesani lì stretti in preghiera, mentre è in visita dai genitori del defunto è colta da un malore. La donna viene invitata a stendersi su quello che era il letto di Alberto e, quando si rimette, inizia a rivelare ai presenti dettagli sui funerali che non poteva conoscere, non avendo assistito personalmente alla cerimonia a causa del suo malore. Tutti le si stringono intorno, nessuno ha dubbi: l’anima di Alberto è entrata nel corpo di Giuseppina e, attraverso di lei, parla.

La voce della possessione benigna si diffonde in poco tempo e molte persone accorrono a vedere Giuseppina e a sentir parlare suo nipote attraverso di lei. Nasce così il culto di Sant’Alberto o del Beato Alberto, rinominato poi del Glorioso Alberto in seguito a numerose diffide e a una scomunica ufficiale da parte della Chiesa cattolica. La fama dell’intera famiglia Gonnella cresce in maniera vertiginosa. Dopo i primi anni, in cui Giuseppina riceve i suoi fedeli in un’ala della casa di Alberto, i flussi di pellegrini sono così numerosi e costanti1 che, grazie alle offerte dei devoti, viene innalzato un vero e proprio luogo adibito al culto, il Tempio del Glorioso Alberto. Il culto era in realtà diffuso attraverso diversi spazi: oltre all’altare riservato alle prediche di Alberto, vi era una zona devozionale in cui era parcheggiato il camion che aveva ucciso il ragazzo (adorato dai fedeli come feticcio) e la cosiddetta stanza del segreto. In questa stanza, a cui i fedeli accedevano dopo la predica attraversando un corridoio in cui erano conservati gli ex voto donati dai fedeli, Giuseppina riceveva devoti afflitti da mali di diversa natura.

ph. Ferdinando Scianna, archivio Magnum photos.

La fiorente industria religiosa a cui la famiglia Gonnella riesce a dar vita nel comune di Serradarce, nota a livello nazionale e internazionale (grazie ai numerosi emigranti devoti di Alberto), è però destinata a finire nel sangue.

L’11 gennaio del 1972 un uomo spara a Giuseppina durante una predica. La donna, dopo tre giorni di agonia, muore. A esplodere il colpo è Francesco Manganelli, originario di Trentinara (SA), emigrante di ritorno dalla Germania che da qualche tempo fa l’autista di pellegrini al Tempio.

Con la morte del corpo di Giuseppina si spegne anche la voce di Alberto. Vani sono stati i tentativi dei fedeli di tenere in vita il culto così come vano si è rivelato il tentativo di una donna lucana devota di Alberto, Vittoria La Penna, di “candidarsi” come possibile epigona di Giuseppina. Nessun altro riuscirà più a varcare la soglia del Tempio e a salire sull’altare per permettere ad Alberto di rivolgersi ai suoi fedeli2.

Negli anni il culto si disperde; ad Alberto vengono destinati sporadici gruppi di preghiera; nessun ricordo viene invece riservato a Giuseppina, sulla quale si è abbattuta, anche localmente, una damnatio memoriae. Il Tempio è stato donato dalla famiglia Gonnella alla curia: un parroco appartenente alla stessa istituzione che aveva scomunicato Giuseppina e tutta la sua famiglia lì celebra messa.

Nello spazio che segue, proveremo a recuperare le tracce di Giuseppina e della sua capacità di incarnare Alberto. Ci chiederemo in cosa risiedeva la sua naturale propensione a “far sentire il sacro”, ad attrarre i fedeli e a farsi carico del loro bisogno di guarigione. Ci chiederemo attraverso quali strumenti linguistici e paralinguistici riusciva ad interpretare, ogni giorno, l’incarnazione di un altro in sé, con quale voce dava voce ad Alberto e con quale lingua suo nipote parlava attraverso di lei. Osserveremo il frame che ha permesso ai suoi devoti di compartecipare del ruolo simbolico di cui la donna si è investita Proveremo, infine, a chiederci cosa possa aver portato al suo tragico sacrificio e alla sua (quasi) totale cancellazione.

2. Le tracce di Giuseppina e Alberto, i materiali

Di questo culto extra-canonico mai autorizzato si occupavano abbondantemente già i contemporanei di Giuseppina. In particolare, fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, su Famiglia Cristiana, Paese Sera, Epoca e varie altre testate giornalistiche si pubblicavano reportage di denuncia di quella che veniva vista senza complessità e senza appello, come una truffa volta ad abusare dell’ignoranza e della creduloneria popolare per trarne profitto.

le immagini sono estratte dal documentario Alberto, di Luciano Blasco

Il caso di Giuseppina Gonnella ha goduto di una certa popolarità anche all’interno degli ambienti accademici e artistici: Luigi Di Gianni gira due documentari con la consulenza di Annabella Rossi, Nascita di un Culto (1968) e La Possessione (1971), in cui si osserva bene l’arco diacronico del culto in divenire, dagli interni della casa-santuario di Alberto a Serradarce all’edificazione del vero e proprio Tempio; Ferdinando Scianna dedica al culto un importante reportage fotografico nel 1971, accompagnato da un testo di Annabella Rossi; l’etnopsichiatra Michele Risso segue da vicino il caso, cercando innanzitutto di definire un profilo psichiatrico della donna. Più di recente, Paolo Apolito ripercorre la vicenda del Glorioso Alberto nel suo Con la voce di un altro, accantonando l’aspetto mistico-religioso e facendo emergere la voce delle persone che hanno vissuto sul loro corpo il fenomeno di un culto che radunava milioni di fedeli.

Oggi, il culto del Beato Alberto sembra quasi essere assurto a vicenda da Mondo movie, tanto da essersi guadagnato un articolo su Vice. Probabilmente, è solo la natura estremamente locale di questo fenomeno di possessione, da copertina di Cronaca Vera, a non avergli permesso di raggiungere vette di popolarità unpop come è avvenuto alle storie di David Koresh o Jim Jones.

È a questo materiale composito che abbiamo attinto per cercare di interpretare la storia di Giuseppina Gonnella. Nostre fonti primarie sono state, oltre alla bibliografia scientifica sull’argomento e ai documentari di Di Gianni, le 22 registrazioni audio delle prediche e dei rituali di Giuseppina/Alberto e l’intervista di Michele Risso a Giuseppina nell’Archivio sonoro della Campania; il documentario Rai di Gianfranco Mingozzi Sud e magia; il servizio di TV2000 Indagine ai confini del sacro – Fede e magia, lo strano culto al “Glorioso Alberto; alcune interviste  etnografiche da noi condotte fra marzo e aprile 2017 (per sondare eventuali sopravvivenze del culto a Serradarce) e, infine, le preziose testimonianze di Oreste Mottola, giornalista di Altavilla (SA) che ci ha permesso di chiarire alcuni irrisolti legati alla storia di Francesco Manganelli, l’omicida di Trentinara.

3. Performare la possessione: come Giuseppina diventava Alberto

Il culto del Beato Alberto, industria del sacro e catalizzatore dei bisogni di una folla giornaliera di circa 500 fedeli, era articolato secondo una ritualità scandita e parzialmente ispirata a quella cattolica. Ogni mattina (tranne la domenica), Giuseppina Gonnella arrivava a Serradarce accompagnata in macchina. Scendeva dalla vettura accolta dalle urla di giubilo dei fedeli ed entrava nel Tempio, dove di lì a poco si sarebbe compiuto il miracolo della possessione.

Giuseppina si sedeva su una seggiola, abbracciando con lo sguardo i fedeli; entrava in trance, con iperventilazione, aerofagia volontaria ed emissione di gemiti e fragorosi rutti, accasciandosi poi – improvvisamente – come senza vita. A questa prima fase della possessione si fa riferimento, in diversi racconti, come evocazione del martirio. Alle 8:34 in punto – ora dell’incidente di Alberto – Giuseppina saliva su uno sgabello con espressione estatica: era questo il segnale dell’avvenuto miracolo della possessione e, fra gli applausi dei fedeli, cominciava la sua predica.

estratto da Nascita di un culto, di Luigi Di Gianni

La predica di Giuseppina/Alberto non ha una struttura rigida ma alcuni temi principali ricorrono nel suo indirizzarsi ai fedeli: attraverso Giuseppina, Alberto rievoca spesso l’incidente che lo ha ucciso ma che gli ha anche permesso l’accesso all’aldilà, di cui descrive la struttura. Racconta spesso dell’organizzazione del Purgatorio, invoca diversi santi, ammonisce i bestemmiatori, dà raccomandazioni generiche sulla famiglia, promettendo salvezza e guarigione a chi gli si affida ma anche punizioni per i peccatori impenitenti.

Nel nome del Padre, del figliolo e dello Spirito santo, eterno san Serafino, in questa santa giornata splende ai miei divoto la santa carità! Ora divina, ora consacrata, benedetta da Gesù per voi, divoti miei, baciata la terra con le vostre labbra che io prega la mamma vi benedico sia lodata la stella che gira intorno a tutti gli ammalati, o sant’Antonio che sai di splendore in questa santa giornata.3

Alla predica liturgica in senso stretto seguono le promesse di salvezza, solitamente accompagnate dalla richiesta di un’offerta affidata a un gesto del braccio alzato che mostrava, tra le dita, una moneta da 100 lire.

Lascerete in questa mano mia qualche piccolo dono, e tutto nelle vostre mano dispensate a loro questa offerta che mi date divoti miei non voglio nulla mio ma quest’ora in questo momento l’accetta Gesù i vostri cuori!4

Infine, prima di scendere dal pulpito, Alberto/Giuseppina interagisce con i suoi devoti, ponendo loro delle domande, chiedendo di ripetere formule o preghiere, praticando con loro alcuni rituali come la benedizione dei panni (strumento di protezione per familiari lontani o costretti a letto), che i fedeli dovevano alzare al cielo e agitare, o il perdono dei bestemmiatori.

estratto da La Possessione, di Luigi Di Gianni

Dopo la predica, Giuseppina si ritira per le udienze private nella stanza del segreto. Qui Alberto/Giuseppina diventa Giuseppina/Alberto: la donna offre consulti privati, impone le mani, compie esorcismi, libera i devoti afflitti da possessioni maligne di varia natura e intercede doppiamente. In veste di Alberto, infatti, chiama in soccorso la Madonna o i santi del Paradiso. In veste di Giuseppina, scioglie invece fatture e diagnostica i mali, ricordando che è dove non arriva la competenza dei medici, nei casi incurabili o inspiegabili, che entra in gioco la risoluzione ultraterrena.

Cura e Guarigione
ph. Ferdinando Scianna, archivio Magnum photos.

estratto da La Possessione, di Luigi Di Gianni

Tutta la performance di Giuseppina che diventa Alberto sembra fondata sullo scarto nel suo modo di parlare. Secondo Risso, mentre Giuseppina parla di solito un dialetto difficilmente comprensibile, la predica è in italiano; un’osservazione analoga viene riportata nei documentari sul caso del Beato Alberto: Mingozzi annovera fra i segni della possessione la diversità della voce, per Di Gianni e Rossi quando Giuseppina diviene Alberto “parla con voce diversa, cambia il suo gestire e la sua mimica”.  La mitologia della voce diversa permane tutt’ora: in una breve indagine etnografica condotta nel comune di Campagna (SA) tra febbraio e aprile 2017, fra i 15 intervistati, 5 avevano conoscenza diretta del culto e ricollegavano lo scarto nel modo di parlare di Giuseppina a un artificio tecnologico, la presenza di un registratore.

“Quando l’hanno sparata io ero bambino e non è che mi ricordi ma mio padre, che era muratore, stava lavorando al Tempio, stavano rifacendo il tetto quando l’hanno sparata… Dice che teneva un registratore che parlava ancora mentre lei era a terra, con il sangue che scorreva!” (Informante 5)

“Ma non era lei che parlava… Teneva un registratore sotto ai vestiti e diceva che era la voce di Alberto e tutti quanti le credevano!” (Informante11)

La presenza di un registratore, mai descritta né nelle cronache dell’epoca né dagli studiosi che si sono occupati del caso, è con ogni probabilità una leggenda diffusasi localmente per condannare retroattivamente quella che è oggi considerata una truffa. Giuseppina Gonnella non usava mezzi tecnologici per alterare la voce; sicuramente però l’alterazione della voce era uno dei principali strumenti che permettevano a Giuseppina di diventare Alberto, rendendo così il culto credibile. Cosa permetteva al corpo di una donna di parlare per voce di un giovane santo, per di più uomo?

Se si esaminano con cura le prediche di Alberto/Giuseppina salta subito all’occhio come queste fossero caratterizzate da una testualità fortemente sconnessa.

Sono a pregare nel cielo e sempre alla mamma addolorata che cerca l’aiuto al suo figliuò e lascia a tutti i miei divoti dal nome dello Spirito santo vi benedico le grazie sono in questa mano divoti miei che mi hanno donato la foglia nelle mano della zia. Oh quanta speranza io cerca nulla vi negherà. Oh mamma consolatrice come sollevate a noi nel paradiso così solleva a tutti i miei divoti, solleva tutti i divoti che sono lontani nelle lore caso e quelli nelle terra straniero con san Michelo combatte nella spada in questa giornata che spezza ogni polvera canina di tanta gente che sono stati attaccati, invidiato. Oh quanta malinconia trovo in questa giornata, oh patre mio.

Estratto dalla Predica 2 di Giuseppina Gonnella, fonte: Archivio sonoro della Campania

Le frasi di Alberto/Giuseppina sono composte da elementi che richiamano sia il lessico liturgico (Spirito santo, Mamma Addolorata, Paradiso) sia quello – ben più vicino ai fedeli – del patrimonio magico tradizionale (la polvera canina, l’invidia, l’attaccatura). Questi elementi sono giustapposti in una sorta di libero flusso di pensiero paraliturgico, per cui da una richiesta di alleviare le sofferenze dei fedeli, l’attenzione si sposta su San Michele e sul suo potere di spezzare la legatura senza soluzione di continuità. Malgrado ciò, la predica di Alberto/Giuseppina risulta sciolta, di grande presa sui fedeli: la giustapposizione di elementi incoerenti accompagnata da una gestualità marcatamente scandita sembra richiamare la forma artistica del grammelot, come se Alberto/Giuseppina stesse imitando non tanto una lingua straniera, quanto una specifica forma testuale, la predica liturgica. L’effetto efficace è inoltre ottenuto grazie a un sapiente uso della componente gestuale, la quale accompagna il parlato favorendone la scansione ritmica, proprio come avviene durante i comizi politici ed elettorali. Come si vede dai video, Giuseppina alterna mani giunte in preghiera a mani aperte durante tutta la durata delle sue prediche. Questo continuo ripetersi dell’apertura della mano aiuta a dare una scansione ritmica al testo e crea un effetto di segmentazione che altrimenti verrebbe meno. L’andamento ritmico sembra inoltre rimandare a quelle forme, liminali fra poesia e musica, di recitazione in versi tipiche della tradizione orale.

Se ci soffermiamo invece sulla lingua utilizzata da Giuseppina nella cosiddetta stanza del segreto noteremo che l’impressione dell’alternanza di codice riportata da antropologi e giornalisti non è del tutto esatta.

estratto da La Possessione, di Luigi Di Gianni

Da un punto di vista linguistico, la facies del brano non risulta essere radicalmente altra rispetto alla lingua delle prediche pubbliche, dal momento che Giuseppina mantiene infatti tratti fonetici regionali campani in entrambe le situazioni. Quello che avviene è però una commutazione di codice. Lo stile, infatti non è più quello della pubblica orazione, con la sua rigida scansione ritmica, bensì è quello del colloquio intimo, privato: nel passaggio dalla predica alla stanza del segreto vediamo svolgersi quel balletto rituale dei molteplici self, per cui l’identità pubblica Alberto/Giuseppina si ricongiunge con l’identità privata di Giuseppina, col suo corpo, dando vita a una Giuseppina/Alberto che riacquista il proprio potere taumaturgico in quanto donna che cura.

4. Performance e possessione come sovvertimento dell’ordine simbolico

È allora forse proprio questo gioco di identità che permette di spiegare perché, per sedici anni, intere folle di fedeli abbiano accettato il fatto che Giuseppina non solo parlasse per voce di Alberto, ma con la voce di Alberto. Più volte è stato sottolineato come durante le prediche fosse Alberto a parlare, usando una voce da uomo. Eppure, l’analisi attenta dei materiali documentari a nostra disposizione conferma che di un cambio di voce non sembrano esservi tracce: la voce di Giuseppina, così come ci è stata tramandata dai supporti audiovisivi, rimane sempre la stessa. Come si spiega allora questa doppia illusione?

L’interpretazione della social persona di Giuseppina non è un processo univoco e unidirezionale, bensì è un processo che si muove all’interno di una rete di rimandi. La performance di Giuseppina permette che i fedeli, inquadrando la scena (Goffman, 1959), provvedano a interpretarla in base a schemi cognitivi socialmente ereditati, ‘situando’ la persona sia in una particolare identità sociale che in una specifica identità personale (Goffman, 1963). Ma quante sono le identità personali,5 o meglio le identità biografiche coinvolte in questo rituale sociale? Sicuramente un corpo, la fisicità di Giuseppina Gonnella. Qui però non c’è una sola identità biografica che interpreta diverse identità sociali, come avviene per tutti nel rituale quotidiano dell’interazione: in questo caso abbiamo due diverse identità personali, Giuseppina e Alberto Gonnella, in un solo corpo. Queste identità personali hanno accesso a identità sociali ben specifiche: così Alberto, maschio ed ex-seminarista, può appropriarsi dello spazio sociale dal quale predica attraverso il corpo di sua zia, e lo fa parlando in italiano. I partecipanti allo scambio comunicativo (i devoti e le devote che si recano al Tempio) sono quindi interpreti attivi che posizionano se stessi e gli altri nella cornice di riferimento in cui il culto è praticato: Giuseppina viene interpretata come Alberto in seguito al posizionamento (Du Bois, 2007) che essa stessa assume e che viene giudicato adeguato da chi assiste alla sua presa di parola. Le persone sono quindi guidate nell’interpretazione del segno dalle loro aspettative realistiche, riflettendo le caratteristiche fondamentali della struttura sociale.

È interessante notare come ne La possessione l’audio fuori campo afferma che, all’interno del Tempio, Giuseppina è Alberto, “da casalinga e madre di famiglia diventa un mago”. Riteniamo che la scelta del termine al maschile, mago, possa essere usata forse inconsapevolmente ma la scelta non è priva di implicazioni. Perché una donna che, stando alle dicerie locali, ha portato a termine un apprendistato magico da una fattucchiera di Battipaglia in giovane età, viene definita mago e non maga?

L’utilizzo del maschile è, a nostro avviso, significativo: in quest’uso è sottinteso tutto il potenziale eversivo, a latere, del caso Giuseppina/Alberto. Una donna, analfabeta e subalterna, performando la possessione da parte del nipote, sta resistendo contro quell’imposizione simbolica dei dominanti. Lo spazio che, con la voce di Alberto, si va ritagliando – il pulpito – è quanto a lei la società ha interdetto. In quanto donna e madre di famiglia Giuseppina non può essere persona pubblica e, soprattutto, non può avere accesso alla pubblica orazione sull’altare. Questo è ancor più evidente se pensiamo che nella dicotomia pubblico/privato (e più precisamente palcoscenico-tempio fuori / stanza del segreto dentro) è racchiusa l’intera parabola della giornata devozionale del culto di Giuseppina/Alberto.

Giuseppina si appropria sì di uno spazio a lei interdetto ma lo fa mantenendo una condotta che Bourdieu definirebbe ragionevole, di senso comune, rimanendo all’interno dei limiti: per appropriarsi dello spazio pubblico e del capitale simbolico che questo comporta, Giuseppina deve farsi uomo e prestare il suo corpo alla voce di Alberto. Nella stanza del segreto, in cui torna alla sua funzione femminile di colei che accudisce e cura, nel luogo chiuso dell’intimità, torna ad essere Giuseppina.

Giuseppina non ha scardinato dunque la disposizione gerarchica: per quanto la donna sia salita sul pulpito, il sistema sociale ha continuato a riprodurre le stesse differenze, tanto che in quanto donna, parlando con voce di donna, con la sua voce, essa sarebbe rimasta esclusa da quel ruolo sociale. Ma il gesto di Giuseppina, pur rimanendo all’interno di un sistema ideologico di riferimento, è stato comunque una forma di appropriazione di spazi. È forse in quest’ottica che si produce la tragedia finale, con l’intervento di Francesco Manganelli.

5. Violenza come incapacità di accettare identità eversive

Le prime ricostruzioni dell’epoca ipotizzano che all’origine dell’omicidio di Giuseppina ci sia una mancata vincita al lotto promessa dalla donna al suo assassino e mai verificatasi. A sostegno di quest’ipotesi, i molti biglietti della lotteria trovati durante la perquisizione della vettura con cui Francesco Manganelli accompagnava i fedeli al Tempio. Immediatamente dopo, in seguito alle dichiarazioni della famiglia Gonnella, le indagini seguono un’altra pista che, nelle carte processuali, viene definita come la congiura dei maghi: si pensa a un omicidio su commissione, con Manganelli come sicario; i mandanti sarebbero maghi salernitani riunitisi in un’associazione, invidiosi del successo e delle ricchezze dei Gonnella.

Quando l’assassino viene interrogato, dichiara subito di aver agito in virtù di un forte senso di giustizia: non ne poteva più di vedere tante persone truffate da chi, sfruttando un congiunto morto, si faceva beffe di persone malate e bisognose.

La stessa stampa che pubblicava continue inchieste sul culto del Glorioso Alberto descrive ora Francesco come un vendicatore sociale, dalla parte degli oppressi e dei truffati, e vede nel suo gesto l’estremo tentativo di liberazione da un inganno. L’opinione pubblica si schiera dalla parte dell’assassino ed è proprio sul suo desiderio di giustizia (attuato sommariamente) che si basa tutta la linea difensiva degli avvocati di Manganelli durante il processo.

Francesco viene descritto come un buon cittadino esasperato che, con un gesto dimostrativo, ha voluto uccidere l’inganno più che la donna che lo perpetrava. Si costituiscono comitati cittadini in suo sostegno, il suo comune d’origine lo sostiene moralmente ed economicamente durante il processo, lettere di solidarietà all’uomo arrivano da tutta Italia. Paolo Apolito riporta un curioso appello di accademici salernitani, messo agli atti durante il processo: i firmatari dell’appello sono docenti dell’Università di Salerno che sentono il bisogno di rendere nota la loro vicinanza all’assassino che sta per essere giudicato. Il suo gesto, si legge nell’appello, non può essere giustificato ma va inquadrato in base di “ragioni e finalità” che si possono comprendere.

A noi sembra più corretto interpretare l’omicidio pubblico di Giuseppina Gonnella come perfettamente collocato all’interno dell’orizzonte simbolico di riferimento descritto in questo lavoro. Francesco Manganelli, sentendosi parzialmente emancipato dalla realtà rurale di Trentinara grazie al suo essere emigrato all’estero e al suo essere diventato un piccolo imprenditore in proprio (con l’acquisto di un veicolo che gli permette di fare da autista di pellegrini al Tempio), non accetta l’ordine simbolico rovesciato da Giuseppina, il gioco che la donna e i suoi fedeli praticano ogni giorno, varcata la soglia del Tempio.

Francesco non accetta che una donna – come uomo – parli su un pulpito e, soprattutto, non accetta che quella donna – come donna – accumuli grandi quantità di denaro.  Nelle perizie psichiatriche messe agli atti fra le carte processuali, come documentato minutamente da Apolito, si insiste spesso sull’ossessione maturata da Francesco verso “quella donna” e verso la sua capacità di attrarre folle e accumulare ricchezza. La sua rabbia era, a nostro avviso, indirizzata anche all’intero capitale simbolico maschile di cui la donna era riuscita ad appropriarsi.

È curioso che il racconto e l’interpretazione del gesto di Francesco si siano sempre fermate qui, al gesto sincronicamente pertinente alla vicenda di Giuseppina. Forse perché la storia di Giuseppina si chiude – a tutti gli effetti – con Francesco e con la sua mano armata di lupara. La storia di Francesco, però, non è con Giuseppina che si chiude. Un’osservazione diacronica dello sviluppo della personalità di Francesco può, a nostro avviso, aiutare ad osservare ancora meglio il tipo di violenza che Francesco esercita ai danni di Giuseppina. Non è contro l’inganno che Francesco si è armato ma contro la donna.

L’ossessione che le donne potessero privarlo dei propri averi e appropriarsi di un capitale simbolicamente loro interdetto non si è esaurita, in Francesco Manganelli, con l’omicidio di Giuseppina. A otto anni dal suo primo delitto, infatti, Francesco viene rimesso in libertà e immediatamente riaccolto nella sua comunità di origine. Inizia a lavorare come autista degli scuolabus del comune di Trentinara e, da un ritratto dell’epoca tracciato da un testimone oculare del suo secondo delitto, sembra incarnare disposizioni tipicamente maschili: viene descritto come un uomo di bella presenza, con un lavoro che gli permette di concedersi svaghi ‘borghesi’ e porta su di sé un’aura non da poco, essendo il liberatore che, anni prima, ha messo fine all’inganno della ‘santona’ di Serradarce. Gira costantemente armato: sostiene, e nessuno mette in discussione la sua verità, di farlo per la necessità di doversi difendere, dal momento che teme ripercussioni e vendette da parte della famiglia Gonnella.

Nel giugno del 1990, l’uomo incontra due donne di Napoli a Paestum (SA). Secondo le ricostruzioni dell’epoca, a cui non è facile avere accesso, le donne sono legate agli ambienti della prostituzione e conoscono bene Manganelli. Si fidano di lui, una di loro è probabilmente legata a lui da rapporti non solo occasionali.  Un pomeriggio, le due donne sono in macchina con lui, dirette da Paestum a Trentinara ma Francesco, lungo il tragitto, apre il fuoco contro le donne. Ancora una volta, l’uomo è ossessionato dall’idea che quelle donne vogliano truffarlo, derubarlo dei suoi averi, raggirarlo o raggirare qualcuno. A. P., una giovane donna di soli 29 anni, muore sul colpo; l’amica che era con lei, L. D., di 28 anni, riesce a salvarsi ma convivrà per sempre con le tracce, non solo psicologiche, dell’inaudita violenza di Francesco Manganelli.

La comunità di Trentinara, in questo caso, fece muro: furono i suoi compaesani a testimoniare immediatamente contro di lui, a “stanarlo” dal luogo in cui si nascondeva e a consegnarlo alle autorità giudiziarie. Quanti lo aveva precedentemente sostenuto e protetto, compreso e difeso, dovettero infine fare i conti con la natura violenta e femminicida di quell’uomo.

I due casi di cronaca legati al nome di Francesco Manganelli sono sempre stati trattati come momenti sconnessi, il cui legame era d’interesse esclusivamente giudiziario. A nostro avviso, invece, l’evoluzione criminale della personalità dell’uomo è il più fedele rilevatore del tipo di violenza di cui era portatore: la violenza di chi non accetta che una donna possa sovvertire un ordine simbolico gerarchicamente organizzato intorno all’uomo e appropriarsi, in maniera eversiva, del potere della parola, dell’intraprendenza economica e della determinazione sessuale.

 

6. L’assalto al cielo nelle aree laterali

Il ’68 era ovunque, anche negli angoli. Ci sembra interessante notare, in conclusione, che il momento di sovvertimento che in questo spazio raccontiamo non può essere indagato come un moto centralizzato, partito da un vertice e propagatosi in onde che hanno lasciato fuori le cosiddette aree laterali, quelle maggiormente refrattarie alla spinta del cambiamento.

Mutati il modo e il Tempio, mutati i linguaggi e le sfere d’influenza nella vita degli individui, corpi e voci provavano in questi anni a riscrivere se stessi anche nelle zone d’angolo.

Quello che accadde a Serradarce può, da tanti punti di vista, essere interpretato come l’urgenza di appropriazione di luoghi precedentemente preclusi a soggetti considerati subalterni. A Serradarce, nel ’68, oltre 500 pellegrini ogni giorno chiedevano che dei propri patimenti e del proprio bisogno di esorcizzare il male la Chiesa si facesse carico. E se la Chiesa li lasciava fuori dalla porta, era importante per i pellegrini edificarne una nuova, in cui i loro corpi e le loro voci trovassero modo e ragione d’esistere.

A dare loro spazio c’era una donna che, ogni giorno, sovvertiva un ordine simbolico, sebbene senza alternarne le fondamenta: facendosi uomo, saliva sull’altare e predicava, facendosi interprete, con voce e corpo, di un tempo sospeso, in cui magia, liturgia e industria religiosa tentavano di trovare spontanei sentieri di confluenza.

1 Secondo una stima riportata da Annabella Rossi, la frequenza media era di 500 persone al giorno, con punte di 10 mila ogni 26 ottobre (giorno di commemorazione della morte di Alberto) e un totale annuo di 200 mila persone.
2 Su Vittoria La Penna, cfr. Sud e Magia, documentario Rai di Gianfranco Mingozzi.
3 Trascrizione dalla Predica 1 di Giuseppina Gonnella, fonte: Archivio sonoro della Campania
4 Trascrizione dalla Predica 2 di Giuseppina Gonnella, fonte: Archivio sonoro della Campania
5 Sottintendendo a questa etichetta la definizione che ne dà Goffman in Stigma, per cui l’identità personale è quell’”insieme di segni positivi o piastrine di riconoscimento e la combinazione unica degli elementi della sua vita che viene ad essere attribuita all’individuo con l’aiuto di questi segni della sua identità” (Goffman, 1963: 74).

Bibliografia

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Rosalba Nodari e Luisa Corona sono due linguiste conosciutesi per caso. L’excusatio linguistica ha permesso di far nascere un sodalizio creativo in bilico fra liminale e liminoide.