CITAZIONE
Trasmettere citando. Richard Move, Yvonne Rainer e le storie della danza
di Susanne Franco

Un aspetto poco studiato a livello teorico della danza teatrale e sociale sono le sue modalità di trasmissione, ovvero quel passaggio di conoscenze che avviene tra individui con o senza il supporto di un testo scritto (notazioni) o multimediale (videoriprese). In danza la trasmissione si attua principalmente per mezzo di pratiche e discorsi più o meno codificati tramite l’imitazione, l’emulazione, la ripetizione e l’incorporazione da una generazione all’altra e tra una comunità e l’altra di danzatori. La trasmissione, inoltre, è organizzata in modi diversi a seconda dei contesti culturali e in relazione al valore attribuito in ciascuno di essi alla tradizione, all’eredità e al patrimonio, oltre che all’innovazione, alla creazione e al cambiamento. In linea generale, nel mondo occidentale la trasmissione della danza, e il modo di concepirla eleggendola a privilegio della memoria, hanno incoraggiato la storiografia a costruire delle genealogie corporee di maestri i allievi guidate dal principio di causa-effetto, ma senza tenere conto degli slittamenti, delle cancellazioni, degli oblii o delle forme di resistenza all’insegnamento. La maggior parte delle storie della danza pubblicate fino a tempi recenti sono state infatti strutturate attorno all’idea, peraltro assai radicata nella pratica, secondo cui l’eredità diretta da maestro ad allievo sia lo strumento più efficace per assicurarne la trasmissione. Esse presuppongono dunque una continuità genealogica della memoria corporea, dimenticandone il carattere costruito più simile, semmai, alla discontinuità e frammentarietà della storia1. Questa struttura ha a sua volta giocato un ruolo importante nella preparazione dell’esperienza che il lettore (e poi lo spettatore) fa della danza. Si tratta, in sostanza, di un punto di vista modernista che parte dal principio secondo cui il movimento danzato ha seguito un’emancipazione progressiva dall’espressività narrativa del gesto verso forme più astratte. In questa visione la storia della danza, nota Norman Bryson, la narrazione disegna un percorso lineare in cui «l’astrazione diventa il punto finale del processo storico stesso»2.
Approcci più recenti alla storia e alla teorizzazione della danza, oltre che alla pratica coreografica sulla scena contemporanea, hanno sottolineato, invece, l’importanza di modalità di trasmissione materiale e immateriale, orizzontale e verticale, volontaria, involontaria o inattesa, quasi del tutto trascurate fino a tempi recenti. Questi approcci possono aiutare gli studiosi contemporanei a rompere lo schema ideale della trasmissione lineare, facendo intravedere piuttosto la possibilità di considerare la storia della danza, come suggerisce Ramsay Burt, «un campo decentralizzato di possibilità in cui degli individui e dei gruppi identificano le zone dove si sono accumulati idee e avvenimenti che sembrano loro i più pertinenti»3.
Un atteggiamento simile a quello di questi studiosi è riscontrabile nel lavoro di molti coreografi contemporanei che da alcuni anni presentano sulle scene internazionali degli spettacoli il cui tema è proprio il ripensamento critico del funzionamento della memoria nella/della danza. In questi spettacoli la versione “tradizionale” delle storie della danza è decostruita a partire dalle modalità di trasmissione dei patrimoni coreutici, dalle “ovvie” filiazioni di maestri e allievi, e dalla gestione della memoria (corporea) individuale e collettiva. Le citazioni di opere di coreografi del passato sono tra gli strumenti utilizzati per stabilire un legame diretto con la storia della danza a cui questi coreografi sentono di appartenere o, al contrario, da cui desiderano emanciparsi perché, così come è raccontata nei manuali e tramandata a voce dai “maestri”, risulta loro estranea, parziale o semplicemente discutibile. La citazione è dunque sia un modo per omaggiare sia per ridimensionare quando non rinnegare i maestri e le loro tradizioni, scrivendo e riscrivendo le molte storie possibili della danza.

Un caso interessante è quello del danzatore e coreografo americano Richard Move (alias Richard Weinberg)4, già nota drag queen sulla scena newyorchese, che ha posto al centro della sua attività artistica la fascinazione per Martha Graham (1894 – 1991), una delle fondatrici della modern dance americana. Graham, oltre che come danzatrice, coreografa e insegnante di danza, è passata alla storia anche per la sua statura intellettuale e per la sua personalità carismatica5. Move è partito proprio dall’aura della “grande Martha” per creare un personaggio a metà strada tra l’omaggio a un mito della danza e la sua citazione parodica, incorporandone la gestualità, i comportamenti, la postura, e non da ultimo il modo di parlare e di muoversi.
La questione della successione nel caso dell’opera di Graham è stata al centro di una disputa legale tra eredi veri e presunti del suo patrimonio materiale e immateriale. Di questo affaire si sono occupati anche molti giornali per via della natura effimera della danza, secondo la vulgata, e per le molte ambiguità che offre tuttora la giurisdizione in materia di copyright in questo ambito. La Martha Graham Dance Company, fondata nel 1926, e la scuola di Graham sono infatti rispettivamente la più antica e quella attiva da più tempo negli Stati Uniti, e alla sua morte, Graham ha lasciato indicazioni poco chiare su quali e quante responsabilità volesse dare a Ron Protas, la persona da lei indicata come custode dei suoi beni e rivelatasi presto non al altezza del ruolo. Le tormentate vicende legali che hanno visto l’intera compagnia accusare Protas per la sua gestione e conclusesi oltre un decennio dopo la morte di Graham con la vittoria dei danzatori, hanno fatto riflettere anche a livello teorico sui meccanismi della trasmissione.
Una simile paralisi dell’attività della compagnia e della gestione della scuola ha infatti seriamente danneggiato la conservazione del repertorio e della tecnica Graham, lasciando nel contempo uno spazio per soluzioni alternative di trasmissione. Se infatti è indubbio che Graham a suo modo stimasse e incoraggiasse tutte le danzatrici della compagnia avvicendatesi nei ruoli creati per lei, tuttavia a nessuna rese omaggio ufficialmente indicandola come “l’erede”. Al contrario, Move, con l’intento di trasmettere una qualche forma di conoscenza dell’opera e della tecnica di Graham alle generazioni che non avevano potuto vederla in scena, e forte della sua formazione presso la scuola Graham, ma al tempo stesso libero dalla necessità di rivendicare il ruolo di designato, si è fatto erede di questa tradizione creando quelle che ha definito delle “de-ri-costruzioni”6. Si è basato, cioè, su accurate ricerche di video e documenti d’archivio oltre che sui suoi ricordi degli spettacoli, agendo però da una prospettiva teorica postmoderna, secondo cui non è possibile risalire a un originale, ma soltanto alle molte ri-presentazioni di rappresentazioni di ciascuno di esso7.

Con Martha@Mother (1996), dal nome del cabaret, il Mother, situato nel Meatpacking District di Manhattan, Move ha creato uno spettacolo ad assetto variabile, che consiste in una serie di “distillati” in cui sono condensati celebri balletti epici di Graham e altri frutto della mescolanza di due o più titoli originali, alternati a lunghi monologhi di Move, che si presenta in scena nei panni di una Martha Graham-drag queen. Ricchi di aneddoti in cui Move-Graham spiega il significato e delle origini di ciascun pezzo, questi monologhi sono studiati nei minimi dettagli per rendere i tic verbali, la cadenza e l’accento tipici della celebre artista, così come il suo modo di stare in scena, di muoversi e di mostrarsi “mitica”. Come ogni parodia anche lo show di Move non si pone come un testo “originale”, e in questo senso offre una visione del mondo contrapposta al discorso culturale e artistico dominante che attribuisce un valore alla “originalità”.
Nelle versioni più recenti dello spettacolo, i monologhi di Move sono alternati a dialoghi che intrattiene con altri danzatori come Merce Cunningham, Mikhail Baryshnikov, Mark Morris, Matthew Bourne, e così via, spesso invitati anche a presentare dei frammenti delle loro creazioni8. Malgrado l’ostilità iniziale di Protas e di alcuni membri della compagnia, molti danzatori si sono messi a disposizione del coreografo per arricchire lo spettacolo apportando le loro competenze e i loro ricordi e nel 2006, Move ha coronato il suo percorso verso il pieno riconoscimento da parte della storia ufficiale grazie a un’edizione condotta insieme alla Martha Graham Dance Company, in occasione dell’ottantesimo anniversario della sua fondazione. Ne è seguita una committenza per un nuovo pezzo, Lamentation Variation, presentato nel 2007 al Joyce Theater poi entrato a fare parte del repertorio della compagnia.
Secondo André Lepecki, lo studioso che ha ne seguito da vicino l’attività artistica suggerendo alcuni spunti per la sua elaborazione teorica, lo scopo di Move è di attualizzare il passato ritagliandosi uno spazio per la propria creatività9. Con il suo corpo-archivio, Move mette cioè in discussione sul piano politico ed economico la questione dell’autorialità in danza, facendo degli spettacoli del passato che ha incorporato una fonte a cui attingere liberamente per nutrire il desiderio di continuare a inventare. Allo stesso tempo, Move critica chi pretende di avere un controllo esclusivo sull’eredità delle opere d’arte pensando di poter dominarne ogni aspetto della loro trasmissione. Così facendo egli solleva anche importanti questioni sul fatto che esistano forme d’arte stabili e fisse nel tempo tali da legittimare il concetto stesso di canone10 e ci offre un esempio di come, al contrario, la danza sia un sistema dinamico di incorporazioni multiple e intersoggettive attraverso le epoche storiche11.

Una tappa importante di questa traiettoria dello show dai cabaret off ai teatri e ai festival di danza più noti a livello internazionale è stata la versione presentata nel 2002 al Jacob Pillow (Martha@the Pillow) in cui oltre a molti altri invitati, Patricia Hoffbauer ha presentato una ricostruzione di un pezzo minimalista della coreografa postmoderna americana Yvonne Rainer, Three Seascapes (1962). La ricostruzione era preceduta da un dialogo tra Move-Graham e Rainer (qui impersonata da un anonimo uomo di origini asiatica) sul suo rapporto con la tecnica e l’opera di Graham. Un dialogo simile è stato ripreso da Charles Atlas nel documentario intitolato Rainer Variations e girato in occasione della retrospettiva che celebrava quarant’anni di attività di Rainer12. In questa versione dell’incontro è Graham a chiedere lumi a Rainer (quella vera questa volta) sulle opere del suo repertorio e sul senso del suo approccio postmoderno alla danza, mentre quest’ultima tenta di insegnarle il suo solo più celebre, Trio A (1966), parte di un lavoro più ampio intitolato The Mind Is a Muscle..

Rainer, che negli anni ’60 aveva seguito delle lezioni di tecnica Graham, finì col fondare insieme ad altri danzatori “ribelli” alla tradizione della modern dance il collettivo Judson Dance Theatre, da cui ebbe origine la postmodern dance. Con Trio A aveva mirato a esplorare la dinamica corporea intesa come ripetizione e come successione di azioni orientate a eseguire un compito, oltre che la distribuzione dell’energia in un fraseggio non modulato che doveva trasmettere l’idea di una performatività “neutra”.
La scelta di citare proprio Trio A in questo dialogo è dovuta al fatto che si tratta di una delle pietre miliari della coreografia postmoderna, ma anche di un pezzo che Rainer ha dapprima insegnato direttamente a molte generazioni di danzatori, lasciando poi che si diffondesse liberamente senza la sua supervisione. In questa particolare forma di citazione suggerita da Move ad Atlas, in cui è il passato che impara dal futuro, due danzatori, uno in versione drag queen e l’altra con un aspetto da butch, si confrontano nella diversa interpretazione di un pezzo e i loro corpi parlano a differenti livelli, esprimendo la difficoltà di cancellare le tracce di una tecnica di danza, le implicazioni di genere nella costruzione e ricezione del corpo del danzatore. Dal loro dialogo emerge il desiderio di affermare ciascuno il proprio stile, la mancanza di pazienza dimostrata dalle generazioni di danzatori che, come Graham, hanno dovuto mettere le loro energie soprattutto per guadagnare l’attenzione del pubblico e affermare il loro punto di vista oltre che le loro personalità spesso debordanti.
Ma che idea si era fatta Rainer dell’opera e della tecnica di Graham nel corso degli anni? Nel testo che introduce la sua collezione di saggi pubblicata nel 1999 ma composta da scritti ed editi in momenti diversi della sua carriera13, Rainer confessa un certo imbarazzo nel rileggere alcune sue affermazioni fatte degli anni ‘60 e ‘70 per la miopia soprattutto per quanto riguarda la danza moderna. In particolare ammette che all’epoca, a causa della mancanza della documentazione disponibile, tutta la sua generazione aveva solo una vaga idea di come fossero veramente le coreografie di Graham e delle altre protagoniste della modern dance negli anni ‘30, ‘40 e ‘50. Rainer precisa che se avesse visto la ricostruzione del pezzo di Graham intitolato Steps in the Street (1936) negli anni ‘60 e non nella sua ricostruzione del 1995, come invece è avvenuto, avrebbe probabilmente cambiato tutta la sua visione dell’approccio grahamiano. Nello specifico Rainer sostiene che è la mancanza di conoscenza diretta del repertorio grahamiano degli anni ’30 ad averla portata a definire l’intera opera di Graham come pesantemente psicologica e drammatica, basandosi però di fatto solo sulla sua produzione degli anni ’60. In sostanza, Rainer afferma che se l’avesse conosciuta prima e meglio avrebbe posto la sua visione di una danza anti-narrativa in un percorso ben più complesso.
D’altro canto, Graham aveva iniziato a prendere coscienza dell’importanza di rintracciare il passato e di trasmettere il proprio repertorio solo a partire dagli anni ’70, ricostruendo sì alcune coreografie create all’inizio della sua carriera, ma senza un’adeguata riflessione teorica e metodologica. Ciò ha prodotto dei risultati dubbi sia sul piano estetico sia su quello storico. Per esempio, nel caso della trasmissione del suo solo intitolato Lamentation, creato nel 1930 e ricostruito nel 1974 per Peggy Lyman (danzatrice della compagnia Graham), l’operazione di recupero rivela come i meccanismi di proiezione del presente – come la tendenza nelle opere di Graham degli anni ’50 e ’60 a sovraccaricare l’espressività narrativa del gesto – abbiano profondamente cambiato la visione che la stessa Graham aveva di questo pezzo a distanza di oltre quarant’anni14.

.

Gli esiti di questa ricostruzione “filologica” hanno fatto emergere quanto possa essere fuorviante oltre che inattendibile la trasmissione diretta da maestri ad allievi. Dal canto suo, Move con i suoi show ha fatto della trasmissione via citazione un atto artistico e teorico che aiuta a decostruire i percorsi lineari da una da una generazione alla successiva così come sono tramandati dai maestri e raccontati dalle storie della danza di impostazione tradizionale. La logica cronologica e teleologica di questi racconti è rimessa in discussione a partire dagli anacronismi apparenti (come vedere Graham imparare da Rainer e non il contrario, un evento che sarebbe stato cronologicamente possibile ma impensabile per la sua statura di “grande signora” della modern dance avversaria dichiarata della postmodern dance) e che obbligano a concettualizzare in modo più preciso la contemporaneità, immaginando un circuito orizzontale di relazioni indirette e involontarie tra artisti. L’esempio degli spettacoli di Move ci aiuta, dunque, a ripensare la storia della danza prendendo atto dei multipli andirivieni tra fedeltà e tradimento, passato e presente, a partire dalle occasioni reali o virtuali in cui artisti di diversa formazione e idee di diversa provenienza si sono incontrati e incrociati. E ci aiuta anche a ripensare alla trasmissione come a un processo che non risponde solamente a una logica di efficacia pratica, ma anche a un’intenzione culturale.

Gli studi attuali su queste questioni si muovono nello spazio delineato da modelli antitetici come, da un lato l’intenzionalità a trasmettere che produce scarsi effetti e strategie politiche e culturali poco efficaci sulla lunga durata (come nel caso della compagnia Graham durante i lunghi anni seguiti alla morte della sua fondatrice), e dall’altro la volontà di designare una posterità più trasversale proprio in virtù dell’ampio spettro di soluzioni trovate per garantire la trasmissione di un patrimonio artistico e culturale15. La costruzione del futuro appare oggi come un compito che storici della danza e artisti condividono in misura crescente perché le danze che portano con sé e in sé possano avere un senso per quelli che verranno.

.

.

1 Su questi temi cfr. Ricordanze. Memoria in movimento e coreografie della storia, a cura di S. Franco e M. Nordera, UTET Università, Torino, 2010, in particolare le pp. 321-328.
2 N. Bryson, Cultural Studies and Dance History, in Meaning in Motion: New Cultural Studies of Dance, a cura di J. Desmond, Duke University Press, Durham NC, 1997, p. 55-77.
3 R. Burt, L’histoire de la danse et les dance studies anglo-américaines, in «Mobiles 2. Mémoires et histoire en danse», L’Harmattan, Paris, pp. 421-440.
4 Per biografiche accurate su Move cfr. oltre al suo sito (www.move-itproductions.com), anche C. Reardon, Errand into the Maze, in «Village Voice», 16 gennaio 2011, p. 55.
5 Cfr. S. Franco, Martha Graham, L’Epos, Palermo, 2003.
6 J. Gilbert, Martha Graham: It’s Such a Drag Being an Icon. The Dance Legend Martha Graham Lives On… in a Slightly Taller Bodyhttp://www.independent.co.uk/arts-entertainment/theatre-dance/features/martha-graham-its-such-a-drag-being-an-icon-615979.html.
7 R. Burt, Re-Presentation of Re-Presentations. Reconstruction, Restaging and Originality, in «Dance Theatre Journal», 1998, n. 2, pp. 30-33.
8 Richard Move è apparso nei panni di Graham anche nel docu-fiction di Christopher Herrmann, amico intimo di Graham e produttore di alcuni documentari televisivi sul lavoro e le opere della danzatrice, Ghostlight (2003), nel documentario intitolato Channelling Martha di Talal Al-Muhanna.
9 A. Lepecki, The Body as Archive: Will to Re-Enact and the Afterlives of Dances, in «Dance Research Journal», 2010, n. 2, pp. 28-48.
10 V. L. Midgelow, Reworking the Ballet. Counter-Narratives and Alternative Bodies, Routledge, New York, 2007, p. 31.
11 G. Brandstetter, Choreography as Cenotaph: The Memory of Movement, in ReMembering the Body, a cura di G. Brandstetter, H. Völckers, Hatje Cantz, Ostfildern, 2000, pp. 102-132.
12 Yvonne Rainer: Radical Juxtapositions 1961-2002, allestita a New York presso la Schmidt Center Gallery (4 novembre 2005 – 21 gennaio 2006).
13 Y. Rainer, A Woman Who… Essays, Interviews, Scripts, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, Maryland, 1999, p. 27.
14 A notarlo è stato per primo Mark Franko, Dancing Modernism – Performing Politics, Indiana University Press, Bloomington, 1995, p. 160 n. 53.
15 Su questi aspetti della trasmissione cfr. C. Choron-Baix, Transmettre et perpétuer aujourd’hui, in «Ethnologie Française», n. 3, 2003, p. 359.

.

.

Susanne Franco è ricercatore presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato vari saggi sulla danza moderna e contemporanea e i volumi Martha Graham (L’Epos 2003 e 2006) Frédéric Flamand (L’Epos 2004). Ha curato il numero monografico Audruckstanz: il corpo, la danza e la critica (“Biblioteca Teatrale” 2006), e con Marina Nordera i volumi I discorsi della danza. Parole chiave per una metodologia della ricerca (UTET Università 2005 e 2007; tr. ing. Routledge 2007) e Ricordanze. Memoria in movimento e coreografie della storia (UTET Università 2010). Dirige la collana “Dance for Word/Dance Forward. Interviste sulla coreografia contemporanea” (L’Epos).