1 – La storia in un nome
L’ultimo libro di Igiaba Scego ha un titolo brevissimo e complicato: Adua. Toponimo diventato nome di persona, Adua è solo uno degli appellativi a cui risponde la protagonista della storia. Nome imposto (i nomi, tradizionalmente, si impongono, cosa che ne rammenta l’arbitrarietà e il legame con molteplici forme di autorità e potere) da un padre perduto e solo parzialmente ritrovato a una bambina sospesa tra diversi spazi e molteplici incroci di culture. La parola ‘Adua’ racconta, nel romanzo, una storia di battaglie, pubbliche e private, ed è segnale di molteplici, non sempre visibili, traduzioni:
Adua, perché hai detto alla maestra che ti chiami Habiba? Quante volte te l’ho detto che ti chiami Adua? Habiba è il nome che avevi da nomade, quello che ti ha dato la sciocca romantica di tua madre quando è rimasta incinta di te. Habiba è un nome sporco, unto. È un nome plebeo, da prostituta. Mia figlia mica poteva avere un nome così banale, ti pare? Habiba significa amore in arabo… puah, io ci sputo sopra l’amore! L’amore non esiste. Questo è un nome inutile, mettitelo in testa. Molto meglio Adua. Dovresti rinmgraziarmi, ti ho dato il nome della prima vittoria africana contro l’imperialismo. Io, tuo padre, stavo dalla parte giusta. E non devi mai credere il contrario. Io ho fatto solo cose giuste nella vita, unicamente cose giuste. Non come quella debosciata di Asha la Temeraria. L’unica cosa di veramente temerario che ha fatto tua madre è stata morire. Non ha fatto altro, solo morire. Io invece combattevo con i giusti. Dentro il tuo nome c’è una battaglia, la mia… (49)
L’arabo tradotto in italiano nelle parole di un padre somalo che ha vissuto gli anni del fascismo suona sporco e unto, puzza di nomadismo e sentimentalismo assieme. Adua, toponimo tradotto nella lingua di un colonialismo segnato da storiche sconfitte, parla di battaglie personali e collettive: sotto l’orgogliosa rivendicazione di quella prima vittoria africana si affacciano il rancore per un amore perduto e quello per una storia personale fatta di ripetute delusioni, che non sempre consentono di stare davvero dalla parte dei giusti. Ci sono confini di genere e di classe sociale, gerarchie familiari oltre che coloniali, inscritte in quelle righe e nella scelta di Adua piuttosto che Habiba come traduzione prediletta del nome di una figlia mai del tutto accettata o pienamente rifiutata. Tradurre un nome diventa gesto di appropriazione – importante anche se in gran parte fallimentare – di una storia individuale segnata da una memoria storica transnazionale.
Per Adua-Habiba, diventata adulta, l’Italia e Roma sono non più il centro del potere coloniale, ma luogo di fuga e polo di attrazione in una parabola che mischia la reificazione della cultura e quella delle persone, l’esotismo e l’erotismo come merci di scambio e meccanismi di (spesso immaginaria) mobilità, non solo geografica ma anche sociale. Adua è persona tradotta e traslata: inizialmente sfruttata, usata, ridotta in oggetto di desiderio in un film semi-pornografico intitolato Femina Somala, si ritrova gradualmente trasformata nella figura di una migrante di mezza età, a sua volta interprete, mediatrice, traduttrice per una nuova generazione di somali in arrivo da un paese in cui lei sogna e non sogna di tornare. Alla fine di un racconto in cui voci e momenti storici diversi si intrecciano, Adua ha in mano una telecamera: dono inatteso che, forse, la aiuterà finalmente a narrarsi come le pare e piace, a ‘scoprire cosa c’è al di là del mare’ (174). Il diritto ad autotradursi, ad autorappresentarsi non è facile da conquistare.
Adua è nome altrettanto ambiguo e tradotto quando a portarlo è una donna italiana senza legami apparenti con il mondo coloniale e postcoloniale. Più o meno dieci anni fa, ho incontrato la mia prima Adua, anche in quel caso a Roma (in una pensione di Trastevere, per essere precisa). Nome imposto, in questo caso, a una bambina italiana negli anni del dopoguerra. Forse da un genitore ‘nostalgico’? O forse in omaggio a un’altra Adua già presente in famiglia, magari nata in tempi in cui quel nome era il rimando a una memoria da ‘vendicare’? Non ho domandato all’epoca, quindi non ho risposta al quesito, ma posso immaginare traduzioni multiple, fatte di ricordi e cancellazioni. La traduzione di Adua in un nome di donna apre le porte a entrambe le operazioni: segnalare il persistere di una memoria storica a livello popolare, o trasformarla in un segno senza altro significato se non la persona che lo porta, svincolando la parola dalla sua origine e dai traumi collettivi che la affollano. Come ogni traduzione, ‘Adua’ è capace di accogliere significati e gesti ambigui, multiformi, mobili, e per questo tanto più interessanti. Ogni traduzione è un processo di arricchimento e semplificazione, di falsificazione e svelamento. ‘Adua’, parola tradotta, raccoglie la storia di una donna, quella di un padre, e quella di almeno due nazioni in un nome.
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2- Falchi e colombe
‘Adua’ ci rammenta che c’è sempre almeno una doppia prospettiva per leggere la storia e la sua memoria, e che per accedere a quella doppia prospettiva dobbiamo fare attenzione ai processi di traduzione. La memoria è uno dei collanti su cui si costruiscono l’identità e il senso di appartenenza. Sulla memoria si regge l’idea di una soggettività dotata di tratti distintivi e riconoscibili nel tempo, e sempre sulla memoria si basa la possibilità di immaginare comunità costruite su legami che vanno oltre quelli generati da una prossimità immediata. Ma limitare la memoria allo spazio della nazione vuol dire dimenticare quella incontenibilità che le viene da molteplici, ripetuti atti di traduzione. Come hanno sottolineato Astrid Erll, Michael Rothberg e altri, i processi di costruzione, articolazione e circolazione della memoria attraversano e al tempo stesso costituiscono reti transnazionali, senza per questo confondersi in una indifferenziata dimensione globale. Pensare a questi processi come pratiche traduttive, fatte di continue riscritture e dotate di una natura necessariamente appropriativa oltre che trasformativa, significa pensare la memoria come una costruzione corale, spesso caratterizzata dalla presenza di voci dissonanti e contraddittorie.
La migrazione, in quanto fenomeno di mobilità geografica e sociale, è intrinsecamente legata alla traduzione, intesa come mobilità linguistica e culturale. Costringere la memoria della migrazione – e lo stesso vale per quella del colonialismo – all’interno di una prospettiva nazionale restringe il campo visivo e distorce la narrazione. E quella distorsione rende invisibile ogni strategia di traduzione, naturalizzando immagini estreme e parziali della migrazione, e consentendo di categorizzare come separati fenomeni che sono in realtà strettamente connessi. In questo modo si finisce per raccontare la storia dell’emigrazione da un lato, quella dell’immigrazione dall’altro, e magari quella delle migrazioni interne come un ulteriore, distinto paradigma. Oppure si presenta la migrazione come mobilità geografica separandola elegantemente e sommariamente dai processi di mobilità sociale (o dalla loro assenza). O ancora si raccontano i fenomeni migratori concentrandosi su momenti isolati e ignorando la dimensione diacronica che collega, ad esempio, il passato coloniale al presente neocoloniale, ed entrambi alle migrazioni di massa.
Può sembrare accademico domandarsi se i diversi fenomeni migratori siano da studiarsi separatamente o congiuntamente, ma le conseguenze di quella unione o separazione per la percezione e l’atteggiamento nei confronti di chi migra – piuttosto che della migrazione come concetto – sono sostanziali e possono aver effetti drammatici. Nel contesto italiano, la tendenza a mantenere una distinzione forte tra emigrazione e immigrazione è una caratteristica che accomuna molteplici posizioni, anche diametricamente opposte (almeno in apparenza) rispetto alla cosidetta ‘emergenza migrazione’. ‘Falchi’ e ‘colombe’ hanno in comune la tendenza a tenere fermamente separati ‘noi’ e ‘loro’. Per i primi, gli italiani sembrano non essere mai stati emigranti. Se lo sono stati non c’è comunque equivalenza o possibilità di comparazione tra quelle storie e le storie di odierna immigrazione. E se proprio il paragone diventa inevitabile la spiegazione è da trovarsi in ulteriori interne divisioni tra ‘noi’ e ‘loro’, dove l’altro interno è altrettanto abietto e indesiderabile dell’‘invasore’ straniero. Per i ‘buonisti’ d’altro canto, la dislocazione è prevalentemente temporale. Eravamo anche noi emigranti, ma non lo siamo più. Modernizzazione e benessere ci hanno trasformato ed elevato (con buona pace di Pasolini e dei suoi timori sulle mutazioni antropologiche del Novecento). I due stratagemmi discorsivi sono egualmente efficaci ed entrambi portano a due risultati distinti ma complementari. Per un verso rafforzano la distinzione tra il sé e l’altro, mentre dall’altro rendono invisibile una realtà sentita come altamente indesiderabile, vale a dire il fatto che l’Italia non ha mai cessato di essere paese di emigrazione. Quell’occlusione è tanto più drammatica (e politicamente strategica) in un momento in cui il numero degli italiani che lasciano l’Italia è in realtà in crescita, non in diminuzione, tanto da far parlare di una nuovo esodo della ‘meglio Italia’ (Tirabassi e del Pra’)..
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3- Dalla traduzione al tessuto traduttivo
La mobilità e l’immobilità hanno valori diversi quando si associano a diversi profili, individuali o di gruppo. Non tutti i migranti sono dello stesso tipo e non tutti hanno la stessa visibilità, lo stesso valore sul mercato del lavoro, o lo stesso diritto alla mobilità. Quello che può sembrare paradossale (ma lo è solo in apparenza) è che la mobilità del migrante è spesso inversamente proporzionale alla sua visibilità. Una volta identificato come ‘migrante’, un individuo o un gruppo diventa potenzialmente meno mobile, o per lo meno si desidera o si cerca di renderlo immobile.
Allo stesso modo non tutte le traduzioni hanno lo scopo di rendere le culture più permeabili. Naoki Sakai ha illustrato in maniera eloquente il modo in cui la traduzione può essere impiegata come strumento di contenimento al servizio di ideologie nazionaliste intente a controllare i confini (immaginari, ma non per questo meno forti) di una cultura nazionale. E il rapporto tra l’imposizione di confini, le pratiche di traduzione e le forme di controllo della forza lavoro è uno dei concetti chiave in Border as Method, or, the Multiplication of Labor di Sandro Mezzadra e Brett Neilson. Ma Mezzadra e Neilson sottolineano anche come la traduzione possa diventare una pratica fondante di nuove forme di collaborazione sociale. Perché questo sia possibile, è però necessario ripensare radicalmente il concetto di traduzione.
Nella sua forma più canonica e restrittiva, la traduzione è un processo linguistico che trasporta un testo già esistente e di per sé completo da una lingua a un’altra. La definizione si può però ampliare, allargandola in centri concentrici. All’elemento linguistico si affianca quello culturale. Alle pratiche di traduzione linguistica si aggiungono quelle intersemiotiche. E alla nozione di coppie di testi, lingue e culture distinte tra cui muoversi con linearità in un modello fermamente binario si sostituisce quella di processi di produzione e circolazione ben più fluidi, in cui scrittura e riscrittura si intersecano, lasciando spazio a pratiche di adattamento, autotraduzione, e eterolinguismo, o producendo testi la cui esistenza sarabbe impossibile senza strategie molteplici e complesse di traduzione, presenti nella comunicazione fin dall’inizio e non come un accidente intervenuto a posteriori.
Intesa in questo senso, la traduzione forma un continuum che incontriamo quotidianamente e spesso senza accorgercene. Si tratta di un tessuto traduttivo che, come la trama e l’ordito di un lavoro a telaio, tiene assieme le pratiche sociali più complesse. Basta cominciare a cercarli, e i fili di quel tessuto sono ovunque: nei nostri dialoghi quotidiani, nei testi che leggiamo e in quelli che ascoltiamo, negli strumenti di comunicazione che usiamo. La permeabilità di lingue e culture diventa talmente evidente da far parlare di una generale condizione di ‘postmonolinguismo’ in cui i due poli antitetici di mono- e multi-linguismo appaiono egualmente incapaci di descrivere una mobilità intrinseca che rende le lingue e le culture incontenibili dentro confini rigidi e codificati (Yildiz; Gramlin).
Quello che la traduzione insegna non è che ogni spostamento, ogni trasformazione ha un esito positivo, ma piuttosto che la mobilità è già inscritta nelle nostre pratiche sociali. L’idea di una immobilità geografica garantita da confini e barriere sempre più rigidi si scontra con pratiche culturali che negano sia l’efficacia che la desiderabilità di un modello basato sull’immobilità come valore, cercato o imposto che questo sia. Adua e le sue molteplici traduzioni non cancellano la memoria storica del conflitto coloniale o quella personale di sfruttamento e mercificazione. Ma creano uno spazio per un possibile confronto tra diverse interpretazioni, diverse memorie, diversi desideri. In quello spazio è possibile immaginare di prendere in mano la telecamera e cominciare a raccontare un’altra storia, o andare a scoprire cosa c’è al di là del mare.
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Bibliografia
Erll, Astrid, Memory in Culture, trad. Sara B. Young, Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2011
Gramling, David, “The Invention of Monolingualism from the Spirit of Systematic Transposability’, in Mehrsprachige Gegenwartsliteratur—Philologische Herausforderungen, a cura di Georg Mein e Till Dembeck, Heidelberg: University of Luxembourg, 2013, 113-34
Mezzadra, Sandro, e Brett Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labour, Durham e Londra: Duke University Press, 2013
Rothberg, Michael, “Multidirectional Memory in Migratory Settings: The Case of Post-Holocaust Germany”, in Transnational Memory: Circulation, Articulation, Scales, a cura di Chiara De Cesari e Ann Rigney, Berlino: de Gruyter, 2014, 123-46
Sakai, Naoki, Translation and Subjectivity, Minneapolis: University of Minnesota Press, 1997
Scego, Igiaba, Adua, Firenze: Giunti, 2015
Tirabassi, Maddalena, e Alvise del Pra’, La meglio Italia. Le mobilità italiane nel XXI secolo, Torino: Centro Altreitalie/aAccademia University Press, 2014.
Yildiz, Yasemin, Beyond the Mother Tongue: The Postmonolingual Condition, New York: Fordham University Press, 2012
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Loredana Polezzi è Professore Ordinario di Storia e Teoria della Traduzione (Translation Studies) all’Università di Cardiff. I suoi interessi di ricerca includono la scrittura di viaggio, gli studi sulla traduzione e la letteratura della migrazione. È autrice o curatrice di vari volumi e di numeri monografici delle riviste The Translator,Studies in Travel Writing e Textus. Dal 2014 dirige la rivista The Translator (Routledge) con Rita Wilson ed è impegnata nel progetto ‘Transnationalizing Modern Languages: Mobility, Identity and Translation in Italian Cultures’.