.
Quando nel 1987 si incontrano per la prima volta Pasquale Campanella e gli utenti di Cooperativa “Lotta contro l’Emarginazione”, la cooperativa invita tutte le persone di cui si occupa a partecipare ai laboratori. Nel giro di brevissimo tempo molti decidono di non partecipare, essere malati di mente non significa avere una propensione per l’arte. Questa prima esperienza è dirimente: ciò che verrà prodotto in laboratorio non sarà arte terapia, non è per tutti e non prevede la supervisione delle figure preposte alla cura (medici, operatori, etc.). Si evidenzia perciò il primo passo che collocherà i risultati, le opere del gruppo, in dialogo con l’arte contemporanea; un percorso difficile per la resistenza del sistema ad accettare il confronto al di fuori dell’Outsider art, quel movimento che dalla fine dell’Ottocento aveva riconosciuto come artisti alcuni malati di mente e nel corso del Novecento ne aveva definito i confini, il mercato, le collezioni, i musei. Il presupposto dell’Outsider art è sì il riconoscimento delle capacità espressive di alcuni malati di mente purché all’interno di un ghetto, quello reale dell’ospedale psichiatrico e della malattia e quello teorico di un’alterità che non può relazionarsi col resto del mondo e per questo necessita di canali propri di veicolazione.
È la storia delle battaglie e della visione di Franco Basaglia ad ispirare l’approccio che porterà Wurmkos a pieno titolo nell’arte contemporanea tout-court. Basaglia è lo psichiatra italiano che per primo ha teorizzato e praticato una concezione sociopolitica della malattia mentale. Nell’ospedale psichiatrico di Gorizia avvia nel 1962 la prima esperienza anti-istituzionale nell’ambito della cura dei malati di mente; a lui si deve la legge del 1978 che ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici in Italia, un processo lento che ha visto la chiusura definitiva di tutti gli ospedali negli anni 2000 e di quelli giudiziari nel 2017. Uno dei punti cardine della teoria di Basaglia è che i malati di mente possono stare nella società, insieme ai “normali”. È con questo spirito che Wurmkos si confronta con il mondo dell’arte.
In effetti non vi è grande resistenza da parte di alcuni spazi non-profit, come Care of – allora diretto da Mario Gorni – a mostrare il lavoro del gruppo, anche alcuni critici, come Elisabetta Longari, Elio Grazioli e poi Roberto Pinto, tra gli altri, ne scrivono sia sulla rivista Wurmkos, sia in cataloghi e recensioni ma è a partire dal 1994, quando Pasquale Campanella rinuncia alla sua identità di autore – fino ad allora aveva tenuto separata la sua attività di artista da quella del gruppo – che incomincia a delinearsi con chiarezza il tema della partecipazione. È cioè dall’interno che si formula sempre più chiaramente l’identità del gruppo e ne consegue una pratica che mette al centro il processo, basato sulle relazioni tra le persone.
Wurmkos diventa perciò un gruppo fluido e aperto composto da numerose persone e un laboratorio privo di metodo dato a priori. Il laboratorio si pone inoltre non tanto come atelier per la produzione di opere singole, ma come spazio relazionale. Solo il processo relazionale permette la messa in discussione di dati acquisiti, l’incontro e lo scontro tra le diverse personalità che prendono parte all’interazione, e le opere diventano allora “oggetti processuali” immersi nell’esperienza quotidiana.
La fluidità del gruppo somiglia alle relazioni umane: si percorre un tratto di vita insieme e ci si lascia, anche se c’è un “nucleo duro” di persone che costituiscono il gruppo da anni. Ma la fluidità non riguarda soltanto la composizione del gruppo e le sue dinamiche interne: è anche un movimento, agito scientemente, del laboratorio verso l’esterno. Il laboratorio viene ricreato in spazi espositivi: Galleria Bordone, Milano (Fa, 1997); Museo di Villa Croce, Genova (Tana, 2002); la Triennale, Milano (Wurmkosbau, 2008), ad esempio, e questo genera un ulteriore movimento verso la partecipazione del pubblico.
La creazione di spazi o di luoghi, in cui i processi di esperienza prendono corpo interrogano il visitatore, pongono problemi anche al più sprovveduto, ponendolo subito in azione. Le esperienze non sono mai “puramente” estetiche, nel senso che non implicano solo la contemplazione. I luoghi che Wurmkos costruisce, coinvolgono chi li attraversa in modo diretto, sollecitandolo ad agire all’interno di un contesto che nasce da un processo di interazione tra gli elementi di Wurmkos e le possibilità che il pubblico amplia e prosegue, con le configurazioni possibili e anche non previste del progetto, che una volta affidato ad altri, sviluppano e arricchiscono il senso iniziale.
Questo concretamente avviene quando negli spazi il pubblico, non solo soggiorna e interagisce con il gruppo, ma partecipa disegnando, spostando oggetti, proponendo soluzioni formali o indicando bisogni, memorie, vissuti. O ancora quando ad alcune persone vengono affidate le opere prodotte nel laboratorio perché vengano usate, agite, mostrate secondo regole condivise che pertengono ad uno specifico progetto.
Sono luoghi pubblici, quelli che Wurmkos crea, perché pensati per essere abitati e vissuti. Sono pubblici e partecipati, non tanto perché realizzati a volte in uno spazio pubblico, sia esso un museo o una piazza, ma soprattutto perché si confrontano con lo spazio sociale e non solo con lo spazio fisico, coinvolgendo differenti comunità. Si danno quindi come spazi politici, dove in prima istanza si tengono insieme le componenti del gruppo, e in seconda istanza stimolano una partecipazione democratica al processo creativo.
Tre progetti, fra gli ultimi realizzati, esplicitano questo approccio all’arte e sono esemplificativi di come non vi sia un solo “referente” possibile delle opere che nel caso di Cénte coinvolge un intero paese, in Vestimi un altro gruppo di artiste e persone in luoghi diversi d’Italia e Belli Dentro una comunità psichiatrica e il suo contesto urbano.
La dimensione locale e identitaria è alla base del progetto Cénte che Wurmkos ha presentato a Latronico in Basilicata per l’Associazione Vincenzo De Luca. Il progetto si ispira alla cultura popolare, fortemente radicata nel territorio lucano, di cui ancora oggi si sono conservati i riti, recupera un profondo legame con la tradizione del passato e la propone in una nuova forma. Riprende la tradizione e la varietà degli elementi collegati a un tessuto mitico che vede nelle cénte1 un segno arcaico e votivo, trasmette un carattere festoso mostrando le immagini ancora vive di quella “cultura della memoria” e della civiltà contadina.
Nella pratica artistica, la relazione e il coinvolgimento non strumentale delle persone che vivono sul territorio d’intervento sono di grande rilevanza e creano momenti di riflessione sulla storia della comunità, recuperano processi vitali, culturali e comunicativi che vanno oltre gli steccati disciplinari, verso una condivisione pubblica.
Wurmkos ha sviluppato il progetto dall’estate 2010 al 2013 con diversi momenti di intervento: una serie di laboratori, una mostra, un concerto e un evento conclusivo. Il progetto si è delineato soprattutto nei laboratori, per tre estati consecutive, in un “rapporto fattuale” e non formalizzato in regole astratte, consentendo ai singoli soggetti di vivere una realtà in cui identità, senso e fine sono stati trovati durante il percorso. Questa è stata la premessa che ha dato ai partecipanti la possibilità di agire, non adattandosi a un ambiente precostituito e, attraverso l’azione, a inventare e a rinnovare il proprio percorso personale.
I laboratori si sono tenuti a Latronico (PZ) e a Sesto San Giovanni (MI) dove lavora il gruppo, si sono affrontati temi d’ordine antropologico e artistico per la realizzazione di manufatti a partire dalla suggestione delle cénte. Ciascuno ha costruito la propria cénta imprimendole una forma e una caratterizzazione iconica scaturita dalla biografia personale o da una suggestione emotiva.
I materiali raccolti e sviluppati nei laboratori sono stati oggetto di una mostra nello Spazio Cantisani: disegni, piccoli oggetti, annotazioni, libri, fotografie – tra cui alcuni scatti degli anni Cinquanta di Ando Gilardi –, i cortometraggi La passione del grano (1960) di Lino Del Fra, Magia Lucana (1958), La Madonna di Pierno (1965) di Luigi Di Gianni prestati dall’Istituto di Ricerca per il Teatro Musicale di Roma.
Ha collaborato il musicista Felice Del Gaudio, in concerto con Daniele di Bonaventura e Alfredo Laviano, con la performance musicale Memorie, racconto per musica e immagini sulla Lucania del dopoguerra fino agli anni Sessanta. Nell’estate 2013 l’evento finale, a cui tutto il paese è stato invitato a partecipare, ha concluso il progetto. Si è formato un “corteo festoso” in cui ognuno ha portato sul capo o a spalla la propria cénta, seguendo un percorso che dalla parte alta del paese ha raggiunto il bosco vicino. Il corteo è stato accompagnato da due bande di musicisti locali che, come in passato, seguivano eventi e feste che spezzavano la quotidianità. Durante il percorso, le cénte sono state abbandonate nel bosco e poi recuperate, una sola è ancora presente nelle vicinanze del rifugio; altre realizzate con il pane, infornato in casa, sono state donate agli animali del bosco. I partecipanti hanno trascorso tutta la giornata nel bosco, hanno mangiato cibi tradizionali allietati dalla musica delle bande di Agromonte e di Episcopia.
Il progetto ha sviluppato un avvicinamento più diretto con la cittadinanza, pensando che l’atto partecipativo, andasse riformulato, riposizionato. C’è stata più attenzione al territorio come bene comune, ripensando alla sua identità storica, culturale e sociale.
Questo ha evidenziato il problema della “polverizzazione identitaria” messa in atto da processi storici locali e nazionali in cui la cultura materiale contadina è stata completamente dispersa o inglobata in piccoli musei folkloristici.
Le persone che hanno lavorato a Cénte non hanno solo aderito a un’iniziativa, a un workshop, ma creato nel tempo un loro evidente punto di vista che si è anche esplicato nella vividezza di manufatti artistici personali. Quindi, non c’era da costruire o da condividere un percorso ideativo già prefigurato dall’artista che non è qui nella condizione di dover concedere nulla, tantomeno un controllo autoriale. Il lavoro con le piccole comunità e il concetto di partecipazione non va però idealizzato, non esistono progetti in cui non ci siano dei problemi; il sociale non è un corpo liscio e levigato ma al contrario denso di differenze, plurale e per niente coerente. La sola partecipazione non è risolutiva di problemi sociali locali che sono legati a un ben più ampio corpo di problematiche politiche e strutturali.
La cura dei luoghi di cura attraversa la storia di Wurmkos, il tema è fondamentale per le persone che del gruppo fanno parte, il cui benessere non passa solo dall’intervento farmacologico ma anche attraverso la riabilitazione e la cura del proprio ambiente vitale e pone questioni di ordine generale che coinvolgono anche l’idea di bellezza. Tim Ingold definisce la somma delle varie parti, cioè la combinazione, il rapporto tra la persona e l’ambiente come la tesi della complementarietà. Questa tesi è sostenuta da una formidabile alleanza tra l’ambiente e il corpo come organismo, in cui l’interazione non è né innata né acquisita, ma è il risultato di un continuo scambio. In Abitare (2000–2004), la trasformazione in un’opera d’arte permanente della comunità psichiatrica Parpagliona a Sesto San Giovanni, in cui vivono alcuni degli artisti di Wurmkos, si mette in atto questa possibilità continua di scambio e si riflette anche su quello che Riccardo Mondo teorizzava nel curare i luoghi di cura. Il progetto Belli dentro, curare i luoghi con cura (2015–2016) parte proprio dalla necessità di personalizzare gli spazi d’uso comune della Casa dell’Auto Mutuo Aiuto del Servizio di Salute Mentale di Trento. Un progetto di arte pubblica rivolto ad artisti e cittadini con e senza disagio psichico, per la progettazione partecipata di casa AMA. Questo per dare spazio a un’aspirazione tra le più comuni, vedersi riconosciuti e ridare a ogni individuo un luogo in cui esprimersi e rispecchiarsi.
L’intervento di public art si inserisce in un progetto più ampio di Museo Wunderkammer nel tessuto urbano di Trento.
Il progetto ha aperto alla città i luoghi residenziali della salute mentale, trasformandoli in laboratori temporanei d’arte. Quest’azione ha portato la cittadinanza a riflettere sui temi della psichiatria, della bellezza e della città intesa come luogo all’interno del quale è possibile produrre nuove relazioni sociali e culturali in grado di superare i pregiudizi.
Con Belli dentro è stato realizzato un sistema di occasioni capace di fare emergere consapevolezza e sensibilità rispetto al patrimonio di relazioni dei territori marginali e della diversità sociale. Gli incontri, svolti nelle diverse strutture del Servizio di Salute Mentale, hanno di volta in volta fatto emergere nuove e urgenti necessità legate alla mancanza di un luogo in cui fosse possibile mettere in azione aspetti legati all’immaginazione personale. Come se nella vita di tutti i giorni questa immaginazione fosse negata e alienata dal contesto sociale e urbano in cui viviamo. Gli spazi di ritrovo e di “lavoro in comune” nella città si sono assottigliati a tal punto da non essere più visibili.
Wurmkos ha aperto casa AMA alla città, con un laboratorio settimanale che è diventato un punto di ritrovo. Questo luogo è divenuto altro, perdendo quella specificità e ibridandosi con il quartiere vicino, cambiando la sua destinazione d’uso. Inoltre, dai laboratori è scaturita un’opera permanente, una delle porte interne di casa AMA, e un intervento di comunicazione artistica nella città: due cicli di affissioni pubbliche, costituite da poster e collage fotografici di opere realizzate dai partecipanti dei laboratori, che hanno idealmente connesso i luoghi della progettazione al tessuto urbano, il dentro delle residenze del SSM con il fuori delle strade.
Lo spazio pubblico è la costituzione di uno spazio più esteso in cui la funzione di comunicazione politica di queste pratiche, si rivolge allo scambio interpersonale e alla generazione di un pensiero critico verso il cambiamento, e questo ci porta a riflettere, sul concetto di partecipazione. Ma anche a quello che Hal Foster dice sul rischio di fagocitare e strumentalizzare comunità marginalizzate, che alcune operazioni di arte pubblica possono creare, anche in ambito sociale. Nella pratica sociale dell’arte, potrebbe generarsi un limite, il rischio di appiattire l’impegno artistico su quello sociale. Ma anche al contrario, fare emergere in modo spropositato l’aspetto estetico a discapito di quello etico. Bisogna trovare strategie concrete, tangibili per entrare a far parte del vissuto delle persone o di una comunità e questo avviene solo nei tempi lunghi. L’arte pubblica “mordi e fuggi” che è svolta come un compito ha creato nel tempo un grande fraintendimento; non è né la quantità dei partecipanti, né la sola apertura alla condivisione di un progetto a certificarne la riuscita. Mettere in comune è sicuramente più interessante per la ricchezza e la pluralità degli esiti.
I progetti di arte pubblica, come l’arte visuale, sono una manipolazione della realtà ed è attraverso essa che avvengono i pensieri di astrazione creativi e immaginativi. Il problema è la presenza come oggetto, corpo, spazio e come avviene questa trasformazione, quando sembra di averlo focalizzato e inesorabilmente si sfoca, rimane un’unica certezza: il processo è avvenuto con una moltitudine di persone. L’arte è necessariamente non solipsistica, è un conduttore di “aggregazione della felicità” e delle molte realtà che abitano il mondo. È da questa tensione di allargamento a macchia d’olio che i progetti di Wurmkos si alimentano e la relazione avviene in modo diretto e personale, superando anche il rapporto tra artista e collettività.
Nei laboratori di Wurmkos, quello che determina lo sviluppo di una necessità individuale o collettiva è l’apporto diversificato degli esiti che produce nella sua ricomposizione di nuovi immaginari. Le “opere” sono di tutti ma non appartengono a nessuno, non hanno firma individuale e quando si lavora a un’esposizione personale di un artista del gruppo, si fa comunque tutti insieme. Per sua natura il gruppo Wurmkos è in sé ibrido, meticcio, nel senso che mette in atto vite sociali differenti e molteplici comunicazioni, per cui il progetto parte da una sua condizione intrinseca, reale che è in seguito ampliata ed enfatizzata.
Vestire il proprio corpo è come conoscere se stessi, un sé inestricabilmente coinvolto con gli altri. Quest’idea dell’indumento come collante sociale è il tramite per mettere insieme vite e biografie diverse e per abbattere l’uniformità e l’omologazione. Il vestire, come forma di energia differente, non è una funzione prettamente fisica ma allegorica e simbolica nella libertà di immaginare e sperimentare la propria vita. Véstimi (2014–2015), un progetto condiviso con Bassa Sartoria, gruppo di artiste-sarte di Livorno anch’esso nato in ambito sociale, è costituito da una serie di abiti, di oggetti indossabili, di disegni, di cartamodelli presentati in forma di performance e mostra. I due gruppi operano con l’idea di sviluppare progetti dove la collaborazione e la condivisione sono possibilità d’incontro tra vite e progetti.
Véstimi è un lavoro sul rapporto tra arte e moda, un tema che viene sovvertito da un rituale in cui l’esserci è la condizione costante di una resistenza politica a un sistema sociale. Infatti, l’obiettivo è quello di consentire alle persone di tornare a rivestire un ruolo attivo e ad esprimere la propria percezione di sé. L’abito non è inteso come parte di una collezione di moda, nel taglio o nella confezione: sono abiti che non “vestono” perché non nascono per vestire. La ricerca e la sperimentazione sono alla base dello scambio e degli esiti di Véstimi. Wurmkos sottopone disegni, collage e prototipi di abiti in carta a Bassa Sartoria che li rielabora con la sensibilità e le competenze tecniche delle donne del gruppo, viceversa Bassa Sartoria porta a Wurmkos i propri progetti che sono discussi e modificati insieme. La progettazione comune opera per decostruzioni, assemblaggi e sovrapposizioni. Questo modo di lavorare produce un doppio laboratorio “attivo” in cui le singole esperienze dialogano in un primo momento a distanza attraverso i materiali ogni volta valutati, integrati e sviluppati. In un secondo momento nell’incontro di laboratori comuni in cui tutti elaborano e sviluppano gli esiti precedenti. Non esiste una linea di conduzione né la progettualità nasce a tavolino per poi essere realizzata, il progetto anticipatorio non appartiene agli sviluppi di Wurmkos. È un processo di lavoro che nasce in una casualità completa, unica certezza è l’incontro e la frequentazione nel tempo. Certo, i tempi per il gruppo, sono lunghi, a volte sono improduttivi e dispersivi, ma è proprio in questa apparente fragilità che prendono forma idee, sensazioni e progetti.
Nei laboratori di Wurmkos le “opere” si configurano e nascono da un mare di materiale da cui tutti pescano liberamente e poi, dopo essere intervenuti, lo ributtano in questo mare a disposizione degli altri. Non si avverte più la necessità di portare a termine un proprio lavoro, tutto ciò avviene con una normalità a volte spiazzante anche per noi stessi che la pratichiamo e allo stesso tempo mette a suo agio ogni persona chi li frequenta e condivide.
Véstimi gioca quindi sul terreno dell’incontro e dello scambio: un percorso fatto di frammenti, di nuovi alfabeti, di piccoli gesti ripetuti; un lento lavoro dedicato al fragile affiorare di emozioni, colori ed esperienze quotidiane. La relazione tra Wurmkos e Bassa Sartoria si esprime quindi nella produzione di significati oltre che di opere, facendo così emergere il plurale e l’ibrido: sono oggetti che non seguono le regole del mondo che assegna a ogni cosa un nome e una funzione. L’abito in questo modo enfatizza il suo potenziale simbolico, che avvolge e amplia il corpo, cessa di essere un oggetto per diventare segno. Gli abiti diventano interfacce tra corpo e spazio, si trasformano in oggetti che sono contemporaneamente rifugi e arredi dei corpi.
Abiti con un’attenzione particolare all’esperienza e alla tattilità: la “pelle” diviene cioè tema centrale, anticorpo per combattere paura, incertezza, pregiudizio.
.
.
1 Le cénte, diffuse tra Puglia e Basilicata, sono tradizionalmente delle costruzioni, a forma di torre nell’entroterra o di barca nei paesi costieri, costruite dalle donne con candele, nastri, immagini votive, fiori e portate sulla testa durante le processioni del santo patrono.
.
.
Bibliografia
Bianco-Valente, Pasquale Campanella, a cura di, A Cielo Aperto, Postmediabooks, Milano 2016.
Anna Detheridge, Gabi Scardi, Fashion as Social Energy, Connecting Cultures, Milano 2015.
Bordone S. a cura di, Longari E., Scardi G., Wurmkos Abitare, ed. Compositori, Bologna 2005.
Per la visone delle opere e la bibliografia completa si rimanda a http://wurmkos.blogspot.it/.
.
.
Simona Bordone vive e lavora a Milano. Nel 1991 fonda la galleria bordone, che dirige fino al 2001; opera come come curatrice indipendente d’arte contemporanea. Dal 1994 ha tenuto lectures presso musei, università e spazi privati in Italia. Ha pubblicato, dal 1998, articoli e testi in cataloghi d’arte e riviste. Dal 2004 è docente all’Istituto Europeo di Design di Milano. Dal 2008 si occupa dei contenuti editoriali del sito di Domus. È membro della Fondazione Wurmkos.
Pasquale Campanella, artista e docente, vive e lavora a Milano. Comincia a esporre nel 1985; nel 1987 fonda il gruppo Wurmkos con cui sperimenta metodi di arte relazionale. Insieme al gruppo ha esposto in musei italiani ed esteri. Nel 2001 partecipa alla 49. Biennale di Venezia, nel 2011 riceve il Premio Ciampi l’Altrarte in qualità di fondatore di Wurmkos. Dal 2004 lavora a progetti di arte pubblica, progetta e conduce laboratori e svolge attività di formazione in ambito sociale. È membro della Fondazione Wurmkos.